un soldato di Cristo in lotta con le legioni infernali tutte, e ardevo dal desiderio di mettere le mani sullo sconosciuto per consegnarlo al mio maestro. Ruzzolai quasi lungo le scale a chiocciola inciampando nei lembi della mia veste (quello fu l'unico momento della mia vita, lo giuro, che rimpiansi di essere entrato in un ordine monastico!) ma in quello stesso istante, e fu pensiero di un lampo, mi consolai all'idea che anche il mio avversario doveva soffrire dello stesso impaccio. E in più, se aveva sottratto il libro, doveva avere le mani occupate. Precipitai quasi nella cucina dietro il forno del pane e, alla luce della notte stellata che illuminava pallidamente il vasto androne, vidi l'ombra che inseguivo, che infilava la porta del refettorio tirandola dietro di sé. Mi precipitai verso di quella, faticai qualche secondo ad aprirla, entrai, mi guardai attorno, e non vidi più nessuno. La porta che dava sull'esterno era ancora sprangata. Mi voltai. Ombra e silenzio. Scorsi un bagliore venire dalla cucina e mi addossai a un muro. Sulla soglia di passaggio tra i due ambienti apparve una figura illuminata da un lume. Gridai. Era Guglielmo.
“Non c'è più nessuno? Lo prevedevo. Colui non è uscito da una porta. Non ha infilato il passaggio dell'ossario?”
“No, è uscito di qui, ma non so da dove!”
“Te l'ho detto, ci sono altri passaggi, ed è inutile che li cerchiamo. Magari il nostro uomo sta riemergendo da qualche parte lontana. E con lui le mie lenti.”
“Le vostre lenti?”
“Proprio così. Il nostro amico non ha potuto sottrarmi il foglio ma, con grande presenza di spirito, passando ha afferrato dal tavolo i miei vetri.”
“E perché?”
“Perché non è uno sciocco. Mi ha sentito parlare di questi appunti, ha capito che erano importanti, ha pensato che senza le lenti non sarò in grado di decifrarli e sa per certo che non mi fiderò di mostrarli a nessuno. Infatti, ora è come se non li avessi.”
“Ma come faceva a sapere delle vostre lenti?”
“Suvvia, a parte il fatto che ne abbiamo parlato ieri col maestro vetraio, stamane nello scriptorium me le sono inforcate per frugare tra le carte di Venanzio.
Quindi ci sono molte persone che potrebbero sapere quanto quegli oggetti fossero preziosi. E infatti potrei anche leggere un manoscritto normale, ma non questo,” e stava srotolando di nuovo la misteriosa pergamena, “dove la parte in greco è troppo piccola, e la parte superiore troppo incerta...”
Mi mostrò i segni misteriosi che erano apparsi come d'incanto al calore della fiamma: “Venanzio voleva celare un segreto importante e ha usato uno di quegli inchiostri che scrivono senza lasciar traccia e riappaiono al calore. Oppure ha usato del succo di limone. Ma siccome non so che sostanza abbia usato e i segni potrebbero riscomparire, presto, tu che hai gli occhi buoni, ricopiali subito nel modo più fedele che puoi, e magari un poco più grandi.” E così feci, senza sapere cosa copiassi. Si trattava di una serie di quattro o cinque linee invero stregonesche, e riporto ora solo i primissimi segni, per dare al lettore una idea dell'enigma che avevamo davanti agli occhi.
Quando ebbi copiato Guglielmo guardò, purtroppo senza lenti, tenendo la mia tavoletta a una buona distanza dal naso. “E' certamente un alfabeto segreto che occorrerà decifrare,” disse. “I segni sono tracciati male, e forse tu li hai ricopiati peggio, ma si tratta certamente di un alfabeto zodiacale. Vedi? Nella prima linea abbiamo...” allontanò ancora il foglio da sé, strinse gli occhi, con uno sforzo di concentrazione: “Sagittario, Sole, Mercurio, Scorpione...”
“E cosa significano?”
“Se Venanzio fosse stato un ingenuo avrebbe usato l'alfabeto zodiacale più comune: A uguale a Sole, B uguale a Giove... La prima linea si leggerebbe allora...
prova a trascrivere: RAIQASVL...” S'interruppe. “No, non vuole dire nulla, e Venanzio non era ingenuo. Ha riformulato l'alfabeto secondo un'altra chiave. Dovrò scoprirla.”
“E' possibile?” domandai ammirato.
“Sì, se si conosce un poco della sapienza degli arabi. I migliori trattati di criptografia sono opera di sapienti infedeli, e a Oxford ho potuto farmene leggere qualcuno. Bacone aveva ragione a dire che la conquista del sapere passa attraverso la conoscenza delle lingue. Abu Bakr Ahmad ben Ali ben Washiyya an-Nabati ha scritto secoli fa un Libro del frenetico desiderio del devoto di apprendere gli enigmi delle antiche scritture e ha esposto molte regole per comporre e decifrare alfabeti misteriosi, buoni per pratiche di magìa, ma anche per la corrispondenza tra gli eserciti, o tra un re e i propri ambasciatori. Ho visto altri libri arabi che elencano una serie di artifici assai ingegnosi. Puoi per esempio sostituire una lettera con un'altra, puoi scrivere una parola a rovescio, puoi mettere le lettere in ordine inverso, ma prendendone una sì e una no, e poi ricominciando da capo, puoi come in questo caso sostituire le lettere con segni zodiacali, ma attribuendo alle lettere nascoste il loro valore numerico e poi, secondo un altro alfabeto, convertire i numeri in altre lettere...”
“E quale di questi sistemi avrà usato Venanzio?”
“Bisognerebbe provarli tutti, e altri ancora. Ma la prima regola per decifrare un messaggio è indovinare cosa voglia dire.”
“Ma allora non c'è più bisogno di decifrarlo!” risi.
“Non in questo senso. Si possono però formulare delle ipotesi su quelle che potrebbero essere le prime parole del messaggio, e poi vedere se la regola che se ne inferisce vale per tutto il resto dello scritto. Per esempio, qui Venanzio ha certamente annotato la chiave per penetrare nel finis Africae. Se io provo a pensare che il messaggio parli di questo, ecco che sono illuminato all'improvviso da un ritmo...
Prova a guardare le prime tre parole, non considerare le lettere, considera solo il numero dei segni... llllllll lllll lllllll... Ora prova a dividere in sillabe di almeno due segni ciascuna, e recita ad alta voce: ta-ta-ta, ta-ta, ta-ta-ta... Non ti viene in mente nulla?”
“A me no.”
“E a me sì. Secretum finis Africae... Ma se così fosse l'ultima parola dovrebbe avere la prima e la sesta lettera uguali, e così infatti è, ecco due volte il simbolo della Terra. E la prima lettera della prima parola, la S, dovrebbe essere uguale all'ultima della seconda: e infatti ecco ripetuto il segno della Vergine. Forse è la strada buona.
Però potrebbe trattarsi solo di una serie di coincidenze. Occorre trovare una regola di corrispondenza...”
“Trovarla dove?”
“Nella testa. Inventarla. E poi vedere se è quella vera. Ma tra una prova e l'altra il gioco potrebbe portarmi via una giornata intera. Non di più perché -
ricordalo - non c'è scrittura segreta che non possa essere decifrata con un po' di pazienza. Ma ora rischiamo di far tardi e vogliamo visitare la biblioteca. Tanto più che senza lenti non riuscirò mai a leggere la seconda parte del messaggio, e tu non mi puoi aiutare perché questi segni, ai tuoi occhi...”
“Graecum est, non legitur,” completai umiliato.
“Appunto, e vedi che aveva ragione Bacone. Studia! Ma non perdiamoci d'animo. Riponiamo la pergamena e i tuoi appunti, e saliamo in biblioteca. Perché questa sera nemmeno dieci legioni infernali riusciranno a trattenerci.”.
Mi segnai. “Ma chi può essere stato a precederci qui? Bencio?”
“Bencio ardeva dalla voglia di sapere cosa ci fosse tra le carte di Venanzio, ma non mi pareva nello spirito di giocarci tiri così maliziosi. In fondo ci aveva proposto un'alleanza, e poi mi aveva l'aria di non avere il coraggio di entrare di notte nell'Edificio.”
“Allora Berengario? O Malachia?”
“Berengario mi sembra aver l'animo di far cose del genere. In fondo è corresponsabile della biblioteca, è roso dal rimorso di averne tradito qualche segreto, riteneva che Venanzio avesse sottratto quel libro e voleva forse riportarlo al posto da cui viene. Non è riuscito a salire, ora sta nascondendo il volume da qualche parte e potremo coglierlo sul fatto, se Dio ci assiste, quando tenterà di rimetterlo a posto.”
“Ma potrebbe anche essere Malachia, mosso dalle stesse intenzioni.”
“Direi di no. Malachia aveva avuto tutto il tempo che voleva per frugare nel tavolo di Venanzio quando è rimasto solo per chiudere l'Edificio. Lo sapevo benissimo e non avevo modo di evitarlo. Ora sappiamo che non l'ha fatto. E se ben rifletti, non abbiamo motivo per sospettare che Malachia sapesse che Venanzio era entrato in biblioteca sottraendo qualcosa. Questo lo sanno Berengario e Bencio e lo sappiamo tu e io. In seguito alla confessione di Adelmo potrebbe saperlo Jorge, ma non era certo lui l'uomo che si precipitava con tanta foga dalla scala a chiocciola...”
“Allora o Berengario o Bencio...”
“E perché no Pacifico da Tivoli o un altro dei monaci che abbiamo visto qui oggi? O Nicola il vetraio, che sa dei miei occhiali? O quel bizzarro personaggio di Salvatore, che ci han detto girar di notte per chissà quali faccende? Dobbiamo stare attenti a non restringere il campo dei sospetti solo perché le rivelazioni di Bencio ci hanno orientato in una sola direzione. Bencio forse voleva confonderci.”
“Ma vi è parso sincero.”
“Certo. Ma ricordati che il primo dovere di un buon inquisitore è quello di sospettare per primi coloro che ti paiono sinceri.”
“Brutto lavoro quello dell'inquisitore,” dissi.
“Per questo l'ho abbandonato. E come vedi mi tocca riprenderlo. Ma orsù, alla biblioteca.”
Secondo giorno
Notte
Dove si penetra finalmente nel labirinto, si hanno strane visioni e, come accade nei labirinti, ci si perde
Rimontammo allo scriptorium, questa volta per la scala orientale, che saliva anche al piano proibito, il lume alto davanti a noi. Io pensavo alle parole di Alinardo sul labirinto e mi attendevo cose spaventevoli.
Fui sorpreso, come emergemmo nel luogo in cui non avremmo dovuto entrare, di trovarmi in una sala a sette lati, non molto ampia, priva di finestre, in cui regnava, come del resto in tutto il piano, un forte odore di stantio o di muffa. Nulla di terrificante.
La sala, dissi, aveva sette pareti, ma solo su quattro di esse si apriva, tra due colonnine incassate nel muro, un varco, un passaggio abbastanza ampio sormontato da un arco a tutto sesto. Lungo le pareti chiuse si addossavano enormi armadi, carichi di libri disposti con regolarità. Gli armadi portavano un cartiglio numerato e così pure ogni loro singolo ripiano: chiaramente gli stessi numeri che avevamo visto nel catalogo. In mezzo alla stanza un tavolo, anch'esso ripieno di libri. Su tutti i volumi un velo abbastanza leggero di polvere, segno che i libri venivano puliti con una certa frequenza. E anche per terra non vi era lordura di sorta. Sopra all'arco di una delle porte, un grande cartiglio, dipinto sul muro che recava le parole: Apocalypsis Iesu Christi. Non pareva sbiadito, anche se i caratteri erano antichi. Ci avvedemmo dopo, anche nelle altre stanze, che questi cartigli erano in verità incisi nella pietra, e abbastanza profondamente, e poi le cavità erano state riempite con della tinta, come si usa per affrescare le chiese.
Passammo per uno dei varchi. Ci trovammo in un'altra stanza, dove si apriva una finestra, che in luogo dei vetri portava lastre di alabastro, con due pareti piene e un varco, dello stesso tipo di quello da cui eravamo appena passati, che dava su un'altra stanza, la quale aveva due pareti piene anch'esse, una con finestra, e un'altra porta che si apriva davanti a noi. Nelle due stanze due cartigli simili nella forma al primo che avevamo visto, ma con altre parole. Il cartiglio della prima diceva: Super thronos viginti quatuor, e quello della seconda: Nomen illi mors. Per il resto, anche se le due stanze erano più piccole di quella da cui eravamo entrati in biblioteca (infatti quella era eptagonale e queste due rettangolari) l'arredo era lo stesso: armadi con libri e tavolo centrale.
Accedemmo alla terza stanza. Essa era vuota di libri e senza cartiglio. Sotto alla finestra un altare di pietra. Vi erano tre porte, una da cui eravamo entrati, l'altra che dava sulla stanza eptagonale già visitata, una terza che ci immise in una nuova stanza, non dissimile dalle altre, salvo che per il cartiglio che diceva: Obscuratus est
sol et aer. Di qui si passava a una nuova stanza, il cui cartiglio diceva Facta est grando et ignis; era priva di altre porte, ovvero, arrivati a quella stanza non si poteva procedere e occorreva tornare indietro.
“Ragioniamo,” disse Guglielmo. “Cinque stanze quadrangolari o vagamente trapezoidali, con una finestra ciascuna, che girano intorno a una stanza eptagonale senza finestre a cui sale la scala. Mi pare elementare. Siamo nel torrione orientale, ogni torrione dall'esterno presenta cinque finestre e cinque lati. Il conto torna. La stanza vuota è proprio quella che guarda a oriente, nella stessa direzione del coro della chiesa, la luce del sole all'alba illumina l'altare, il che mi sembra giusto e pio.
L'unica idea astuta mi pare quella delle lastre di alabastro. Di giorno filtrano una bella luce, di notte non lasciano trasparire neppure i raggi lunari. Non è poi un gran labirinto. Ora vediamo dove portano le altre due porte della stanza eptagonale. Credo che ci orienteremo facilmente.”
Il mio maestro si sbagliava e i costruttori della biblioteca erano stati più abili di quanto credessimo. Non so bene spiegare cosa avvenne, ma come abbandonammo il torrione, l'ordine delle stanze si fece più confuso. Alcune avevano due, altre tre porte.
Tutte avevano una finestra, anche quelle che imboccavamo partendo da una stanza con finestra e pensando di andare verso l'interno dell'Edificio. Ciascuna aveva sempre lo stesso tipo di armadi e di tavoli, i volumi in bell'ordine ammassati sembravano tutti uguali e non ci aiutavano certo a riconoscere il luogo con un colpo d'occhio. Tentammo di orientarci coi cartigli. Una volta avevamo attraversato una stanza in cui era scritto In diebus illis e dopo alcuni giri ci parve di essere tornati laggiù. Ma ricordavamo che la porta davanti alla finestra immetteva in una stanza in cui era scritto Primogenitus mortuorum, mentre ora ne trovavamo un'altra che diceva di nuovo Apocalypsis Iesu Christi, e non era la sala eptagonale da cui eravamo partiti. Questo fatto ci convinse che talora i cartigli si ripetevano uguali in stanze diverse. Trovammo due stanze con Apocalypsis una appresso all'altra, e subito dopo una con Cecidit de coelo stella magna.
Da dove provenissero le frasi dei cartigli era evidente, si trattava di versetti dell'Apocalisse di Giovanni, ma non era affatto chiaro né perché fossero dipinti sui muri, né secondo quale logica fossero disposti. Ad accrescere la nostra confusione, rilevammo che alcuni cartigli, non molti, erano in color rosso anziché in nero.
A un certo punto ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza (quella era riconoscibile perché vi si apriva l'imbocco della scala), e riprendemmo a muoverci verso la nostra destra cercando di andare diritti di stanza in stanza. Passammo per tre stanze e poi ci trovammo di fronte a una parete chiusa. L'unico passaggio immetteva in una nuova stanza che aveva solo un'altra porta, uscendo dalla quale percorremmo altre quattro stanze e ci trovammo di nuovo di fronte a una parete. Tornammo alla stanza precedente che aveva due uscite, imboccammo quella non ancora tentata, passammo in una nuova stanza, e ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza.
“Come si chiamava l'ultima stanza da cui siamo tornati indietro?” chiese Guglielmo.
Feci uno sforzo di memoria: “Equus albus.”
“Bene, ritroviamola.” E fu facile. Di lì, se non si voleva tornare sui propri passi, non c'era che da passare alla stanza detta Gratia vobis et pax, e di lì a destra ci parve di trovare un nuovo passaggio che non ci riportasse indietro. In effetti trovammo ancora In diebus illis e Primogenitus mortuorum (erano le stesse stanze di poco prima?) ma infine giungemmo in una stanza che non ci pareva di aver ancora visitato: Tertia pars terrae combusta est. Ma a quel punto non sapevamo più dove eravamo rispetto al torrione orientale.
Protendendo il lume in avanti mi spinsi nelle stanze seguenti. Un gigante di proporzioni minacciose, dal corpo ondulato e fluttuante come quello di un fantasma, mi venne incontro.
“Un diavolo!” gridai e poco mancò mi cadesse il lume, mentre mi voltavo di colpo e mi rifugiavo tra le braccia di Guglielmo. Questi mi prese il lume dalle mani e scostandomi si fece avanti con una decisione che mi parve sublime. Vide anch'egli qualcosa, perché arretrò bruscamente. Poi si protese di nuovo in avanti e alzò la lucerna. Scoppiò a ridere.
“Veramente ingegnoso. Uno specchio!”
“Uno specchio?”
“Sì, mio prode guerriero. Ti sei lanciato con tanto coraggio su un nemico vero, poco fa nello scriptorium, e ora ti spaventi di fronte alla tua immagine. Uno specchio, che ti rimanda la tua immagine ingrandita e distorta.”
Mi prese per mano e mi condusse di fronte alla parete che fronteggiava l'ingresso della stanza. In una lastra di vetro ondulata, ora che il lume l'illuminava più da vicino, vidi le nostre due immagini, grottescamente deformate, che mutavano di forma e di altezza a seconda di quanto ci approssimassimo o ci allontanassimo.
“Devi leggerti qualche trattato di ottica,” disse Guglielmo divertito, “come certo l'hanno letto i fondatori della biblioteca. I migliori sono quelli degli arabi.
Alhazen compose un trattato De aspectibus in cui, con precise dimostrazioni geometriche, ha parlato della forza degli specchi. Alcuni dei quali, a seconda di come è modulata la loro superficie, possono ingrandire le cose più minuscole (e che altro sono le mie lenti?), altri fanno apparire le immagini rovesciate, o oblique, o mostrano due oggetti in luogo di uno, e quattro in luogo di due. Altri ancora, come questo, fanno di un nano un gigante o di un gigante un nano.”
“Gesù Signore!” dissi. “Sono dunque queste le visioni che qualcuno dice di aver avuto in biblioteca?”
“Forse. Un'idea davvero ingegnosa.” Lesse il cartiglio sul muro, sopra lo specchio: Super thronos viginti quatuor. “L'abbiamo già trovato, ma era una sala senza specchio. E questa tra l'altro non ha finestre, eppure non è eptagonale. Dove siamo?” Si guardò intorno e si avvicinò a un armadio: “Adso, senza quei benedetti oculi ad legendum non riesco a capire cosa ci sia scritto su questi libri. Leggimi qualche titolo.”
Presi un libro a caso: “Maestro non è scritto!”
“Come? Vedo che è scritto, cosa leggi?”
“Non leggo. Non sono lettere dell'alfabeto e non è greco, lo riconoscerei.
Sembrano vermi, serpentelli, caccole di mosche...”
“Ah, è arabo. Ce ne sono altri così?”
“Sì, alcuni. Ma eccone uno in latino, se Dio vuole. Al... Al Kuwarizmi, Tabulae.”
“Le tavole astronomiche di Al Kuwarizmi, tradotte da Adelardo da Bath!
Opera rarissima! Va avanti.”
“Isa ibn Ali, De oculis, Alkindi, De radiis stellatis...”
“Guarda ora sul tavolo.”
Aprii un grande volume che giaceva sul tavolo, un De bestiis. Capitai su una pagina finemente miniata dove era rappresentato un bellissimo unicorno.
“Bella fattura,” commentò Guglielmo che riusciva a vedere bene le immagini.
“E quello?”
Lessi: “Liber monstrorum de diversis generibus. Anche questo con belle immagini, ma mi paiono più antiche.”
Guglielmo piegò il volto sul testo: “Miniato da monaci irlandesi, almeno cinque secoli fa. Il libro dell'unicorno è invece molto più recente, mi pare fatto al modo dei francesi.” Ancora una volta ammirai la dottrina del mio maestro.
Entrammo nella stanza successiva e percorremmo le quattro stanze seguenti, tutte con finestre, e tutte piene di volumi in lingue ignote, più alcuni testi di scienze occulte, e arrivammo a una parete che ci costrinse a tornare indietro perché le ultime cinque stanze penetravano le une nelle altre senza consentire altre uscite.
“Dall'inclinazione dei muri, dovremmo essere nel pentagono di un altro torrione,” disse Guglielmo, “ma non c'è la sala eptagonale centrale, forse ci sbagliamo.”
“Ma le finestre?” dissi. “Come possono esserci tante finestre? Impossibile che tutte le stanze diano sull'esterno.”
“Dimentichi il pozzo centrale, molte di quelle che abbiamo visto sono finestre che danno sull'ottagono del pozzo. Se fosse giorno, la differenza della luce ci direbbe quali sono le finestre esterne e quali le interne, e forse persino ci rivelerebbe la posizione della stanza rispetto al sole. Ma di sera non si avverte nessuna differenza.
Torniamo indietro.”
Ritornammo nella stanza dello specchio e piegammo verso la terza porta dalla quale ci pareva di non essere ancora passati. Vedemmo davanti a noi una fuga di tre o quattro stanze, e verso l'ultima intravvedemmo un chiarore.
“C'è qualcuno!” esclamai con voce soffocata.
“Se c'è, si è già accorto del nostro lume,” disse Guglielmo coprendo tuttavia la fiamma con la mano. Ristemmo per un minuto o due. Il chiarore continuava a oscillare lievemente, ma senza che si facesse più forte o più debole.
“Forse è solo una lampada,” disse Guglielmo, “di quelle poste per convincere i monaci che la biblioteca è abitata dalle anime dei trapassati. Ma bisogna sapere. Tu stai qui coprendo il lume, io vado avanti con cautela.”
Ancora vergognoso per la povera figura fatta avanti allo specchio, volli redimermi agli occhi di Guglielmo: “No, vado io,” dissi, “voi restate qui. Procederò cauto, sono più piccolo e più leggero. Appena mi renderò conto che non c'è rischio vi chiamerò.”
E così feci. Procedetti per tre stanze camminando rasente i muri, leggero come un gatto (o come un novizio che scenda in cucina a rubar del cacio in dispensa, impresa in cui eccellevo a Melk). Arrivai alla soglia della stanza da cui proveniva il chiarore, assai debole, strisciando lungo il muro a ridosso della colonna che faceva da stipite destro e sbirciai nella stanza. Non c'era nessuno. Una specie di lampada era posata sul tavolo, accesa, e fumigava stentata. Non era una lucerna come la nostra, sembrava piuttosto un turibolo scoperto, non fiammeggiava, ma una cenere lieve covava bruciando qualcosa. Mi feci coraggio ed entrai. Sul tavolo accanto al turibolo giaceva aperto un libro dai colori vivaci. Mi appressai e scorsi sulla pagina quattro strisce di diverso colore, giallo, cinabro, turchese e terra bruciata. Vi campiva una bestia, orribile a vedersi, un gran dragone con dieci teste che con la coda si traeva dietro le stelle del cielo e le faceva precipitare sulla terra. E improvvisamente vidi che il dragone si moltiplicava, e le squame della sua pelle diventavano come una selva di scaglie rutilanti che si staccarono dal foglio e vennero a rotarmi intorno al capo. Mi arrovesciai indietro e vidi il soffitto della stanza che si inclinava e scendeva sopra di me, poi udii come un sibilo di mille serpenti, ma non spaventoso, quasi seducente, e apparve una donna circonfusa di luce che avvicinò il suo volto al mio alitandomi sul viso. L'allontanai con le mani tese e mi parve che le mie mani toccassero i libri dell'armadio di fronte, o che essi ingrandissero a dismisura. Non mi rendevo più conto di dove fossi, e dove fosse la terra e dove il cielo. Vidi al centro della stanza Berengario che mi fissava con un sorriso odioso, grondante di lussuria.
Mi coprii il volto con le mani e le mie mani mi parvero gli arti di un rospo, viscide e palmate. Gridai, credo, sentii un sapore acidulo in bocca, poi sprofondai in un buio infinito, che sembrava si aprisse sempre di più sotto di me e non seppi più nulla.
Mi risvegliai dopo un periodo che io reputai di secoli, sentendo dei colpi che mi rintronavano nella testa. Ero sdraiato al suolo e Guglielmo mi stava dando schiaffi sulle guance. Non ero più in quella stanza e i miei occhi scorsero un cartiglio che diceva Requiescant a laboribus suis.
“Su su, Adso,” mi sussurrava Guglielmo. “Non è nulla...”
“Le cose...” dissi ancora vaneggiando. “Laggiù, la bestia...”
“Nessuna bestia. Ti ho trovato che deliravi ai piedi di un tavolo con sopra una bella apocalisse mozarabica, aperta sulla pagina della mulier amicta sole che fronteggia il dragone. Ma mi sono accorto dall'odore che tu avevi respirato qualcosa di cattivo e ti ho subito portato via. Anche a me duole il capo.”
“Ma cosa ho visto?”
“Non hai visto nulla. E' che laggiù bruciavano delle sostanze capaci di dar visioni, ho riconosciuto l'odore, è una cosa degli arabi, forse la stessa che il Veglio della Montagna dava ad aspirare ai suoi assassini prima di spingerli alle loro imprese.
E così abbiamo spiegato il mistero delle visioni. Qualcuno pone erbe magiche durante la notte per convincere i visitatori inopportuni che la biblioteca è protetta da presenze diaboliche. Cosa hai provato, infine?”
Confusamente, per quel che ricordavo, gli raccontai della mia visione e Guglielmo rise: “Per metà stavi ampliando quel che avevi scorto nel libro e per l'altra metà lasciavi parlare i tuoi desideri e le tue paure. Questa è l'operazione che attivano
tali erbe. Domani bisognerà parlarne con Severino, credo che ne sappia più di quel che vuol farci credere. Sono erbe, solo erbe, senza bisogno di quelle preparazioni negromantiche di cui ci parlava il vetraio. Erbe, specchi... Questo luogo della sapienza interdetta è difeso da molti e sapientissimi ritrovati. La scienza usata per occultare anziché per illuminare. Non mi piace. Una mente perversa presiede alla santa difesa della biblioteca. Ma è stata una nottata pesante, bisognerà uscire, per ora.
Tu sei sconvolto e hai bisogno di acqua e di aria fresca. Inutile cercare di aprire queste finestre, troppo alte e forse chiuse da decenni. Come han potuto pensare che Adelmo si sia gettato da qui?”
Uscire disse Guglielmo. Come se fosse stato facile. Sapevamo che la biblioteca era accessibile da un solo torrione, quello orientale. Ma dove eravamo in quel momento? Avevamo completamente perso l'orientamento. L'errare che facemmo, col timore di non uscire mai più da quel luogo, io sempre vacillante e colto da conati di vomito, Guglielmo abbastanza preoccupato per me, e indispettito per la pochezza della sua scienza, ci diede, ovvero diede a lui, un idea per il giorno seguente.
Avremmo dovuto tornare nella biblioteca, ammesso che mai ne uscissimo fuori, con un tizzone di legno bruciato, o un'altra sostanza capace di lasciare segni sui muri.
“Per trovare la via di uscita da un labirinto,” recitò infatti Guglielmo, “non vi è che un mezzo. A ogni nodo nuovo, ossia mai visitato prima, il percorso di arrivo sarà contraddistinto con tre segni. Se, a causa di segni precedenti su qualcuno dei cammini del nodo, si vedrà che quel nodo è già stato visitato, si porrà un solo segno sul percorso di arrivo. Se tutti i varchi sono già stati segnati allora bisognerà rifare la strada, tornando indietro. Ma se uno o due varchi del nodo sono ancora senza segni, se ne sceglierà uno qualsiasi, apponendovi due segni. Incamminandosi per un varco che porta un solo segno, ve ne apporremo altri due, in modo che ora quel varco ne porti tre. Tutte le parti del labirinto dovrebbero essere state percorse se, arrivando a un nodo, non si prenderà mai il varco con tre segni, a meno che nessuno degli altri varchi sia ormai privo di segni.”
“Come lo sapete? Siete esperto di labirinti?”
“No, recito da un testo antico che una volta ho letto.”
“E secondo questa regola si esce?”
“Quasi mai, che io sappia. Ma tenteremo lo stesso. E poi nei prossimi giorni avrò delle lenti e avrò tempo a soffermarmi meglio sui libri. Può darsi che là dove il percorso dei cartigli ci confonde, quello dei libri ci dia una regola.”
“Avrete le lenti? Come farete a ritrovarle?”
“Ho detto che avrò delle lenti. Ne farò delle altre. Credo che il vetraio non attenda altro che un'occasione del genere per fare una nuova esperienza. Se avrà gli arnesi giusti per molare i cocci. Quanto ai cocci, in quella bottega ne ha molti.”
Mentre vagavamo cercando la strada, a un tratto, nel centro di una stanza, mi sentii accarezzare sul volto da una mano invisibile, mentre un gemito, che non era umano e non era animale, echeggiava e in quel vano e in quello vicino, come se uno spettro vagasse di sala in sala. Avrei dovuto essere preparato alle sorprese della biblioteca, ma ancora una volta mi terrorizzai e feci un balzo indietro. Anche
Guglielmo doveva aver avuto un'esperienza simile alla mia, perché si stava toccando la guancia, levando in alto il lume e guardandosi intorno
Egli alzò una mano, poi esaminò la fiamma che pareva ora più vivace, quindi si umettò un dito e lo tenne dritto davanti a sé.
“E' chiaro,” disse poi, e mi mostrò due punti, su due opposte pareti, ad altezza d'uomo. Si aprivano ivi due strette feritoie, avvicinando la mano alle quali si poteva sentire l'aria fredda che proveniva dall'esterno. Avvicinandovi poi l'orecchio si sentiva uno stormire, come se di fuori ora tirasse vento.
“La biblioteca doveva pur avere un sistema di areazione,” disse Guglielmo,
“altrimenti l'atmosfera sarebbe irrespirabile, specie d'estate. Inoltre queste feritoie provvedono anche una giusta dose di umidità, affinché le pergamene non si secchino.
Ma l'accortezza dei fondatori non si è fermata qui. Disponendo le feritoie secondo certi angoli, si sono garantiti che nelle notti di vento i soffi che penetrano da questi meati si incrocino con altri soffi, e si ingorghino entro la fuga delle stanze, producendo i suoni che abbiamo udito. I quali, uniti agli specchi e alle erbe, aumentano il timore degli incauti che qui penetrassero, come noi, senza conoscere bene il luogo. E noi stessi abbiamo pensato per un attimo che dei fantasmi ci alitassero sul viso. Ce ne siamo resi conto solo ora perché solo ora si è levato il vento. E anche questo mistero è risolto. Ma con tutto ciò non sappiamo ancora come uscire!”
Così parlando girovagavamo a vuoto, ormai smarriti, trascurando di leggere i cartigli che apparivano tutti uguali. Incappammo in una nuova sala eptagonale, girammo per le stanze vicine, non trovammo alcuna uscita. Tornammo sui nostri passi, camminammo per quasi un'ora, rinunciando a sapere dove eravamo. A un certo punto Guglielmo decise che eravamo sconfitti, non rimaneva che metterci a dormire in qualche sala e sperare che il giorno dopo Malachia ci trovasse. Mentre ci lamentavamo per la miserevole fine della nostra bella impresa, ritrovammo inopinatamente la sala da cui partiva la scala. Ringraziammo con fervore il cielo e scendemmo con grande allegrezza.
Una volta in cucina, ci buttammo verso il camino, entrammo nel corridoio dell'ossario e giuro che il ghigno mortifero di quelle teste nude mi parve il sorriso di persone care. Rientrammo in chiesa e uscimmo dal portale settentrionale, sedendoci infine felici sulle lastre di pietra delle tombe. L'aria bellissima della notte mi parve un balsamo divino. Le stelle brillavano intorno a noi e le visioni della biblioteca mi parvero assai lontane.
“Com'è bello il mondo e come sono brutti i labirinti!” dissi sollevato.
“Come sarebbe bello il mondo se ci fosse una regola per girare nei labirinti,”
rispose il mio maestro.
“Che ora sarà?” domandai.
“Ho perso il senso del tempo. Ma sarà bene trovarci nelle nostre celle prima che suoni mattutino.”
Costeggiammo il lato sinistro della chiesa, passammo davanti al portale (mi girai dall'altra parte per non vedere i seniori dell'Apocalisse, super thronos viginti quatuor!) e attraversammo il chiostro per raggiungere l'albergo dei pellegrini.
Sulla soglia della costruzione stava l'Abate, che ci guardò con severità. “E'
tutta la notte che vi cerco,” disse a Guglielmo. “Non vi ho trovato in cella, non vi ho trovato in chiesa...”
“Seguivamo una traccia...” disse vagamente Guglielmo, con visibile imbarazzo. L'Abate lo fissò a lungo, poi disse con voce lenta e severa: “Vi ho cercato subito dopo compieta. Berengario non era in coro.”
“Cosa mi dite mai!” fece Guglielmo con aria ilare. Infatti gli era ora chiaro chi si fosse annidato nello scriptorium.
“Non era in coro a compieta,” ripeté l'Abate, “e non è tornato nella sua cella.
Sta per suonare mattutino, e controlleremo ora se riappare. Altrimenti pavento qualche nuova sciagura.”
A mattutino Berengario non c'era.
Terzo Giorno
Terzo giorno
Da laudi a prima
Dove si trova un panno sporco di sangue nella cella
di Berengario scomparso, ed è tutto
Mentre scrivo mi sento stanco come mi sentivo quella notte, ovvero quella mattina. Che dire? Dopo l'ufficio l'Abate mosse la maggior parte dei monaci, ormai in allarme, a cercare dappertutto, senza risultato.
Verso laudi, cercando nella cella di Berengario, un monaco trovò sotto il pagliericcio un panno bianco sporco di sangue. Lo mostrarono all'Abate che ne trasse foschi auspici. Era presente Jorge che, come ne fu informato, disse: “Sangue?” come se la cosa gli sembrasse inverosimile. Lo dissero ad Alinardo, che scosse la testa e disse:
“No, no, alla terza tromba la morte viene per acqua...”
Guglielmo osservò il panno e poi disse: “Ora tutto è chiaro.”
“Dov'è allora Berengario?” gli chiesero.
“Non lo so,” rispose. Lo udì Aymaro che alzò gli occhi al cielo e sussurrò a Pietro da Sant'Albano: “Gli inglesi sono fatti così.”
Verso prima, quando già c'era il sole, furono inviati dei servi a esplorare i piedi della scarpata, tutto intorno alle mura. Tornarono a terza, non avendo trovato nulla.
Guglielmo mi disse che non avremmo potuto far meglio. Occorreva attendere gli eventi. E si recò alle fucine, intrattenendosi in fitto conversare con Nicola, il maestro vetraio.
Io mi sedetti in chiesa, presso il portale centrale, mentre venivano celebrate le messe. Così devotamente mi addormentai, e a lungo, perché pare che noi giovani si abbia bisogno di sonno più dei vecchi, i quali hanno già tanto dormito e si apprestano a dormire per l'eternità.
Terzo giorno
Terza
Dove Adso nello scriptorium riflette sulla storia del
suo ordine e sul destino dei libri
Uscii di chiesa meno stanco ma con la mente confusa, perché il corpo non gode di un riposo tranquillo se non nelle ore notturne. Salii nello scriptorium, chiesi licenza a Malachia e cominciai a sfogliare il catalogo. E mentre gettavo sguardi distratti ai fogli che mi passavano sotto gli occhi, osservavo in realtà i monaci.
Fui colpito dalla calma e dalla serenità con cui costoro erano intesi al loro lavoro, come se un loro confratello non fosse affannosamente ricercato per tutta la cinta e altri due non fossero già scomparsi in circostanze spaventose. Ecco, mi dissi, la grandezza del nostro ordine: per secoli e secoli uomini come questi hanno visto irrompere le turbe dei barbari, saccheggiare le loro abbazie, precipitare i regni in vortici di fuoco, eppure hanno continuato ad amare le pergamene e gli inchiostri e hanno continuato a leggere a fior di labbro parole che si tramandavano da secoli e che essi tramandavano ai secoli a venire. Hanno continuato a leggere e a copiare mentre si appressava il millennio, perché non dovevano continuare a farlo ora?
Il giorno prima Bencio aveva detto che sarebbe stato disposto a commettere peccato pur di avere un libro raro. Non mentiva e non celiava. Un monaco dovrebbe certo amare i suoi libri con umiltà, volendo il bene loro e non la gloria della propria curiosità: ma quello che per i laici è la tentazione dell'adulterio e per gli ecclesiastici regolari è la brama di ricchezze, questa per i monaci è la seduzione della conoscenza.
Sfogliai il catalogo e mi danzò davanti agli occhi una festa di titoli misteriosi: Quinti Sereni de medicamentis, Phaenomena, Liber Aesopi de natura animalium, Liber Aethici peronymi de cosmographia, Libri tres quos Arculphus episcopus adamnano escipiente de locis sanctis ultramarinis designavit conscribendos, Libellus Q. Iulii Hilarionis de origine mundi, Solini Polyshistor de situ orbis terrarum et mirabilibus, Almagesthus... Non mi stupivo che il mistero dei delitti ruotasse intorno alla biblioteca. Per questi uomini votati alla scrittura la biblioteca era al tempo stesso la Gerusalemme celeste e un mondo sotterraneo al confine tra la terra incognita e gli inferi. Essi erano dominati dalla biblioteca, dalle sue promesse e dai suoi interdetti.
Vivevano con essa, per essa e forse contro di essa, sperando colpevolmente di violarne un giorno tutti i segreti. Perché non avrebbero dovuto rischiare la morte per soddisfare una curiosità della loro mente, o uccidere per impedire che qualcuno si appropriasse di un loro segreto geloso?
Tentazioni, certo, superbia della mente. Ben diverso era il monaco scrivano immaginato dal nostro santo fondatore, capace di copiare senza capire, abbandonato alla volontà di Dio, scrivente perché orante e orante in quanto scrivente. Perché non
era più così? Oh, non erano certo soltanto quelle le degenerazioni dell'ordine nostro!
Era diventato troppo potente, i suoi abati gareggiavano coi re, non avevo forse in Abbone l'esempio di un monarca che con piglio di monarca cercava di dirimere controversie tra monarchi? Lo stesso sapere che le abbazie avevano accumulato era ora usato come merce di scambio, ragione di superbia, motivo di vanto e prestigio; così come i cavalieri ostentavano armature e stendardi, i nostri abati ostentavano codici miniati... E tanto più (follia!) quanto ormai i nostri monasteri avevano perduto anche la palma della saggezza: ormai le scuole cattedrali, le corporazioni urbane, le università copiavano libri, forse più e meglio di noi, e ne producevano di nuovi - e forse questa era la causa di tante sventure.
L'abbazia in cui mi trovavo era forse ancora l'ultima a vantare una eccellenza nella produzione e riproduzione della sapienza. Ma forse proprio per questo i suoi monaci non si appagavano più nell'opera santa della copia, volevano anch'essi produrre nuovi complementi della natura, spinti dalla cupidità di cose nuove. E non si avvedevano, intuii confusamente in quel momento (e so bene oggi, ormai canuto d'anni e di esperienza), che così facendo essi sancivano la rovina della loro eccellenza. Perché se quel nuovo sapere che essi volevano produrre fosse rifluito liberamente fuori da quelle mura, nulla più avrebbe distinto quel sacro luogo da una scuola cattedrale o da una università cittadina. Rimanendo celato, invece esso manteneva intatti il suo prestigio e la sua forza, non era corrotto dalla disputa, dalla albagìa quodlibetale che vuole sottoporre al vaglio del sic et non ogni mistero e ogni grandezza. Ecco, mi dissi, le ragioni del silenzio e del buio che circondano la biblioteca, essa è riserva di sapere ma può mantenere questo sapere intatto solo se impedisce che giunga a chiunque, persino ai monaci stessi. Il sapere non è come la moneta, che rimane fisicamente integra anche attraverso i più infami baratti: esso è piuttosto come un abito bellissimo, che si consuma attraverso l'uso e l'ostentazione.
Non è così infatti il libro stesso, le cui pagine si sbriciolano, gli inchiostri e gli ori si fanno opachi, se troppe mani lo toccano? Ecco, vedevo a poca distanza da me Pacifico da Tivoli che sfogliava un volume antico, i cui fogli si erano come attaccati l'uno all'altro a causa dell'umidità. Egli bagnava l'indice e il pollice con la lingua per sfogliare il suo libro, e a ogni tocco della sua saliva quelle pagine perdevano di vigore, aprirle voleva dire piegarle, offrirle alla severa azione dell'aria e della polvere, che avrebbero roso le sottili venature di cui la pergamena si increspava nello sforzo, avrebbero prodotto nuove muffe là dove la saliva aveva ammorbidito ma indebolito l'angolo del foglio. Come un eccesso di dolcezza rende molle e inabile il guerriero, questo eccesso di amore possessivo e curioso avrebbe predisposto il libro alla malattia destinata a ucciderlo.
Cosa si sarebbe dovuto fare? Cessare di leggere, soltanto conservare? Erano giusti i miei timori? Cosa avrebbe detto il mio maestro?
Vidi poco lontano un rubricatore, Magnus da Iona, che aveva terminato di sfregare il suo vello con la pietrapomice e lo ammorbidiva col gesso, per poi levigarne la superficie con la plana. Un altro accanto a lui, Rabano da Toledo, aveva fissato la pergamena alla tavola, segnandone i margini con dei leggeri buchi laterali da ambo le parti, tra cui ora tirava con uno stilo metallico linee orizzontali
sottilissime. Tra poco i due fogli si sarebbero riempiti di colori e di forme, la pagina sarebbe divenuta come un reliquiario, fulgida di gemme incastonate in quello che sarebbe poi stato il tessuto devoto della scrittura. Quei due confratelli, mi dissi, stanno vivendo le loro ore di paradiso in terra. Stavano producendo nuovi libri, eguali a quelli che il tempo avrebbe poi inesorabilmente distrutto... Dunque la biblioteca non poteva essere minacciata da nessuna forza terrena, dunque era una cosa viva... Ma se era viva, perché non doveva aprirsi al rischio della conoscenza?
Era questo che voleva Bencio e che forse aveva voluto Venanzio?
Mi sentii confuso e timoroso dei miei pensieri. Forse essi non si addicevano a un novizio che doveva solo seguire con scrupolo e umiltà la regola, per tutti gli anni a venire - ciò che poi ho fatto, senza pormi altre domande, mentre intorno a me sempre più il mondo sprofondava in una tempesta di sangue e follia.
Era l'ora del pasto mattutino, e mi recai in cucina, dove ormai ero divenuto amico dei cuochi, ed essi mi diedero alcuni dei bocconi migliori.
Terzo giorno
Sesta
Dove Adso riceve le confidenze di Salvatore, che non si
possono riassumere in poche parole, ma che gli ispirano
molte preoccupate meditazioni
Mentre mangiavo vidi in un angolo Salvatore, evidentemente riappacificatosi col cuciniere, che divorava con allegrezza un pasticcio di carne di pecora. Mangiava come non avesse mai mangiato in vita sua, non lasciando cadere neppure una briciola, e pareva rendesse grazie a Dio per quell'evento straordinario.
Mi ammiccò e mi disse, in quel suo bizzarro linguaggio, che mangiava per tutti gli anni in cui aveva digiunato. Lo interrogai. Mi raccontò di una infanzia dolorosissima in un villaggio dove l'aria era cattiva, le piogge frequentissime, e i campi marcivano mentre tutto era viziato da mortiferi miasmi. Ci furono, così capii, delle alluvioni per stagioni e stagioni, che i campi non avevano più solchi e con un moggio di semi facevi un sestario, e poi il sestario si riduceva ancora a nulla. Anche i signori avevano visi bianchi come i poveri benché, osservò Salvatore, i poveri morissero più dei signori, forse (osservò con un sorriso) perché erano in maggior numero... Un sestario costava quindici soldi, un moggio sessanta soldi, i predicatori annunciavano la fine dei tempi, ma i genitori e gli avi di Salvatore si ricordavano che era stato così anche altre volte, sì che ne avevan tratto la conclusione che i tempi fossero sempre per finire. E così quando ebbero mangiato tutte le carogne degli uccelli, e tutti gli animali immondi che si potessero trovare, corse voce che qualcuno nel villaggio cominciava a dissotterrare i morti. Salvatore spiegava con molta bravura, come se fosse un istrione, come usavan fare quegli “homeni malissimi” che scavavan con le dita sotto la terra nei cimiteri, il giorno dopo le esequie di qualcuno.
“Gnam!” diceva, e addentava il suo pasticcio di pecora, ma io vedevo nel suo volto la smorfia del disperato che mangiava il cadavere. E poi, non contenti di scavare in terra consacrata, alcuni peggiori degli altri, come ladroni da strada, si acquattavano nella foresta e sorprendevano i viandanti. “Zac!” diceva Salvatore, il coltello alla gola e “Gnam!” E i peggiori tra i peggiori adescavano i fanciulli, con un uovo o una mela, e ne facevano scempio ma, come Salvatore mi precisò con molta serietà, cuocendoli prima. Raccontò di un uomo che venne al villaggio vendendo carne cotta per pochi soldi e tutti non sapevano capacitarsi di quella fortuna, poi il prete disse che si trattava di carne umana, e l'uomo fu fatto a pezzi dalla folla inferocita. Ma la notte stessa un tale del villaggio andò a scavare la fossa dell'ucciso e mangiò delle carni del cannibale, così che, quando fu scoperto, il villaggio condannò a morte anche lui.
Ma Salvatore non mi raccontò solo questa storia. A parole mozze, impegnandomi a ricordare quel poco che sapevo di provenzale e di dialetti italiani,
mi raccontò la storia della sua fuga dal villaggio natio, e il suo girovagare per il mondo. E nel suo racconto riconobbi molti che avevo già conosciuto o incontrato lungo la strada, e molti altri che conobbi dopo ne riconosco ora, sì che non sono sicuro di non attribuirgli, a distanza di tempo, avventure e delitti che furono di altri, prima di lui e dopo di lui, e che ora nella mia mente stanca si appiattiscono a disegnare una sola immagine, per la forza appunto della immaginazione che, unendo il ricordo dell'oro a quello del monte, sa comporre l'idea di una montagna d'oro.
Spesso durante il viaggio avevo udito nominare da Guglielmo i semplici, termine con cui taluni suoi confratelli designavano non solo il popolo, ma al tempo stesso gli indotti. Espressione che mi parve sempre generica, perché nelle città italiane avevo incontrato uomini di mercatura e artigiani che non erano chierici ma che non erano indotti, anche se le loro conoscenze si manifestavano attraverso l'uso del volgare. E, per dire, alcuni dei tiranni che governavano in quel tempo la penisola, erano ignari di scienza teologica, e medica, e logica, e di latino, ma non erano certo dei semplici o degli sprovveduti. Perciò credo che anche il mio maestro, quando parlava dei semplici, usasse un concetto piuttosto semplice. Ma indubbiamente Salvatore era un semplice, veniva da una campagna provata, da secoli, dalla carestia e dalle prepotenze dei signori feudali. Era un semplice ma non era uno sciocco.
Aspirava a un mondo diverso, che, nei tempi in cui fuggì dalla casa dei suoi, a quel che mi disse, prendeva l'aspetto del paese di Cuccagna, dove dagli alberi, che trasudano miele, crescono forme di cacio e salsicciotti profumati.
Spinto da questa speranza, quasi rifiutando di riconoscere questo mondo come una valle di lacrime, in cui (come mi hanno insegnato) anche l'ingiustizia è stata predisposta dalla provvidenza per mantenere l'equilibrio delle cose, onde il disegno spesso ci sfugge, Salvatore viaggiò per varie terre, dal suo Monferrato nativo verso la Liguria, e poi su dalla Provenza alle terre del re di Francia.
Salvatore vagò per il mondo, questuando, rubacchiando, fingendosi ammalato, ponendosi al servizio transitorio di qualche signore, di nuovo prendendo la via della foresta, della strada maestra. Dal racconto che mi fece me lo vidi associato a quelle bande di vaganti che poi, negli anni che seguirono, sempre più vidi aggirarsi per l'Europa: falsi monaci, ciarlatani, giuntatori, arcatori, pezzenti e straccioni, lebbrosi e storpiati, ambulanti, girovaghi, cantastorie, chierici senza patria, studenti itineranti, bari, giocolieri, mercenari invalidi, giudei erranti, scampati dagli infedeli con lo spirito distrutto, folli, fuggitivi colpiti da bando, malfattori con le orecchie mozzate, sodomiti, e tra loro artigiani ambulanti, tessitori, calderai, seggiolai, arrotini, impagliatori, muratori, e ancora manigoldi di ogni risma, bari, birboni, baroni, bricconi, gaglioffi, guidoni, trucconi, calcanti, protobianti, paltonieri, e canonici e preti simoniaci e barattieri, e gente che viveva ormai sulla credulità altrui, falsari di bolle e sigilli papali, venditori di indulgenze, falsi paralitici che si sdraiavano alle porte delle chiese, vaganti in fuga dai conventi, venditori di reliquie, perdonatori, indovini e chiromanti, negromanti, guaritori, falsi questuanti, e fornicatori di ogni risma, corruttori di monache e di fanciulle con inganni e violenze, simulatori di idropisia, epilessia, emorroidi, gotta e piaghe, nonché follia melanconica. Ve n'erano che si applicavano impiastri sul corpo per fingere ulcere inguaribili, altri che si
riempivano la bocca di una sostanza color sangue per simulare sbocchi di mal sottile, bricconi che fingevano d'esser deboli d'un dei loro membri, portando bastoni senza necessità e contraffacendo il mal caduco, rogne, bubboni, gonfiori, applicando bende, tinture di zafferano, portando ferri alle mani, fasce alla testa, intrufolandosi puzzolenti nelle chiese e lasciandosi cadere di colpo nelle piazze, sputando bava e strabuzzando gli occhi, gettando dalle narici sangue fatto di succo di more e vermiglione, per strappare cibo o danaro alle genti timorate che ricordavano gli inviti dei santi padri all'elemosina: dividi con l'affamato il tuo pane, conduci in casa chi non ha tetto, visitiamo Cristo, accogliamo Cristo, vestiamo Cristo perché come l'acqua purga il fuoco così l'elemosina purga i nostri peccati.
Anche dopo i fatti che narro, lungo il corso del Danubio molti ne vidi e ancora ne vedo di questi ciarlatani che avevano loro nomi e loro suddivisioni in legioni, come i demoni: accapponi, lotori, protomedici, pauperes verecundi, morghigeri, affamiglioli, crociarii, alacerbati, reliquiari, affarinati, falpatori, iucchi, spectini, cochini, appezzenti e attarantati, acconi e admiracti, mutuatori, attremanti, cagnabaldi, falsibordoni, accadenti, alacrimanti e affarfanti.
Era come una melma che scorreva per i sentieri del nostro mondo, e fra essi si insinuavano predicatori in buona fede, eretici in cerca di nuove prede, agitatori di discordia. Era stato proprio papa Giovanni, sempre timoroso dei movimenti dei semplici che predicassero e praticassero la povertà, a scagliarsi contro i predicatori questuanti che, a suo dire, attiravano i curiosi inalberando vessilli dipinti a figure, predicavano ed estorcevano danaro. Era nel vero il papa simoniaco e corrotto equiparando frati questuanti che predicavano la povertà con queste bande di diseredati e di rapinatori? Io in quei giorni, dopo aver un poco viaggiato per la penisola italiana, non avevo più le idee chiare: avevo sentito dei frati di Altopascio che predicando minacciavano scomuniche e promettevano indulgenze, assolvevano da rapine e fratricidi, da omicidi e spergiuri dietro sborso di danaro, davano a intendere che nel loro ospedale si celebravano ogni giorno sino a cento messe, per cui raccoglievano donazioni, e che coi loro beni si dotavano duecento fanciulle povere. E avevo sentito parlare di frate Paolo Zoppo che nella foresta di Rieti viveva in romitorio e si vantava di aver avuto direttamente dallo Spirito Santo la rivelazione che l'atto carnale non era peccato: così seduceva le sue vittime che chiamava sorelle obbligandole a darsi alla sferza sulla nuda carne, facendo in terra cinque genuflessioni in forma di croce, prima che egli presentasse le sue vittime a Dio e pretendesse da loro quello che chiamava il bacio della pace. Ma era vero? E cosa legava questi romiti che si dicevano illuminati ai frati dalla povera vita che percorrevano le vie della penisola facendo veramente penitenza, invisi al clero e ai vescovi di cui flagellavano i vizi e le rapine?
Dal racconto di Salvatore, così come si mescolava alle cose che io già sapevo per mia scienza, queste distinzioni non apparivano alla luce del giorno: tutto sembrava uguale a tutto. Talora mi pareva uno di quegli storpi accattoni di Turenna di cui narra la favola, che all'avvicinarsi della salma miracolosa di san Martino si diedero alla fuga temendo che il santo li guarisse togliendo così loro la fonte dei loro guadagni, e il santo spietatamente li graziò prima che raggiungessero il confine,
punendoli della loro malvagità col restituire loro l'uso degli arti. Talora invece il volto ferino del monaco si illuminava di luce dolcissima quando mi raccontava come, vivendo tra quelle bande, aveva ascoltato la parola di predicatori francescani, quanto lui alla macchia, e aveva capito che la vita povera ed errabonda che conduceva non doveva essere presa come una cupa necessità, ma come un gesto gioioso di dedicazione, ed era entrato a far parte di sette e gruppi penitenziali di cui egli storpiava i nomi e definiva in modo assai improprio la dottrina. Ne dedussi che aveva incontrato patarini e valdesi, e forse catari, arnaldisti e umiliati, e che vagando per il mondo era passato di gruppo in gruppo, gradatamente assumendo come missione la sua condizione di vagante, e facendo per il Signore quello che prima faceva per il suo ventre.
Ma come, e sino a quando? A quanto capii, una trentina di anni innanzi, egli si era aggregato a un convento di minoriti in Toscana e ivi aveva indossato il saio di san Francesco, senza prendere gli ordini. Lì, credo, aveva appreso quel tanto di latino che parlava, mescolandolo con le parlate di tutti i posti in cui, povero senza patria, era stato, e di tutti i compagni di vagabondaggio che aveva incontrato, dai mercenari delle mie terre ai bogomili dalmati. Lì si era dato a vita di penitenza, diceva (penitenziagite, mi citava con occhi ispirati, e di nuovo udii la formula che aveva incuriosito Guglielmo), ma a quanto pare anche i minori presso cui stava avevano idee confuse perché, in ira verso il canonico della chiesa vicina, accusato di rapine e altre nefandezze, gli invasero un giorno la casa e lo fecero rotolar dalle scale, sì che il peccatore ne morì, poi saccheggiarono la chiesa. Per il che il vescovo inviò degli armati, i frati si dispersero e Salvatore vagò a lungo nell'alta Italia con una banda di fraticelli, ovvero di minoriti questuanti senza più legge e disciplina.
Di qui riparò nel Tolosano, dove gli avvenne una strana storia, mentre si infiammava al racconto, che udiva, delle grandi imprese dei crociati. Una massa di pastori e di umili, in grande schiera, si riunì un giorno per passare il mare e combattere contro i nemici della fede. Li chiamarono pastorelli. In effetti essi volevano sfuggire alla loro terra maledetta. C'erano due capi, che ispirarono loro delle false teorie, un sacerdote che era stato privato della sua chiesa per la sua condotta e un monaco apostata dell'ordine di san Benedetto. Costoro avevano fatto uscire a tal punto di senno quegli sprovveduti che, correndo a frotte dietro di loro, anche ragazzi di sedici anni, contro il volere dei genitori, portando con sé solo una bisaccia e un bastone, senza danaro, lasciati i loro campi, li seguivano come un gregge, e formavano una gran massa. Ormai non seguivano più né ragione né giustizia, ma solo la forza e la loro volontà. Il trovarsi tutti insieme, finalmente liberi e con una oscura speranza di terre promesse, li rese come ebbri. Percorrevano i villaggi e le città prendendosi tutto, e se uno di essi veniva arrestato essi assalivano le prigioni e lo liberavano. Quando entrarono nella fortezza di Parigi per far uscire alcuni loro compagni che i signori avevano fatto arrestare, poiché il prevosto di Parigi tentava di opporre resistenza, lo colpirono e lo gettarono giù per i gradini della fortezza e infransero le porte del carcere. Poi si schierarono a battaglia nel prato di san Germano. Ma nessuno ardì farsi contro di loro, e uscirono da Parigi dirigendosi
verso l'Aquitania. E uccidevano tutti gli ebrei che incontravano qua e là e li spogliavano dei loro beni...
“Perché gli ebrei?” chiesi a Salvatore. E mi rispose: “E perché no?” E mi spiegò che per tutta la vita avevano appreso dai predicatori che gli ebrei erano i nemici della cristianità e accumulavano quei beni che a essi erano negati. Gli chiesi se non era però vero che i beni venivano accumulati dai signori e dai vescovi, attraverso le decime, e che quindi i pastorelli non combattevano i loro veri nemici.
Mi rispose che, quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna pur scegliere dei nemici più deboli. Riflettei che per questo i semplici son detti tali. Solo i potenti sanno sempre con grande chiarezza chi siano i loro nemici veri. I signori non volevano che i pastorelli mettessero a repentaglio i loro beni e fu una grande fortuna per loro che i capi dei pastorelli insinuassero l'idea che molte delle ricchezze stavano presso gli ebrei.
Chiesi chi aveva messo in capo alla folla che bisognava attaccare gli ebrei.
Salvatore non ricordava. Credo che quando si radunano tante folle seguendo una promessa e chiedendo subito qualcosa, non si sappia mai chi parla tra di loro. Pensai che i loro capi si erano educati nei conventi e nelle scuole vescovili, e parlavano il linguaggio dei signori, anche se lo traducevano in termini comprensibili a pastori. E i pastori non sapevano dove stesse il papa, ma sapevano dove stavano gli ebrei.
Insomma, presero d'assedio un'alta e massiccia torre del re di Francia, dove gli ebrei spaventati erano corsi in massa a rifugiarsi. E gli ebrei usciti sotto le mura della torre si difendevano coraggiosamente e spietatamente, lanciando legna e pietre. Ma i pastorelli appiccarono il fuoco alla porta della torre, tormentando gli ebrei asserragliati col fumo e col fuoco. E gli ebrei non potendo salvarsi, preferendo uccidersi piuttosto che morire per mano dei non circoncisi, chiesero a uno di loro, che sembrava il più coraggioso, di ucciderli con la spada. Egli acconsentì, e ne uccise quasi cinquecento. Poi uscì dalla torre coi figli degli ebrei, e chiese ai pastorelli di essere battezzato. Ma i pastorelli gli dissero: tu hai fatto una tale strage della tua gente e ora pretendi di sottrarti alla morte? e lo fecero a pezzi, risparmiando i bambini, che fecero battezzare. Poi si diressero verso Carcassone, compiendo molte sanguinose rapine durante il loro cammino. Allora il re di Francia avvertì che essi avevano passato il limite e ordinò che si opponesse loro resistenza in ogni città in cui passavano e si difendessero persino gli ebrei come fossero uomini del re...
Perché il re divenne così sollecito degli ebrei, a quel punto? Forse perché divenne sospettoso di quello che i pastorelli avrebbero potuto fare in tutto il regno, e che il loro numero crescesse troppo. Allora sentì tenerezza anche per gli ebrei, sia perché gli ebrei erano utili ai commerci del regno, sia perché occorreva ora distruggere i pastorelli, e bisognava che i buoni cristiani tutti trovassero ragione di piangere sui loro delitti. Ma molti cristiani non obbedirono al re, pensando che non era giusto difendere gli ebrei, che erano sempre stati nemici della fede cristiana. E in molte città la gente del popolo che aveva dovuto pagare usura agli ebrei, era felice che i pastorelli li punissero per la loro ricchezza. Allora il re comandò sotto pena di morte di non dare aiuto ai pastorelli. Raccolse un numeroso esercito e li attaccò e molti di loro furono uccisi, altri si sottrassero con la fuga e si rifugiarono nelle foreste
dove perirono di stenti. In breve tutti quanti furono annientati. E l'incaricato del re li catturò e li impiccò a venti o trenta per volta agli alberi più grandi, perché la vista dei loro cadaveri servisse di esempio eterno e nessuno ardisse più turbare la pace del regno.
Il fatto singolare è che Salvatore mi raccontò questa storia come se si trattasse di una virtuosissima impresa. E infatti rimaneva convinto che la folla dei pastorelli si era mossa per conquistare il sepolcro di Cristo e liberarlo dagli infedeli, e non mi fu possibile fargli credere che questa bellissima conquista era già stata fatta, ai tempi di Pietro l'Eremita e di santo Bernardo, e sotto il regno di Luigi il santo di Francia.
Comunque Salvatore non andò dagli infedeli perché dovette allontanarsi al più presto dalle terre francesi. Passò nel novarese, mi disse, ma su quanto avvenne a questo punto fu molto vago. E infine arrivò a Casale, dove si fece accogliere nel convento dei minoriti (e qui credo avesse incontrato Remigio), proprio ai tempi in cui molti di essi, perseguitati dal papa, cambiavano di saio e cercavano rifugio presso monasteri d'altro ordine, per non finir bruciati. Come infatti ci aveva raccontato Ubertino. A causa delle sue lunghe esperienze in molti lavori manuali (che aveva fatte e per fini disonesti quando vagava libero e per fini santi quando vagava per amor di Cristo), Salvatore fu subito preso dal cellario come proprio aiutante. Ed ecco perché da molti anni stava colaggiù, poco interessato ai fasti dell'ordine, molto all'amministrazione della cantina e della dispensa, libero di mangiare senza rubare e di lodare il Signore senza essere bruciato.
Questa fu la storia che appresi da lui, tra un boccone e l'altro, e mi chiesi cosa avesse inventato e cosa avesse taciuto.
Lo guardai con curiosità, non per la singolarità della sua esperienza, ma anzi proprio perché quanto gli era avvenuto mi pareva epitome splendida di tanti eventi e movimenti che rendevano affascinante e incomprensibile l'Italia di quel tempo.
Cosa era emerso da quei discorsi? L'immagine di un uomo dalla vita avventurosa, capace anche di uccidere un proprio simile senza rendersi conto del proprio delitto. Ma, benché a quel tempo ogni offesa alla legge divina mi sembrasse uguale a un'altra, cominciavo già a capire alcuni dei fenomeni di cui udivo parlare, e comprendevo che un conto è il massacro che una folla, presa da rapimento quasi estatico, e scambiando le leggi del diavolo con quelle del Signore, poteva compiere, e un altro conto è il delitto individuale perpetrato a sangue freddo, nel silenzio e nell'astuzia. E non mi pareva che Salvatore potesse essersi macchiato di un crimine siffatto.
D'altra parte volevo scoprire qualcosa sulle insinuazioni fatte dall'Abate, ed ero ossessionato dall'idea di fra Dolcino, di cui non sapevo quasi nulla. E pure il suo fantasma pareva aleggiare su molte conversazioni che avevo udito in quei due giorni.
Così gli domandai a bruciapelo: “Nei tuoi viaggi non hai mai conosciuto fra Dolcino?”
La reazione di Salvatore fu singolare. Sbarrò gli occhi, se mai avesse potuto averli ancora più sbarrati, si segnò ripetutamente, mormorò alcune frasi rotte, in un linguaggio che quella volta veramente non capii. Ma mi parvero frasi di diniego.
Sino ad allora mi aveva guardato con simpatia e fiducia, direi con amicizia. In quell'istante mi guardò quasi con astio. Poi con un pretesto se ne andò.
Ormai non potevo più resistere. Chi era questo frate che incuteva terrore a chiunque lo udisse nominare? Decisi che non potevo restare più a lungo in preda al mio desiderio di sapere. Un'idea mi attraversò la mente. Ubertino! Lui stesso aveva fatto quel nome, la prima sera che lo incontrammo, lui sapeva tutto delle vicende chiare ed oscure di frati, fraticelli e altre genie di quegli ultimi anni. Dove potevo trovarlo a quell'ora? certamente in chiesa, immerso nella preghiera. E lì, visto che godevo di un momento di libertà, mi recai.
Non lo trovai, e anzi non lo trovai sino a sera. E così rimasi con la mia curiosità, mentre accadevano gli altri fatti di cui devo ora raccontare.
Terzo giorno
Nona
Dove Guglielmo parla ad Adso del gran fiume ereticale,
della funzione dei semplici nella chiesa, dei suoi dubbi
sulla conoscibilità delle leggi generali, e quasi per inciso racconta come ha decifrato i segni negromantici lasciati
da Venanzio
Trovai Guglielmo nella fucina, che lavorava con Nicola, entrambi assai assorti dal loro lavoro. Avevano disposto sul banco tanti minuscoli dischi di vetro, forse già pronti per essere inseriti nelle giunture di una vetrata, e alcuni ne avevano ridotto con gli strumenti acconci allo spessore voluto. Guglielmo li provava mettendoseli davanti agli occhi. Nicola dal canto suo stava dando disposizioni ai fabbri perché costruissero la forcella in cui i vetri buoni avrebbero poi dovuto essere incastonati.
Guglielmo brontolava irritato perché sino a quel punto la lente che più lo soddisfaceva era color smeraldo ed egli, diceva, non voleva vedere le pergamene come fossero prati. Nicola si allontanò per sorvegliare i fabbri. Mentre trafficava con i suoi dischetti, gli raccontai del mio dialogo con Salvatore.
“L'uomo ha avuto varie esperienze,” disse, “forse è stato davvero coi dolciniani. Questa abbazia è proprio un microcosmo, quando avremo qui i legati di papa Giovanni e fra Michele saremo davvero al completo.”
“Maestro,” gli dissi, “io non capisco più nulla.”
“A proposito di che, Adso?”
“Primo, circa le differenze tra gruppi eretici. Ma di questo vi chiederò dopo.
Ora sono afflitto dal problema stesso della differenza. Ho avuto l'impressione che parlando con Ubertino voi tentaste di dimostrargli che sono tutti eguali, santi ed eretici. E invece parlando con l'Abate voi vi sforzavate di spiegargli la differenza tra eretico ed eretico, e tra eretico e ortodosso. Cioè, voi rimproveravate a Ubertino di ritenere diversi coloro che in fondo erano uguali, e all'Abate di ritenere uguali coloro che in fondo erano diversi.”
Guglielmo posò per un istante le lenti sul tavolo. “Mio buon Adso,” disse,
“cerchiamo di porre delle distinzioni, e distinguiamo pure nei termini delle scuole di Parigi. Allora, dicono lassù, tutti gli uomini hanno una stessa forma sostanziale, o mi sbaglio?”
“Certo,” dissi, fiero del mio sapere, “sono animali ma razionali, e il loro proprio è di essere capaci di ridere.”
“Benissimo. Però Tommaso è diverso da Bonaventura, e Tommaso è grasso mentre Bonaventura è magro, e persino può accadere che Uguccione sia cattivo mentre Francesco è buono, e Aldemaro è flemmatico mentre Agilulfo è bilioso. O
no?”
“Indubbiamente è così.”
“E allora ciò significa che c'è identità, in uomini diversi, quanto alla loro forma sostanziale e diversità quanto agli accidenti, ovvero quanto alle loro terminazioni superficiali.”
“E' senz'altro così.”
“E allora quando dico a Ubertino che la stessa natura umana, nella complessità delle sue operazioni, presiede sia all'amore del bene che all'amore del male, cerco di convincere Ubertino dell'identità dell'umana natura. Quando poi dico all'Abate che v'è differenza tra un cataro e un valdese, insisto sulla varietà dei loro accidenti. E vi insisto perché accade che si bruci un valdese attribuendogli gli accidenti di un cataro e viceversa. E quando si brucia un uomo si brucia la sua sostanza individua, e si riduce a puro nulla quello che era un concreto atto di esistere, perciostesso buono, almeno agli occhi di Dio che lo manteneva all'essere. Ti pare una buona ragione per insistere sulle differenze?”
“Sì maestro,” risposi con entusiasmo. “E ora ho capito perché parlate così, e apprezzo la vostra buona filosofia!”
“Non è la mia,” disse Guglielmo, “e non so neppure se sia quella buona. Ma l'importante è che tu abbia capito. Veniamo ora al tuo secondo quesito.”
“E' che,” dissi, “credo di essere un buono a nulla. Non riesco più a distinguere la differenza accidentale tra valdesi, catari, poveri di Lione, umiliati, beghini, pinzocheri, lombardi, gioachimiti, patarini, apostolici, poveri lombardi, arnaldisti, guglielmiti, seguaci del libero spirito e luciferini. Come devo fare?”
“Oh povero Adso,” rise Guglielmo dandomi un affettuoso schiaffetto sulla nuca, “non hai mica torto! Vedi, è come se negli ultimi due secoli, e ancora prima, questo nostro mondo fosse stato percorso da soffi di insofferenza, speranza e disperazione, tutti insieme... Oppure no, non è una buona analogia. Pensa a un fiume, denso e maestoso, che corre per miglia e miglia entro argini robusti, e tu sai dove sia il fiume, dove l'argine, dove la terra ferma. A un certo punto il fiume, per stanchezza, perché ha corso per troppo tempo e troppo spazio, perché si avvicina il mare, che annulla in sé tutti i fiumi, non sa più cosa sia. Diventa il proprio delta. Rimane forse un ramo maggiore, ma molti se ne diramano, in ogni direzione, e alcuni riconfluiscono gli uni negli altri, e non sai più cosa sia origine di cosa, e talora non sai cosa sia fiume ancora, e cosa già mare...”
“Se capisco la vostra allegoria, il fiume è la città di Dio, o il regno dei giusti, che si sta avvicinando al millennio, e in questa incertezza esso non tiene più, nascono falsi e veri profeti e tutto confluisce nella gran piana dove avrà luogo l'Armageddon...”
“Non pensavo proprio a questo. Ma è anche vero che tra noi francescani è sempre viva l'idea di una terza età e dell'avvento del regno dello Spirito Santo. No, piuttosto cercavo di farti capire come il corpo della chiesa, che è stato per secoli anche il corpo della società tutta, il popolo di Dio, è diventato troppo ricco, e denso, e trascina con sé le scorie di tutti i paesi che ha attraversato, e ha perso la propria purezza. I rami del delta sono, se vuoi, altrettanti tentativi del fiume di correre il più presto possibile al mare, ovvero al momento della purificazione. Ma la mia allegoria
era imperfetta, serviva solo a dirti come i rami dell'eresia e dei movimenti di rinnovamento, quando il fiume non tiene più, siano molti, e si confondano. Puoi anche aggiungere alla mia pessima allegoria l'immagine di qualcuno che tenta di ricostruire a vivaforza gli argini del fiume, ma non ce la fa. E alcuni rami del delta vengono interrati, altri ricondotti per canali artificiali al fiume, altri ancora vengono lasciati scorrere, perché non si può trattenere tutto ed è bene che il fiume perda parte della propria acqua se vuole mantenersi integro nel suo corso, se vuole avere un corso riconoscibile.”
“Capisco sempre di meno.”
“Anch'io. Non sono buono a parlare in modo parabolico. Dimentica questa storia del fiume. Cerca piuttosto di capire come molti dei movimenti che hai nominato sono nati almeno duecento anni fa e sono già morti, altri sono recenti...”
“Ma quando si parla di eretici si nominano tutti insieme.”
“E' vero, ma questo è uno dei modi in cui l'eresia si diffonde e uno dei modi in cui viene distrutta.”
“Non capisco di nuovo.”
“Mio Dio, come è difficile. Bene. Immagina che tu sia un riformatore dei costumi e raduni alcuni compagni sulla vetta di un monte, per vivere in povertà. E
dopo un poco vedi che molti vengono a te, anche da terre lontane, e ti considerano un profeta, o un nuovo apostolo, e ti seguono. Vengono davvero per te o per quello che dici?”
“Non so, lo spero. Perché altrimenti?”
“Perché hanno udito dai loro padri storie di altri riformatori, e leggende di comunità più o meno perfette, e pensano che questa sia quella e quella questa.”
“Così ogni movimento eredita i figli degli altri.”
“Certo, perché vi accorrono in massima parte i semplici, che non hanno sottigliezza dottrinale. Eppure i movimenti di riforma dei costumi nascono in luoghi e modi diversi e con diverse dottrine. Per esempio si confondono sovente i catari e i valdesi. Ma vi è tra essi una grande differenza. I valdesi predicavano una riforma dei costumi all'interno della chiesa, i catari predicavano una chiesa diversa, una diversa visione di Dio e della morale. I catari pensavano che il mondo fosse diviso tra le forze opposte del bene e del male, e avevano costituito una chiesa in cui si distinguevano i perfetti dai semplici credenti, e avevano i loro sacramenti e i loro riti; avevano costituito una gerarchia molto rigida, quasi quanto quella della nostra santa madre chiesa e non pensavano affatto a distruggere ogni forma di potere. Il che ti spiega perché aderirono ai catari anche uomini di comando, possidenti, feudatari. Né pensavano di riformare il mondo, perché l'opposizione tra bene e male per essi non potrà mai essere composta. I valdesi invece (e con loro gli arnaldisti o i poveri lombardi) volevano costruire un mondo diverso su un ideale di povertà, per questo accoglievano i diseredati, e vivevano in comunità del lavoro delle loro mani. I catari rifiutavano i sacramenti della chiesa, i valdesi no, rifiutavano solo la confessione auricolare.”
“Ma perché allora vengono confusi e se ne parla come della stessa mala pianta?”
“Te l'ho detto, quello che li fa vivere è anche quello che li fa morire. Si arricchiscono di semplici che sono stati stimolati da altri movimenti e che credono che si tratti dello stesso moto di rivolta e di speranza; e sono distrutti dagli inquisitori che attribuiscono agli uni gli errori degli altri, e se i settatori di un movimento hanno commesso un delitto, questo delitto sarà attribuito a ciascun settatore di ciascun movimento. Gli inquisitori hanno torto secondo ragione, perché mettono insieme dottrine contrastanti; hanno ragione secondo il torto degli altri, perché come nasce un movimento, verbigratia, di arnaldisti in una città, vi convergono anche coloro che sarebbero stati o erano stati catari o valdesi altrove. Gli apostoli di fra Dolcino predicavano la distruzione fisica dei chierici e dei signori, e commisero molte violenze; i valdesi sono contrari alla violenza, e così i fraticelli. Ma sono sicuro che ai tempi di fra Dolcino convenirono nel suo gruppo molti che avevano già seguito la predicazione dei fraticelli o dei valdesi. I semplici non possono scegliersi la loro eresia, Adso, si aggrappano a chi predica nella loro terra, a chi passa per il villaggio o per la piazza. E' su questo che giocano i loro nemici. Presentare agli occhi del popolo una sola eresia, che magari consigli al tempo stesso e il rifiuto del piacere sessuale e la comunione dei corpi, è buona arte predicatoria: perché mostra gli eretici un solo intrico di diaboliche contraddizioni che offendono il senso comune.”
“Quindi non vi è rapporto tra essi ed è per inganno del demonio che un semplice che avrebbe voluto essere gioachimita o spirituale cade nelle mani di catari o viceversa?”
“E invece non è così. Cerchiamo di ricominciate da capo, Adso, e ti assicuro che cerco di spiegarti una cosa sulla quale neppure io credo di possedere la verità.
Penso che l'errore sia di credere che prima venga l'eresia, poi i semplici che vi si danno (e vi si dannano). In verità prima viene la condizione dei semplici, poi l'eresia.”
“E come?”
“Tu hai chiara la visione della costituzione del popolo di Dio. Un grande gregge, pecore buone, e pecore cattive, tenute a freno da cani mastini, i guerrieri, ovvero il potere temporale, l'imperatore e i signori, sotto la guida dei pastori, i chierici, gli interpreti della parola divina. L'immagine è piana.”
“Ma non è vera. I pastori combattono coi cani perché ciascuno dei due vuole i diritti degli altri.”
“E' vero, ed è appunto questo che rende imprecisa la natura del gregge. Persi come sono a dilaniarsi a vicenda, cani e pastori non curano più il gregge. Una parte di esso ne rimane fuori.”
“Come fuori?”
“Ai margini. Contadini, non sono contadini perché non hanno terra o quella che hanno non li nutre. Cittadini, non sono cittadini perché non appartengono né a un'arte né ad altra corporazione, sono popolo minuto, preda di ciascuno. Hai visto talora nelle campagne gruppi di lebbrosi?”
“Sì, una volta ne vidi cento insieme. Deformi, con la carne in disfacimento e tutta biancastra, sulle loro stampelle, le palpebre gonfie, gli occhi sanguinanti, non parlavano né gridavano: squittivano, come topi.”
“Essi sono per il popolo cristiano gli altri, quelli che stanno ai margini del gregge. Il gregge li odia, essi odiano il gregge. Ci vorrebbero tutti morti, tutti lebbrosi come loro.”
“Sì, ricordo una storia di re Tristano che doveva condannare Isotta la bella e stava facendola salire sul rogo, e vennero i lebbrosi e dissero al re che il rogo era pena da poco e che ve n'era una peggiore. E gli gridarono: dacci Isotta che appartenga a tutti noi, il male accende i nostri desideri, dalla ai tuoi lebbrosi, guarda, i nostri stracci sono incollati alle piaghe che gemono, lei che accanto a te si compiaceva delle ricche stoffe foderate di vaio e dei gioielli, quando vedrà la corte dei lebbrosi, quando dovrà entrare nei nostri tuguri e coricarsi con noi, allora riconoscerà davvero il suo peccato e rimpiangerà questo bel fuoco di rovi!”
“Vedo che per essere un novizio di san Benedetto hai delle curiose letture,”
motteggiò Guglielmo, e io arrossii, perché sapevo che un novizio non dovrebbe leggere romanzi d'amore, ma tra noi giovanetti circolavano al monastero di Melk e li leggevamo a lume di candela di notte. “Ma non importa,” riprese Guglielmo, “hai capito cosa volevo dire. I lebbrosi esclusi vorrebbero trascinare tutti nella loro rovina.
E diverranno tanto più cattivi quanto più tu li escluderai, e quanto più tu te li rappresenti come una corte di lemuri che vogliono la tua rovina, tanto più loro saranno esclusi. San Francesco capì questo, e la sua prima scelta fu di andare a vivere tra i lebbrosi. Non si cambia il popolo di Dio se non si reintegrano nel suo corpo gli emarginati.”
“Ma voi parlavate di altri esclusi, non sono i lebbrosi a comporre i movimenti ereticali.”
“Il gregge è come una serie di cerchi concentrici, dalle più ampie lontananze del gregge alla sua periferia immediata. I lebbrosi sono segno dell'esclusione in generale. San Francesco l'aveva capito. Non voleva solo aiutare i lebbrosi, ché la sua azione si sarebbe ridotta a un ben povero e impotente atto di carità. Voleva significare altro. Ti han raccontato della predica agli uccelli?”
“Oh sì, ho sentito questa storia bellissima e ho ammirato il santo che godeva della compagnia di quelle tenere creature di Dio,” dissi con gran fervore.
“Ebbene, ti hanno raccontato una storia sbagliata, ovvero la storia che l'ordine sta oggi ricostruendo. Quando Francesco parlò al popolo della città e ai suoi magistrati e vide che quelli non lo capivano, uscì verso il cimitero e si mise a predicare a corvi e a gazze, a sparvieri, a uccelli di rapina che si cibavano di cadaveri.”
“Che cosa orrenda,” dissi, “non erano dunque uccelli buoni!”
“Erano uccelli da preda, uccelli esclusi, come i lebbrosi. Francesco pensava certo a quel verso dell'Apocalisse che dice: ho visto un angelo, levato nel sole, gridare con voce forte e dire a tutti gli uccelli che volavano nel sole, venite e radunatevi tutti al gran banchetto di Dio, mangiate la carne dei re, la carne dei tribuni e dei superbi, la carne dei cavalli e dei cavalieri, la carne dei liberi e degli schiavi, dei piccoli e dei grandi!”
“Dunque Francesco voleva incitare gli esclusi alla rivolta?”
“No, questo furono semmai Dolcino e i suoi. Francesco voleva richiamare gli esclusi, pronti alla rivolta, a far parte del popolo di Dio. Per ricomporre il gregge bisognava ritrovare gli esclusi. Francesco non c'è riuscito e te lo dico con molta amarezza. Per reintegrare gli esclusi doveva agire all'interno della chiesa, per agire all'interno della chiesa doveva ottenere il riconoscimento della sua regola, da cui sarebbe uscito un ordine, e un ordine, come ne uscì, avrebbe ricomposto l'immagine di un cerchio, al cui margine stanno gli esclusi. E allora capisci, ora, perché ci sono le bande dei fraticelli e dei gioachimiti, che raccolgono intorno a loro gli esclusi, ancora una volta.”
“Ma non stavamo parlando di Francesco, bensì di come l'eresia sia il prodotto dei semplici e degli esclusi.”
“Infatti. Parlavamo degli esclusi dal gregge delle pecore. Per secoli, mentre il papa e l'imperatore si dilaniavano nelle loro diatribe di potere, questi hanno continuato a vivere ai margini, essi i veri lebbrosi, di cui i lebbrosi sono solo la figura disposta da Dio perché noi capissimo questa mirabile parabola e dicendo «lebbrosi»
capissimo «esclusi, poveri, semplici, diseredati, sradicati dalle campagne, umiliati nelle città». Non abbiamo capito, il mistero della lebbra è rimasto a ossessionarci perché non ne abbiamo riconosciuto la natura di segno. Esclusi com'erano dal gregge, tutti costoro sono stati pronti ad ascoltare, o a produrre, ogni predicazione che, richiamandosi alla parola di Cristo, in effetti mettesse sotto accusa il comportamento dei cani e dei pastori e promettesse che un giorno essi sarebbero stati puniti. Questo i potenti lo capirono sempre. La reintegrazione degli esclusi imponeva la riduzione dei loro privilegi, per questo gli esclusi che assumevano coscienza della loro esclusione andavano bollati come eretici, indipendentemente dalla loro dottrina. E costoro, dal canto loro, accecati dalla loro esclusione, non erano interessati veramente ad alcuna dottrina. L'illusione dell'eresia è questa. Ciascuno è eretico, ciascuno è ortodosso, non conta la fede che un movimento offre, conta la speranza che propone. Tutte le eresie sono bandiera di una realtà dell'esclusione. Gratta l'eresia, troverai il lebbroso.
Ogni battaglia contro l'eresia vuole solamente questo: che il lebbroso rimanga tale.
Quanto ai lebbrosi cosa vuoi chiedere loro? Che distinguano nel dogma trinitario o nella definizione dell'eucarestia quanto è giusto e quanto è sbagliato? Suvvia Adso, questi sono giochi per noi uomini di dottrina. I semplici hanno altri problemi. E bada, li risolvono tutti nel modo sbagliato. Per questo diventano eretici”.
“Ma perché taluni li appoggiano?”
“Perché servono al loro gioco, che di rado riguarda la fede, e più spesso la conquista del potere.”
“E' per questo che la chiesa di Roma accusa di eresia tutti i suoi avversari?”
“E' per questo, ed è per questo che riconosce come ortodossia quella eresia che può ricondurre entro il proprio controllo, o che deve accettare perché è diventata troppo forte, e non sarebbe bene averla come avversaria. Ma non c'è una regola precisa, dipende dagli uomini, dalle circostanze. E questo vale anche per i signori laici. Cinquanta anni fa il comune di Padova emise un'ordinanza per cui chi uccideva un chierico era condannato all'ammenda di un danaro grosso...”
“Niente!”
“Appunto. Era un modo per incoraggiare l'odio popolare contro i chierici, la città era in lotta con il vescovo. Allora capisci perché, tempo fa, a Cremona i fedeli dell'impero aiutarono i catari, non per ragioni di fede, ma per mettere in imbarazzo la chiesa di Roma. Talora le magistrature cittadine incoraggiano gli eretici perché traducono in volgare il vangelo: il volgare è ormai la lingua delle città, il latino la lingua di Roma e dei monasteri. Oppure appoggiano i valdesi perché affermano che tutti, uomini e donne, piccoli e grandi, possono insegnare e predicare e l'operaio che è discepolo dopo dieci giorni ne cerca un altro di cui diventare maestro...”
“E così eliminano la differenza che rende insostituibili i chierici! Ma allora perché accade poi che le stesse magistrature cittadine si rivoltino contro gli eretici e diano man forte alla chiesa per farli bruciare?”
“Perché si accorgono che la loro espansione metterà in crisi anche i privilegi dei laici che parlano in volgare. Nel concilio lateranense del 1179 (vedi che sono storie che risalgono a quasi duecento anni fa) Walter Map già metteva in guardia contro quello che sarebbe avvenuto dando credito a quegli uomini idioti e illetterati che erano i valdesi. Disse, se ben ricordo, che essi non hanno fissa dimora, girano a piedi nudi senza possedere nulla, tenendo tutto in comune, seguendo nudi il Cristo nudo; ora cominciano in questo modo umilissimo perché sono esclusi, ma se si lascia loro troppo spazio cacceranno tutti. Per questo poi le città hanno favorito gli ordini mendicanti e noi francescani in particolare: perché permettevamo di stabilire un rapporto armonico tra bisogno di penitenza e vita cittadina, tra la chiesa e i borghesi che si interessavano ai loro mercati...”
“Si è raggiunta l'armonia, allora, tra amor di Dio e amor dei traffici?”
“No, si sono bloccati i movimenti di rinnovamento spirituale, si sono incanalati nei limiti di un ordine riconosciuto dal papa. Ma quello che serpeggiava sotto non è stato incanalato. E' finito da un lato nei movimenti dei flagellanti che non fanno male a nessuno, nelle bande armate come quelle di fra Dolcino, nei riti stregoneschi come quelli dei frati di Montefalco di cui parlava Ubertino...”
“Ma chi aveva ragione, chi ha ragione, chi ha sbagliato?” domandai smarrito.
“Tutti avevano la loro ragione, tutti hanno sbagliato.”
“Ma voi,” gridai quasi in un impeto di ribellione, “perché non prendete posizione, perché non mi dite dove sta la verità?”
Guglielmo stette alquanto in silenzio, sollevando verso la luce la lente alla quale stava lavorando. Poi la abbassò sul tavolo e mi mostrò, attraverso la lente, un ferro da lavoro: “Guarda,” mi disse, “cosa vedi?”
“Il ferro, un poco più grande.”
“Ecco, il massimo che si può fare è guardare meglio.”
“Ma è sempre lo stesso ferro!”
“Anche il manoscritto di Venanzio sarà sempre lo stesso manoscritto quando avrò potuto leggerlo grazie a questa lente. Ma forse quando avrò letto il manoscritto conoscerò meglio una parte della verità. E forse potremo rendere migliore la vita dell'abbazia.”
“Ma non basta!”
“Sto dicendo più di quel che sembra, Adso. Non è la prima volta che ti parlo di Ruggiero Bacone. Forse non fu l'uomo più saggio di tutti i tempi, ma io sono sempre stato affascinato dalla speranza che animava il suo amore per la sapienza. Bacone credeva nella forza, nei bisogni, nelle invenzioni spirituali dei semplici. Non sarebbe stato un buon francescano se non avesse pensato che i poveri, i diseredati, gli idioti e gli illetterati parlano spesso con la bocca di Nostro Signore. Se avesse potuto conoscerli da vicino, sarebbe stato più attento ai fraticelli che ai provinciali dell'ordine. I semplici hanno qualcosa in più dei dottori, che spesso si perdono alla ricerca di leggi generalissime. Essi hanno l'intuizione dell'individuale. Ma questa intuizione, da sola, non basta. I semplici avvertono una loro verità, forse più vera di quella dei dottori della chiesa, ma poi la consumano in gesti irriflessi. Cosa bisogna fare? Dare la scienza ai semplici? Troppo facile, o troppo difficile. E poi quale scienza? Quella della biblioteca di Abbone? I maestri francescani si sono posti questo problema. Il grande Bonaventura diceva che i saggi devono portare a chiarezza concettuale la verità implicita nei gesti dei semplici...”
“Come il capitolo di Perugia e le dotte memorie di Ubertino che trasformano in decisioni teologiche il richiamo dei semplici alla povertà,” dissi.
“Sì, ma lo hai visto, avviene in ritardo e, quando avviene, la verità dei semplici si è già trasformata nella verità dei potenti, buona più per l'imperatore Ludovico che per un frate di povera vita. Come restare vicini all'esperienza dei semplici mantenendone, per così dire, la virtù operativa, la capacità di operare per la trasformazione e il miglioramento del loro mondo? Questo era il problema di Bacone: «Quod enim laicali ruditate turgescit non habet effectum nisi fortuito,»
diceva. L'esperienza dei semplici ha esiti selvaggi e incontrollabili. «Sed opera sapientiae certa lege vallantur et in fine debitum efficaciter diriguntur.» Che è come dire che anche nella condotta delle cose pratiche, siano pure esse la meccanica, l'agricoltura o il governo di una città, ci vuole una sorta di teologia. Egli pensava che la nuova scienza della natura dovesse essere la nuova grande impresa dei dotti per coordinare, attraverso una diversa conoscenza dei processi naturali, i bisogni elementari che costituivano anche il coacervo disordinato, ma a suo modo vero e giusto, delle attese dei semplici. La nuova scienza, la nuova magìa naturale. Soltanto che per Bacone questa impresa doveva essere diretta dalla chiesa e credo che dicesse così perché ai suoi tempi la comunità dei chierici si identificava con la comunità dei sapienti. Oggi non è più così, nascono sapienti fuori dai monasteri, e dalle cattedrali, persino dalle università. Vedi per esempio in questo paese, il più grande filosofo del nostro secolo non è stato un monaco, ma uno speziale. Dico di quel fiorentino di cui avrai sentito nominare il poema, che io non ho mai letto perché non capisco il suo volgare, e per quanto ne so mi piacerebbe assai poco perché vi vaneggia di cose molto lontane dalla nostra esperienza. Ma ha scritto, credo, le cose più sagge che ci sia dato di comprendere sulla natura degli elementi e del cosmo tutto, e sulla conduzione degli stati. Così penso che, poiché anch'io e i miei amici riteniamo oggi che per la condotta delle cose umane non spetti alla chiesa ma all'assemblea del popolo legiferare, nello stesso modo in futuro spetterà alla comunità dei dotti
proporre questa nuovissima e umana teologia che è filosofia naturale e magìa positiva.”
“Una bellissima impresa,” dissi, “ma è possibile?”
“Bacone ci credeva.”
“E voi?”
“Anch'io ci credevo. Ma per crederci occorrerà essere sicuri che i semplici hanno ragione perché posseggono l'intuizione dell'individuale, che è l'unica buona.
Però se l'intuizione dell'individuale è l'unica buona, come potrà la scienza arrivare a ricomporre le leggi universali attraverso cui, e interpretando le quali, la magìa buona diventa operativa?”
“Già,” dissi, “come potrà?”
“Non lo so più. Ho avuto tante discussioni a Oxford col mio amico Guglielmo di Occam, che ora è ad Avignone. Mi ha seminato l'animo di dubbi. Perché se solo l'intuizione dell'individuale è giusta, il fatto che cause dello stesso genere abbiano effetti dello stesso genere è proposizione difficile da provare. Uno stesso corpo può essere freddo o caldo, dolce o amaro, umido o secco, in un luogo - e in un altro luogo no. Come posso scoprire il legame universale che rende ordinate le cose se non posso muovere un dito senza creare una infinità di nuovi enti, poiché con tale movimento mutano tutte le relazioni di posizione tra il mio dito e tutti gli altri oggetti? Le relazioni sono i modi in cui la mia mente percepisce il rapporto tra enti singolari, ma quale è la garanzia che questo modo sia universale e stabile?”
“Ma voi sapete che a un certo spessore di un vetro corrisponde una certa potenza di visione, ed è perché lo sapete che potete ora costruire lenti uguali a quelle che avete perduto, altrimenti come potreste?”
“Acuta risposta, Adso. In effetti io ho elaborato questa proposizione, che a spessore uguale deve corrispondere uguale potenza di visione. L'ho posta perché altre volte ho avuto intuizioni individuali dello stesso tipo. Certo è noto a chi esperimenta la proprietà curativa delle erbe che tutti gli individui erbacei della stessa natura hanno nel paziente, ugualmente disposto, effetti della stessa natura, e perciò lo sperimentatore formula la proposizione che ogni erba di tale tipo giova al febbricitante, o che ogni lente di tale tipo magnifica in uguale misura la visione dell'occhio. La scienza di cui parlava Bacone verte indubbiamente intorno a queste proposizioni. Bada, parlo di proposizioni sulle cose, non di cose. La scienza ha a che fare con le proposizioni e i suoi termini, e i termini indicano cose singolari. Capisci Adso, io devo credere che la mia proposizione funzioni, perché l'ho appreso in base all'esperienza, ma per crederlo dovrei supporre che vi siano leggi universali, eppure non posso parlarne, perché lo stesso concetto che esistano leggi universali, e un ordine dato delle cose, implicherebbe che Dio ne fosse prigioniero, mentre Dio è cosa così assolutamente libera che, se volesse, e di un solo atto della sua volontà, il mondo sarebbe altrimenti.”
“Quindi, se ben capisco, fate, e sapete perché fate, ma non sapete perché sapete che sapete quel che fate?”
Devo dire con orgoglio che Guglielmo mi guardò con ammirazione:
“Forse è così. In ogni modo questo ti dice perché mi senta così incerto della mia verità, anche se ci credo.”
“Siete più mistico di Ubertino!” dissi maliziosamente.
“Forse. Ma come vedi lavoro sulle cose di natura. E anche nell'indagine che stiamo svolgendo, non voglio sapere chi sia buono o chi sia malvagio, ma chi sia stato nello scriptorium ieri sera, chi abbia preso gli occhiali, chi abbia lasciato sulla neve le orme di un corpo che trascina un altro corpo, e dove sia Berengario. Questi sono fatti, poi proverò a legarli tra loro, se mai sia possibile, perché è difficile dire quale effetto sia dato da quale causa; basterebbe l'intervento di un angelo per cambiare tutto, perciò non c'è da meravigliarsi se non si può dimostrare che una cosa sia la causa di un'altra cosa. Anche se bisogna provarci sempre, come sto facendo.”
“E' una vita difficile, la vostra,” dissi.
“Ma ho trovato Brunello,” esclamò Guglielmo, alludendo al cavallo di due giorni prima.
“Allora c'è un ordine del mondo!” gridai trionfante.
“Allora c'è un po' d'ordine in questa mia povera testa,” rispose Guglielmo.
In quel punto rientrò Nicola portando una forcella quasi finita e mostrandola trionfalmente.
“E quando ci sarà questa forcella sul mio povero naso,” disse Guglielmo,
“forse la mia povera testa sarà ancora più ordinata.”
Venne un novizio a informarci che l'Abate voleva vedere Guglielmo, e lo attendeva in giardino. Il mio maestro fu costretto a rimandare i suoi esperimenti a più tardi e ci affrettammo verso il luogo dell'incontro. Mentre ci avviavamo Guglielmo si dette un colpo in fronte, come se si ricordasse solo a quel punto di qualcosa che aveva dimenticato.
“A proposito,” disse, “ho decifrato i segni cabalistici di Venanzio.”
“Tutti?! Quando?”
“Quando dormivi. E dipende cosa intendi per tutti. Ho decifrato i segni apparsi alla fiamma, quelli che tu hai ricopiato. Gli appunti in greco devono attendere che io abbia nuove lenti.”
“Allora? Si trattava del segreto del finis Africae?”
“Sì, e la chiave era abbastanza facile. Venanzio disponeva dei dodici segni zodiacali e di otto segni per i cinque pianeti, i due luminari e la terra. Venti segni in tutto. Abbastanza per associarvi le lettere dell'alfabeto latino, dato che puoi usare la stessa lettera per esprimere il suono delle due iniziali di unum e di velut. L'ordine delle lettere, lo sappiamo. Quale poteva essere l'ordine dei segni? Ho pensato all'ordine dei cieli, ponendo il quadrante zodiacale all'estrema periferia. Quindi, Terra, Luna, Mercurio, Venere, Sole, eccetera, e poi di seguito i segni zodiacali nella loro sequenza tradizionale, così come li classifica anche Isidoro di Siviglia, a cominciare dall'Ariete e dal solstizio di primavera, finendo coi Pesci. Ora, se provi ad applicare questa chiave, ecco che il messaggio di Venanzio acquista un senso.”
Mi mostrò la pergamena, su cui aveva trascritto il messaggio in grandi lettere latine: Secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor.
“E' chiaro?” chiese.
“La mano sopra l'idolo opera sul primo e sul settimo dei quattro...” ripetei scuotendo la testa. “Non è chiaro affatto!”
“Lo so. Bisognerebbe anzitutto sapere cosa Venanzio intendeva con idolum.
Una immagine, un fantasma, una figura? E poi, cosa saranno questi quattro che hanno un primo e un settimo? E che cosa bisogna farne? Muoverli, spingerli, tirarli?”
“Allora non sappiamo nulla e siamo al punto di prima,” dissi con gran disappunto. Guglielmo si arrestò e mi guardò con un'aria non del tutto benevola.
“Ragazzo mio,” disse, “hai di fronte a te un povero francescano che con le sue modeste conoscenze e quel poco di abilità che deve alla infinita potenza del Signore è riuscito in poche ore a decifrare una scrittura segreta che il suo autore era sicuro riuscisse ermetica per tutti tranne che per lui... e tu, miserabile furfante illetterato, ti permetti di dire che siamo al punto di prima?”
Mi scusai con molta goffaggine. Avevo ferito la vanità del mio maestro, eppure sapevo quanto egli andasse fiero della rapidità e sicurezza delle sue deduzioni. Guglielmo aveva davvero compiuto un'opera degna di ammirazione e non era colpa sua se il callidissimo Venanzio non solo aveva celato quanto aveva scoperto sotto le spoglie di un oscuro alfabeto zodiacale, ma aveva anche elaborato un indecifrabile enigma.
“Non importa, non importa, non scusarti,” mi interruppe Guglielmo. “In fondo hai ragione, sappiamo ancora troppo poco. Andiamo.”
Terzo giorno
Vespri
Dove si parla ancora con l'Abate, Guglielmo ha alcune idee mirabolanti per decifrare l'enigma del labirinto, e ci riesce nel modo più ragionevole. Poi si mangia il casio in
pastelletto
L'Abate ci attendeva con aria scura e preoccupata. Aveva in mano una carta.
“Ho ricevuto ora una lettera dall'abate di Conques,” disse. “Mi comunica il nome di colui a cui Giovanni ha affidato il comando dei soldati francesi, e la cura dell'incolumità della legazione. Non è un uomo d'arme, non è un uomo di corte, e sarà al tempo stesso un membro della legazione.”
“Raro connubio di diverse virtù,” disse Guglielmo inquieto. “Chi sarà?”
“Bernardo Gui, o Bernardo Guidoni, come volete chiamarlo.”
Guglielmo esplose in una esclamazione nella sua lingua, che non capii, né la capì l'Abate, e forse fu meglio per tutti, perché la parola che Guglielmo disse sibilava in modo osceno.
“La cosa non mi piace,” aggiunse subito. “Bernardo è stato per anni martello degli eretici nel tolosano e ha scritto una Practica officii inquisitionis heretice pravitatis a uso di tutti coloro che dovranno perseguire e distruggere valdesi, beghini, pinzocheri, fraticelli e dolciniani.”
“Lo so. Conosco il libro, mirabile di dottrina.”
“Mirabile di dottrina,” ammise Guglielmo. “E' devoto a Giovanni che negli anni scorsi gli ha affidato molte missioni nelle Fiandre e qui nell'alta Italia. E anche quando è stato nominato vescovo in Galizia non si è mai fatto vedere nella sua diocesi e ha continuato l'attività inquisitoriale. Ora credevo si fosse ritirato nel vescovado di Lodève, ma a quanto pare Giovanni lo rimette all'opera e proprio qui nell'Italia settentrionale. Perché proprio Bernardo e perché con responsabilità degli armati...?”
“La risposta c'è,” disse l'Abate, “e conferma tutti i timori che vi esprimevo ieri.
Sapete bene - anche se non volete ammetterlo con me - che le posizioni sulla povertà di Cristo e della chiesa sostenute dal capitolo di Perugia, sia pure con dovizia di argomenti teologici, sono le stesse sostenute in modo molto meno prudente e con un comportamento meno ortodosso da molti movimenti ereticali. Ci vuole poco a dimostrare che le posizioni di Michele da Cesena, fatte proprie dall'imperatore, sono le stesse di quelle di Ubertino e di Angelo Clareno. E sin qui le due legazioni saranno d'accordo. Ma Gui potrebbe fare di più, e ne ha l'abilità: cercherà di sostenere che le tesi di Perugia sono le stesse dei fraticelli, o degli pseudo apostoli. Siete d'accordo?”
“Dite che le cose stanno così o che Bernardo Gui dirà che stanno così?”
“Diciamo che dico che lui lo dirà,” concesse prudentemente l'Abate.
“Ne convengo anch'io. Ma questo era previsto. Voglio dire, si sapeva che si sarebbe arrivati a questo anche senza la presenza di Bernardo. Al massimo Bernardo lo farà con più efficienza di tanti di quei curiali da poco, e si tratterà di discutere contro di lui con maggior sottigliezza.”
“Sì,” disse l'Abate, “ma a questo punto siamo di fronte alla questione suscitata ieri. Se non troviamo entro domani il colpevole di due o forse di tre delitti, dovrò concedere a Bernardo di esercitare una sorveglianza sulle cose dell'abbazia. Non posso celare a un uomo investito del potere di Bernardo (e per nostro mutuo accordo, ricordiamocelo) che qui all'abbazia sono avvenuti, stanno ancora avvenendo, fatti inesplicabili. Altrimenti, nel momento in cui egli lo scoprisse, nel momento che (Dio non voglia) avvenisse un nuovo fatto misterioso, egli avrebbe tutto il diritto di gridare al tradimento...”
“E' vero,” mormorò Guglielmo preoccupato. “Non c'è nulla da fare. Bisognerà stare attenti, e vigilare su Bernardo che vigilerà sul misterioso assassino. Forse sarà un bene, Bernardo occupato a badare all'assassino sarà meno disponibile per intervenire nella discussione.”
“Bernardo occupato a scoprire l'assassino sarà una spina nel fianco della mia autorità, ricordatevelo. Questa torbida vicenda mi impone per la prima volta di cedere parte del mio potere entro queste mura, ed è un fatto nuovo non solo nella storia di questa abbazia, ma dello stesso ordine cluniacense. Farei qualsiasi cosa per evitarlo. E la prima cosa da fare sarebbe negare ospitalità alle legazioni.”
“Prego ardentemente la sublimità vostra di riflettere su questa grave decisione,” disse Guglielmo. “Voi avete tra le mani una lettera dell'imperatore che vi invita caldamente a...”
“So cosa mi lega all'imperatore,” disse bruscamente l'Abate, “e lo sapete anche voi. E quindi sapete che purtroppo non posso recedere. Ma tutto questo è molto brutto. Dov'è Berengario, cosa gli è accaduto, cosa state facendo?”
“Sono solo un frate che ha condotto tanto tempo fa delle efficaci indagini inquisitorie. Voi sapete che non si trova la verità in due giorni. E infine che potere mi avete concesso? Posso entrare nella biblioteca? Posso porre tutte le domande che voglio, sostenuto sempre dalla vostra autorità?”
“Non vedo il rapporto tra i delitti e la biblioteca,” disse corrucciato l'Abate.
“Adelmo era miniatore, Venanzio traduttore, Berengario aiuto bibliotecario...”
spiegò pazientemente Guglielmo.
“In questo senso tutti e sessanta i monaci hanno a che fare con la biblioteca, così come hanno a che vedere con la chiesa. Perché allora non cercate in chiesa?
Frate Guglielmo, voi state conducendo una inchiesta per mio mandato e nei limiti in cui vi ho pregato di condurla. Per il resto, in questa cinta di mura, io sono il solo padrone dopo Dio, e per grazia sua. E questo varrà anche per Bernardo. D'altra parte,” aggiunse in tono più mansueto, “non è neppure detto che Bernardo sia qui proprio per l'incontro. L'abate di Conques mi scrive anche che scende in Italia per proseguire a sud. Mi dice pure che il papa ha pregato il cardinal Bertrando del Poggetto di salire da Bologna e recarsi qui per prendere il comando della legazione pontificia. Forse Bernardo viene qui per incontrarsi col cardinale.”
“Il che, in una prospettiva più ampia, sarebbe peggio. Bertrando è il martello degli eretici nell'Italia centrale. Questo incontro tra due campioni della lotta antiereticale può annunciare una offensiva più vasta nel paese, per coinvolgere alla fine tutto il movimento francescano...”
“E di questo informeremo subito l'imperatore,” disse l'Abate, “ma in questo caso il pericolo non sarebbe immediato. Vigileremo. Addio.”
Guglielmo rimase un poco silenzioso mentre l'Abate si allontanava. Poi mi disse: “Soprattutto, Adso, cerchiamo di non farci prendere dalla fretta. Le cose non si risolvono rapidamente quando si devono accumulare tante minute esperienze individuali. Io torno al laboratorio, perché senza le lenti non solo non potrò leggere il manoscritto ma non converrà neppure che si ritorni stanotte in biblioteca. Tu va a informarti se si sa qualcosa di Berengario.”
In quel momento ci corse incontro Nicola da Morimondo, latore di pessime notizie. Mentre cercava di molare meglio la lente migliore, quella su cui Guglielmo riponeva tante speranze, essa si era rotta. E un'altra, che poteva forse sostituirla, si era incrinata mentre provava a inserirla nella forcella. Nicola ci mostrò sconsolatamente il cielo. Era già l'ora del vespro e l'oscurità stava scendendo. Per quel giorno non si sarebbe più potuto lavorare. Un'altra giornata perduta, convenne amaramente Guglielmo, reprimendo (come mi confessò dopo) la tentazione di afferrare alla gola il vetraio maldestro, il quale d'altra parte era già abbastanza umiliato.
Lo lasciammo alla sua umiliazione e andammo a informarci circa Berengario.
Naturalmente nessuno lo aveva trovato.
Ci sentivamo a un punto morto. Passeggiammo un poco nel chiostro, incerti sul da farsi. Ma dopo breve vidi che Guglielmo stava assorto con lo sguardo perduto nell'aria, come se non vedesse nulla. Da poco si era tolto dal saio un rametto di quelle erbe che gli avevo visto raccogliere settimane prima, e lo stava masticando come se ne traesse una sorta di calma eccitazione. Infatti pareva assente, ma ogni tanto i suoi occhi si illuminavano come se nel vuoto della sua mente si fosse accesa una idea nuova; poi ripiombava in quella sua singolare e attiva ebetudine. A un tratto disse:
“Certo, si potrebbe...”
“Cosa?” chiesi.
“Pensavo a un modo di orientarci nel labirinto. Non è semplice da realizzare, ma sarebbe efficace... In fondo, l'uscita è nel torrione orientale, e questo lo sappiamo.
Ora supponi che noi avessimo una macchina che ci dice da che parte sta settentrione.
Cosa accadrebbe?”
“Che naturalmente basterebbe girare alla nostra destra e ci si rivolgerebbe verso oriente. Oppure basterebbe andare in senso contrario, e sapremmo di andare verso il torrione meridionale. Ma anche ammesso che esistesse una simile magìa, il labirinto è appunto un labirinto, e appena dirigessimo a oriente incontreremmo una parete che ci impedirebbe di andare diritto, e perderemmo di nuovo la strada...”
osservai.
“Sì, ma la macchina di cui parlo segnerebbe sempre la direzione di settentrione, anche se noi avessimo mutato il cammino, e a ogni punto ci direbbe da quale parte voltare.”
“Sarebbe meraviglioso. Ma bisognerebbe avere questa macchina, ed essa dovrebbe essere capace di riconoscere settentrione di notte e in luogo chiuso, senza poter vedere né il sole né le stelle... E non credo che neppure il vostro Bacone possedesse una macchina simile!” risi.
“E invece ti sbagli,” disse Guglielmo, “perché una macchina del genere è stata costruita e alcuni navigatori l'hanno usata. Essa non ha bisogno delle stelle o del sole, perché sfrutta la forza di una pietra meravigliosa, uguale a quella che abbiamo visto nell'ospedale di Severino, quella che attira il ferro. Ed è stata studiata da Bacone e da un mago piccardo, Pietro da Maricourt, che ne ha descritto i molteplici usi.”
“E voi sapreste costruirla?”
“Di per sé non sarebbe difficile. La pietra può essere usata per produrre molte mirabilia, tra cui una macchina che si muove perpetuamente senza alcuna forza esterna, ma la trovata più semplice è stata anche descritta da un arabo, Baylek al Qabayaki. Prendi un vaso pieno d'acqua e vi poni a galleggiare un sughero in cui hai infilato un ago di ferro. Poi passi la pietra magnetica sopra la superficie dell'acqua, con un moto circolare, sino a che l'ago non acquista le stesse proprietà della pietra. E
a quel punto l'ago, ma l'avrebbe fatto anche la pietra se avesse avuto la possibilità di muovere intorno a un pernio, si dispone con la punta in direzione di settentrione, e se tu ti muovi col vaso, essa si volta sempre dalla parte di tramontana. Inutile che ti dica che se avrai segnato sul bordo del vaso, in relazione a tramontana, anche le posizioni di austro, aquilone e così via, tu saprai sempre da che parte muoverti in biblioteca per raggiungere il torrione orientale.”
“Che cosa meravigliosa!” esclamai. “Ma perché l'ago punta sempre a settentrione? La pietra attira il ferro, l'ho visto, e immagino che una immensa quantità di ferro attiri la pietra. Ma allora... allora in direzione della stella polare, ai limiti estremi del globo, esistono le grandi miniere di ferro!”
“Qualcuno ha suggerito infatti che sia così. Salvo che l'ago non punta esattamente nella direzione della stella nautica, ma verso il punto d'incontro dei meridiani celesti. Segno che, come è stato detto, «hic lapis gerit in se similitudinem coeli», e i poli del magnete ricevono la loro inclinazione dai poli del cielo e non da quelli della terra. Il che è un bell'esempio di movimento impresso a distanza e non per diretta causalità materiale: un problema di cui si sta occupando il mio amico Giovanni di Gianduno, quando l'imperatore non gli chiede di far sprofondare Avignone nelle viscere della terra...”
“Allora andiamo a prendere la pietra di Severino, e un vaso, e dell'acqua, e un sughero...” dissi eccitato.
“Piano, piano,” disse Guglielmo. “Non so perché, ma non ho mai visto una macchina che, perfetta nella descrizione dei filosofi, poi sia perfetta nel suo funzionamento meccanico. Mentre la roncola di un contadino, che nessun filosofo ha mai descritto, funziona come si deve... Ho paura che a girare per il labirinto con un lume in una mano e un vaso pieno d'acqua nell'altra... Aspetta, mi viene un'altra idea.
La macchina segnerebbe settentrione anche se fossimo fuori dal labirinto, è vero?”
“Sì, ma a quel punto non ci servirebbe perché avremmo il sole e le stelle...”
dissi.
“Lo so, lo so. Ma se la macchina funziona sia fuori sia dentro, perché non dovrebbe essere così anche per la nostra testa?”
“La nostra testa? Certo che essa funziona anche fuori, e infatti da fuori sappiamo benissimo quale sia l'orientamento dell'Edificio! Ma è quando siamo dentro che non capiamo più niente!”
“Appunto. Ma dimentica ora la macchina. Il pensare alla macchina mi ha indotto a pensare alle leggi naturali e alle leggi del nostro pensiero. Ecco il punto: dobbiamo trovare da fuori un modo di descrivere l'Edificio come è da dentro...”
“E come?”
“Lasciami pensare, non deve essere così difficile...”
“E il metodo di cui dicevate ieri? Non volevate percorrere il labirinto facendo segni col carbone?”
“No,” disse, “più ci penso, meno mi convince. Forse non riesco a ricordare bene la regola, o forse per girare in un labirinto bisogna avere una buona Arianna che ti attende alla porta tenendo il capo di un filo. Ma non esistono fili così lunghi. E
anche se esistessero, ciò significherebbe (spesso le favole dicono la verità) che si esce da un labirinto solo con un aiuto esterno. Dove le leggi dell'esterno siano uguali alle leggi dell'interno. Ecco, Adso, useremo le scienze matematiche. Solo nelle scienze matematiche, come dice Averroè, si identificano le cose note per noi e quelle note in modo assoluto.”
“Allora vedete che ammettete delle conoscenze universali.”
“Le conoscenze matematiche sono proposizioni costruite dal nostro intelletto in modo da funzionare sempre come vere, o perché sono innate o perché la matematica è stata inventata prima delle altre scienze. E la biblioteca è stata costruita da una mente umana che pensava in modo matematico, perché senza matematica non fai labirinti. E quindi si tratta di confrontare le nostre proposizioni matematiche con le proposizioni del costruttore, e di questo confronto si può dare scienza, perché è scienza di termini su termini. E in ogni caso smettila di trascinarmi in discussioni di metafisica. Che diavolo ti ha morso oggi? Piuttosto, tu che hai gli occhi buoni, prendi una pergamena, una tavoletta, qualcosa su cui far segni, e uno stilo... bene, ce l'hai, bravo Adso. Andiamo a fare un giro intorno all'Edificio, sino a che abbiamo ancora un poco di luce.”
Girammo dunque a lungo intorno all'Edificio. E cioè esaminammo da lontano i torrioni orientale, meridionale e occidentale, con le pareti che li collegavano. Perché quanto al resto, dava sullo strapiombo, ma per ragioni di simmetria non doveva essere diverso da ciò che vedevamo.
E quel che vedemmo, osservò Guglielmo mentre mi faceva prendere precisi appunti sulla mia tavoletta, era che ogni muro aveva due finestre, e ogni torrione cinque.
“Ora ragiona,” mi disse il mio maestro. “Ogni stanza che abbiamo visto aveva una finestra...”
“Meno quelle a sette lati,” dissi.
“Ed è naturale, sono quelle al centro di ogni torre.”
“E meno alcune che trovammo senza finestre e non erano eptagonali.”
“Dimenticale. Prima troviamo la regola, poi cercheremo di giustificare le eccezioni. Dunque avremo all'esterno cinque stanze per ogni torre e due stanze per ogni muro, ciascuna con una finestra. Ma se da una stanza con finestra si procede verso l'interno dell'Edificio, si incontra un'altra sala con finestra. Segno che si tratta delle finestre interne. Ora quale forma ha il pozzo interno, quale lo si vede in cucina e nello scriptorium?”
“Ottagonale,” dissi.
“Ottimo. E su ogni lato dell'ottagono, nello scriptorium, si aprono due finestre.
Questo vuol dire che per ogni lato dell'ottagono, ci sono due stanze interne? Giusto?”
“Sì, ma le stanze senza finestra?”
“Sono otto in tutto. Infatti la sala interna a ogni torrione, a sette lati, ha cinque pareti che danno su ciascuna delle cinque stanze di ogni torrione. Con cosa confinano le altre due pareti? Non con una stanza posta lungo i muri esterni, ché vi sarebbero le finestre, né con una disposta lungo l'ottagono, per le stesse ragioni, e perché sarebbero allora stanze esageratamente lunghe. Prova infatti a tracciare un disegno di come possa apparire la biblioteca vista dall'alto. Vedi che in corrispondenza a ogni torre devono esserci due stanze che confinano con la stanza eptagonale e danno su due stanze che confinano con il pozzo ottagonale interno.”
Provai a tracciare il disegno che il mio maestro mi suggeriva e lanciai un grido di trionfo. “Ma allora sappiamo tutto! Lasciatemi contare... La biblioteca ha cinquantasei stanze, di cui quattro eptagonali e cinquantadue più o meno quadrate, e, di queste, quattro sono senza finestre, mentre ventotto danno sull'esterno e sedici sull'interno!”
“E i quattro torrioni hanno ciascuno cinque stanze di quattro lati e una di sette... La biblioteca è costruita secondo un'armonia celeste a cui si possono attribuire vari e mirifici significati...”
“Splendida scoperta,” dissi, “ma allora perché è così difficile orientarvisi?”
“Perché ciò che non risponde a nessuna legge matematica è la disposizione dei varchi. Alcune stanze consentono il passaggio a più altre, alcune a una sola, e c'è da chiedersi se non vi siano stanze che non consentono il passaggio a nessuna. Se consideri questo elemento, più la mancanza di luce e il nessun indizio fornito dalla posizione del sole (e vi aggiungi le visioni e gli specchi), capisci come il labirinto sia capace di confondere chiunque lo percorra, già agitato da un senso di colpa. D'altra parte pensa a come eravamo disperati noi ieri sera quando non riuscivamo più a trovare la strada. Il massimo di confusione raggiunto con il massimo di ordine: mi pare un calcolo sublime. I costruttori della biblioteca erano dei gran maestri.”
“Come faremo allora a orientarci?”
“A questo punto non è difficile. Con la mappa che tu hai tracciato, e che bene o male deve corrispondete al tracciato della biblioteca, appena saremo nella prima sala eptagonale, ci muoveremo in modo di trovare subito una delle due stanze cieche.
Poi, voltando sempre a destra, dopo tre o quattro stanze, dovremmo essere di nuovo in un torrione, che non potrà essere che il torrione settentrionale, sino a tornare in un'altra stanza cieca, che a sinistra confinerà con la sala eptagonale, e a destra dovrà
permetterci di ritrovare un tragitto analogo a quello che ti ho detto or ora, sino ad arrivare al torrione occidentale.”
“Sì, se tutte le stanze immettessero in tutte le stanze...”
“Infatti. E per questo ci occorrerà la tua mappa, su cui segnare le pareti piene, in modo da sapere quali deviazioni stiamo facendo. Ma non sarà difficile.”
“Ma siamo sicuri che funzionerà?” chiesi perplesso, perché mi pareva tutto troppo semplice.
“Funzionerà,” rispose Guglielmo. “Omnes enim causae effectuum naturalium dantur per lineas, angulos et figuras. Aliter enim impossibile est scire propter quid in illis,” citò. “Sono parole di uno dei grandi maestri di Oxford. Ma purtroppo non sappiamo ancora tutto. Abbiamo appreso come non perderci. Ora si tratta di sapere se c'è una regola che governa la distribuzione dei libri nelle stanze. E i versetti dell'Apocalisse ci dicono assai poco, anche perché molti si ripetono uguali in stanze diverse...”
“Eppure il libro dell'apostolo avrebbe permesso di trovare ben più di cinquantasei versetti!”
“Indubbiamente. Quindi solo alcuni versetti sono buoni. Strano. Come se ne avessero avuto meno di cinquanta, trenta, venti... Oh, per la barba di Merlino!”
“Di chi?”
“Non fa nulla, un mago delle mie terre... Hanno usato tanti versetti quante sono le lettere dell'alfabeto! Certo che è così! Il testo dei versetti non conta, contano le lettere iniziali. Ogni stanza è contrassegnata da una lettera dell'alfabeto, e tutte insieme compongono qualche testo che dobbiamo scoprire!”
“Come un carme figurato, a forma di croce o di pesce!”
“Più o meno, e probabilmente ai tempi in cui la biblioteca fu costituita questo tipo di carmi era molto in voga.”
“Ma da dove inizia il testo?”
“Da un cartiglio più grande degli altri, dalla sala eptagonale del torrione d'ingresso... oppure... Ma certo, dalle frasi in rosso!”
“Ma sono tante!”
“E quindi ci saranno molti testi, o molte parole. Ora tu ricopi meglio e più in grande la tua mappa, poi visitando la biblioteca non solo segnerai col tuo stilo, e leggermente, le stanze da cui passiamo, e la posizione delle porte e delle pareti (nonché delle finestre), ma anche la lettera iniziale del versetto che vi appare, e in qualche modo, come un buon miniatore, farai più grande le lettere in rosso.”
“Ma come accade,” dissi ammirato, “che siete riuscito a risolvere il mistero della biblioteca guardandola da fuori e non l'avete risolto quando eravate dentro?”
“Così Dio conosce il mondo, perché lo ha concepito nella sua mente, come dall'esterno, prima che fosse creato, mentre noi non ne conosciamo la regola, perché vi viviamo dentro trovandolo già fatto.”
“Così si possono conoscere le cose guardandole dal di fuori!”
“Le cose dell'arte, perché ripercorriamo nella nostra mente le operazioni dell'artefice. Non le cose della natura, perché non sono opera della nostra mente.”
“Ma per la biblioteca ci basta, vero?”
“Sì,” disse Guglielmo. “Ma solo per la biblioteca. Ora andiamo a riposare. Io non posso far nulla sino a domani mattina quando avrò - spero - le mie lenti. Tanto vale dormire e levarci per tempo. Cercherò di riflettere.”
“E la cena?”
“Ah, già, la cena. E' passata l'ora ormai. I monaci sono già a compieta. Ma forse la cucina è ancora aperta. Va a cercare qualcosa.”
“Rubare?”
“Chiedere. A Salvatore, che è ormai tuo amico.”
“Ma ruberà lui!”
“Sei forse il custode di tuo fratello?” domandò Guglielmo con le parole di Caino. Ma mi avvidi che scherzava e voleva dire che Dio è grande e misericordioso.
Per questo mi misi alla ricerca di Salvatore e lo trovai presso alle stalle dei cavalli.
“Bello,” dissi accennando a Brunello, e tanto per attaccare discorso. “Mi piacerebbe cavalcarlo.”
“No se puede. Abbonis est. Ma non bisogna un buon cavallo per correre forte...” Mi indicò un cavallo robusto ma sgraziato: “Anco quello sufficit... Vide illuc, tertius equi...”
Voleva indicarmi il terzo cavallo. Risi del suo buffissimo latino. “E cosa farai con quello?” gli domandai.
E mi raccontò una strana storia. Disse che si poteva rendere qualsiasi cavallo, anche la bestia più vecchia e fiacca, altrettanto veloce di Brunello. Occorre mescolare nella sua avena un'erba che si chiama satirion, ben tritata, e poi ungere le cosce con grasso di cervo. Poi si sale sul cavallo e prima di spronarlo gli si volge il muso a levante e gli si pronuncia nell'orecchio, tre volte a voce bassa, le parole “Gaspare, Melchiorre, Merchisardo”. Il cavallo partirà di gran carriera e farà in un'ora il cammino che Brunello farebbe in otto ore. E se gli si fosse appeso al collo i denti di un lupo che il cavallo stesso, correndo, avesse ucciso, la bestia non sentirebbe neppure la fatica.
Gli chiesi se aveva mai provato. Mi disse, avvicinandosi circospetto e sussurrandomi all'orecchio, col suo alito invero sgradevole, che era molto difficile, perché il satirion viene ormai coltivato solo dai vescovi e dai cavalieri loro amici, che se ne servono per accrescere il loro potere. Posi fine al suo discorso e gli dissi che quella sera il mio maestro voleva leggere certi libri in cella e desiderava mangiare lassù.
“Facio mi,” disse, “facio el casio in pastelletto.”
“Com'è?”
“Facilis. Pigli el casio che non sia troppo vecchio, né troppo insalato e tagliato in feteline a boconi quadri o sicut te piace. Et postea metterai un poco de butierro o vero de structo fresco à rechauffer sobre la brasia. E dentro vamos a poner due fette de casio, e come te pare sia tenero, zucharum et cannella supra positurum du bis. Et mandalo subito in tabula, che se vole mangiarlo caldo caldo.”
“Vada per il casio in pastelletto,” gli dissi. Ed egli scomparve verso le cucine, dicendomi di attenderlo. Arrivò mezz'ora dopo con un piatto coperto da un panno.
L'odore era buono.
“Tene,” mi disse, e mi allungò anche una lucerna grande e piena di olio.
“Per che fare?” chiesi.
“Sais pas, moi,” disse con aria sorniona. “Fileisch tuo magister vuole ire in loco buio esta noche.”
Salvatore sapeva evidentemente più cose di quanto non sospettassi. Non investigai oltre, e portai il cibo a Guglielmo. Mangiammo, e io mi ritirai nella mia cella. O almeno, finsi. Volevo trovare ancora Ubertino, e di soppiatto rientrai in chiesa.
Terzo giorno
Dopo compieta
Dove Ubertino racconta ad Adso la storia di fra Dolcino,
altre storie Adso rievoca o legge in biblioteca per conto suo, e poi gli accade di avere un incontro con una fanciulla bella e terribile come un esercito schierato a battaglia
Trovai infatti Ubertino alla statua della Vergine. Mi unii silenziosamente a lui e per un poco finsi (lo confesso) di pregare. Poi ardii parlargli.
“Padre santo,” gli dissi, “posso chiedervi luce e consiglio?”
Ubertino mi guardò, mi prese per mano e si alzò, conducendomi a sedere con lui su di uno scranno. Mi abbracciò stretto, e potei sentire il suo alito sul mio viso.
“Figlio carissimo,” disse, “tutto quello che questo povero vecchio peccatore può fare per la tua anima, sarà fatto con gioia. Cosa ti turba? Le ansie, vero?”
domandò quasi con ansia anch'egli, “le ansie della carne?”
“No,” risposi arrossendo, “se mai le ansie della mente, che vuole conoscere troppe cose...”
“Ed è male. Il Signore conosce le cose, a noi tocca solo adorare la sua sapienza.”
“Ma a noi tocca anche distinguere il bene dal male e comprendere le umane passioni. Sono novizio ma sarò monaco e sacerdote, e devo imparare dove stia il male, e che aspetto abbia, per riconoscerlo un giorno e per insegnare agli altri a riconoscerlo.”
“Questo è giusto, ragazzo. E allora cosa vuoi conoscere?”
“La mala pianta dell'eresia, padre,” dissi con convinzione. E poi, tutto di un fiato: “Ho udito parlare di un uomo malvagio che ne ha sedotti altri, fra Dolcino.”
Ubertino stette in silenzio. Poi disse: “E' giusto, ci hai sentito farvi cenno l'altra sera con frate Guglielmo. Ma è una storia molto brutta, di cui mi dà dolore parlare, perché insegna (sì, in questo senso dovrai saperla, per trarne un utile insegnamento), perché insegna, dicevo, come dall'amore di penitenza e dal desiderio di purificare il mondo possa nascere sangue e sterminio.” Si sedette meglio, allentando la sua stretta intorno alle mie spalle, ma tenendo sempre una mano sul mio collo, come per comunicarmi non so se la sua sapienza o il suo ardore.
“La storia comincia prima di fra Dolcino,» disse, «più di sessanta anni fa, e io ero un bambino. Fu a Parma. Ivi iniziò a predicare un certo Gherardo Segalelli, che invitava tutti a vita di penitenza, e percorreva le strade gridando «penitenziagite!»
che era il suo modo di uomo indotto per dire: «Penitentiam agite, appropinquabit enim regnum coelorum.» Invitava i suoi discepoli a farsi simili agli apostoli, e volle che la sua setta fosse intitolata all'ordine degli apostoli, e che i suoi percorressero il mondo come poveri mendicanti vivendo solo di elemosine...”
“Come i fraticelli,” dissi. “Non era questo il mandato di Nostro Signore e del vostro Francesco?”
“Sì,” ammise Ubertino con una leggera esitazione nella voce e con un sospiro.
“Ma forse Gherardo esagerò. Lui e i suoi furono accusati di non riconoscere più l'autorità dei sacerdoti, la celebrazione della messa, la confessione, e di vagabondare nell'ozio.”
“Ma di questo accusarono anche i francescani spirituali. E non dicono oggi i minoriti che non bisogna riconoscere l'autorità del papa?”
“Sì, ma non dei sacerdoti. Noi stessi siamo sacerdoti. Ragazzo, è difficile distinguere in queste cose. La linea che divide il bene dal male è così sottile... In qualche modo Gherardo sbagliò e si macchiò di eresia... Chiese di essere ammesso nell'ordine dei minori, ma i nostri confratelli non lo accettarono. Passava i giorni nella chiesa dei nostri frati e vide qui dipinti gli apostoli coi sandali ai piedi e i mantelli avvolti intorno alle spalle, e così si fece crescere i capelli e la barba, si mise i sandali ai piedi e la corda dei frati minori, perché chiunque vuole fondare una nuova congregazione prende sempre qualcosa dall'ordine del beato Francesco.”
“Ma allora era nel giusto...”
“Ma in qualcosa sbagliò... Vestito con un mantello bianco sopra una tunica bianca e coi capelli lunghi, si acquistò presso i semplici fama di santità. Vendette una sua casetta e, avutone il prezzo, si pose su una pietra dalla quale in tempi antichi i podestà erano soliti concionare, tenendo in mano il sacchetto dei danari, e non li disperse, né li dette ai poveri, ma chiamati dei ribaldi che giocavano lì vicino li sparse tra loro dicendo: «Ne prenda chi ne vuole», e quei ribaldi presero il danaro e andarono a giocarlo a dadi e bestemmiavano il Dio vivente, ed egli che aveva dato, udiva e non arrossiva.”
“Ma anche Francesco si spogliò di tutto e ho udito oggi da Guglielmo che andò a predicare a cornacchie e sparvieri, nonché ai lebbrosi, e cioè alla feccia che il popolo di coloro che si dicevano virtuosi tenevano ai margini...”
“Sì, ma Gherardo in qualcosa sbagliò, Francesco non si mise mai in urto con la santa chiesa, e il vangelo dice di dare ai poveri, non ai ribaldi. Gherardo dette e non ricevette nulla in cambio perché aveva dato a gente cattiva, ed ebbe cattivo inizio, cattivo proseguimento e cattiva fine perché la sua congrega fu disapprovata da papa Gregorio X.”
“Forse,” dissi, “era un papa meno lungimirante di quello che approvò la regola di Francesco...”
“Sì, ma in qualcosa Gherardo sbagliò, e invece Francesco sapeva bene cosa faceva. E infine, ragazzo, questi custodi di porci e di vacche che all'improvviso diventano pseudo apostoli volevano beatamente e senza sudore vivere delle elemosine di coloro che i frati minori avevano educato con tante fatiche e con tanto eroico esempio di povertà! Ma non si tratta di questo,” aggiunse subito, “è che per assomigliare agli apostoli, che erano ancora giudei, Gherardo Segalelli si fece circoncidere, il che va contro le parole di Paolo ai Galati - e tu sai che molte sante persone annunciano che l'Anticristo venturo verrà dal popolo dei circoncisi... Ma Gherardo fece di peggio, andava raccogliendo i semplici e diceva: «Venite con me
nella vigna» e coloro che non lo conoscevano entravano con lui nella vigna altrui, credendola sua, e mangiavano l'uva degli altri..”.
“Non saranno stati i minori a difendere la proprietà degli altri,” dissi impudentemente.
Ubertino mi fissò con occhio severo: “ I minori chiedono di essere poveri, ma non hanno mai chiesto agli altri di essere poveri. Non puoi impunemente attentare alla proprietà dei buoni cristiani, i buoni cristiani ti indicheranno come un bandito. E
così accadde a Gherardo. Di cui dissero infine (bada, io non so se sia vero, e mi fido delle parole di frate Salimbene, che conobbe quella gente) che per mettere a prova la sua forza di volontà e la sua continenza dormì con alcune donne senza avere rapporti sessuali; ma come i suoi discepoli tentarono di imitarlo, i risultati furono ben diversi... Oh, non sono cose che deve sapere un ragazzo, la femmina è vascello del demonio... Gherardo continuava a gridare «penitenziagite» ma un suo discepolo, un certo Guido Putagio, cercò di prendere la direzione del gruppo, e andava in gran pompa con molte cavalcature e faceva grandi spese e banchetti come i cardinali della chiesa di Roma. E poi vennero a rissa tra loro, per il comando della setta, e accaddero cose turpissime. Eppure molti vennero da Gherardo, non solo contadini, ma anche gente di città, iscritti alle arti, e Gherardo li faceva denudare affinché nudi seguissero Cristo nudo, e li mandava per il mondo a predicare, ma lui si fece fare una veste senza maniche, bianca, di filo forte, e così vestito sembrava più un buffone che un religioso! Vivevano all'aperto, ma talora salivano sui pulpiti delle chiese interrompendo l'assemblea del popolo devoto e cacciandone i predicatori, e una volta posero un bambino sul trono vescovile nella chiesa di Sant'Orso a Ravenna. E si dicevano eredi della dottrina di Gioacchino da Fiore...»
“Ma anche i francescani,” dissi, “anche Gherardo da Borgo San Donnino, anche voi!” esclamai.
“Calmati ragazzo. Gioacchino da Fiore fu un grande profeta e fu il primo a capire che Francesco avrebbe segnato il rinnovamento della chiesa. Ma gli pseudo apostoli usarono la sua dottrina per giustificare le loro follie, il Segalelli portava con sé un'apostolessa, una certa Tripia o Ripia, che pretendeva avere il dono della profezia. Una donna, capisci?”
“Ma padre,” tentai di obbiettare, “voi stesso parlavate l'altra sera della santità di Chiara da Montefalco e di Angela da Foligno...”
“Esse erano sante! Vivevano nell'umiltà riconoscendo il potere della chiesa, non si arrogarono mai il dono della profezia! E invece gli pseudo apostoli asserivano che anche le donne potessero andare di città in città a predicare, come fecero molti altri eretici. E non conoscevano più alcuna differenza tra celibi e sposati, né alcun voto fu più considerato perpetuo. In breve, per non tediarti troppo con storie tristissime di cui non puoi capire bene le sfumature, il vescovo Obizzo di Parma decise infine di mettete Gherardo in ceppi. Ma qui accadde una cosa strana, che ti dice come sia debole la natura umana, e come insidiosa la pianta dell'eresia. Perché infine il vescovo liberò Gherardo e lo accolse presso di sé a tavola, e rideva dei suoi lazzi, e lo teneva come il suo buffone.”
“Ma perché?”
“Non lo so, o temo di saperlo. Il vescovo era nobile e non gli piacevano i mercanti e gli artigiani della città. Forse non gli era discaro che Gherardo con le sue prediche di povertà parlasse contro di loro, e passasse dalla richiesta di elemosina alla rapina. Ma infine intervenne il papa, e il vescovo tornò alla sua giusta severità, e Gherardo finì sul rogo come eretico impenitente. Era l'inizio di questo secolo.”
“E cosa c'entra con queste cose fra Dolcino?”
“C'entra, e questo ti dice come l'eresia sopravviva alla distruzione stessa degli eretici. Questo Dolcino era il bastardo di un sacerdote, che viveva nella diocesi di Novara, in questa parte dell'Italia, un poco più a settentrione. Qualcuno disse che nacque altrove, nella valle dell'Ossola, o a Romagnano. Ma poco importa. Era un giovane di ingegno acutissimo e fu educato alle lettere, ma derubò il sacerdote che si occupava di lui e fuggì verso oriente, nella città di Trento. E lì riprese la predicazione di Gherardo, in modo anche più ereticale, asserendo di essere l'unico vero apostolo di Dio e che ogni cosa doveva essere comune nell'amore, e che era lecito andare indifferentemente con tutte le donne, per cui nessuno poteva essere accusato di concubinato, anche se andava con la moglie e con la figlia...”
“Davvero predicava quelle cose o fu accusato di questo? Perché ho udito che anche gli spirituali furono accusati di crimini come quei frati di Montefalco...”
“De hoc satis,” interruppe bruscamente Ubertino. “Quelli non erano più frati.
Erano eretici. E proprio insozzati da Dolcino. E d'altra parte, ascolta, basta saper quello che Dolcino fece dopo, per definirlo come malvagio. Come fosse venuto a conoscenza delle dottrine degli pseudo apostoli, non so neppure. Forse passò da Parma, giovane, e udì Gherardo. Si sa che mantenne nel bolognese contatto con quegli eretici dopo la morte del Segalelli. Ma si sa di certo che iniziò la sua predicazione a Trento. Lì sedusse una fanciulla bellissima e di nobile famiglia, Margherita, o essa sedusse lui, come Eloisa sedusse Abelardo, perché ricorda, è attraverso la donna che il diavolo penetra nel cuore degli uomini! A quel punto, il vescovo di Trento lo cacciò dalla sua diocesi, ma ormai Dolcino aveva raccolto più di mille seguaci, e iniziò una lunga marcia che lo ricondusse nei paesi dove era nato.
E lungo il cammino gli si univano altri illusi, sedotti dalle sue parole, e forse gli si unirono anche molti eretici valdesi che abitavano le montagne da cui passava, o egli voleva riunirsi ai valdesi di queste terre a settentrione. Giunto nel novarese Dolcino trovò un ambiente favorevole alla sua rivolta, perché i vassalli che governavano il paese di Gattinara a nome del vescovo di Vercelli erano stati cacciati dalla popolazione, che accolse quindi i banditi di Dolcino come buoni alleati.”
“Cosa avevano fatto i vassalli del vescovo?”
“Non lo so, e non spetta a me giudicarlo. Ma come vedi l'eresia si sposa alla rivolta contro i signori, in molti casi, e per questo l'eretico comincia a predicare madonna povertà e poi cade preda di tutte le tentazioni del potere, della guerra, della violenza. C'era una lotta tra famiglie nella città di Vercelli, e gli pseudo apostoli se ne approfittarono, e queste famiglie si avvalsero del disordine apportato dagli pseudo apostoli. I signori feudali arruolavano avventurieri per rapinare i cittadini, e i cittadini chiedevano la protezione del vescovo di Novara.”
“Che storia complicata. Ma Dolcino con chi stava?”
“Non so, faceva parte per se stesso, si era inserito in tutte queste dispute e ne traeva occasione per predicare la lotta contro la proprietà altrui in nome della povertà. Dolcino si accampò coi suoi, che ormai erano tremila, su un monte vicino a Novara, detto della Parete Calva, e costruirono castelletti e abitacoli, e Dolcino dominava su tutta quella folla di uomini e donne che vivevano nella promiscuità più vergognosa. Di lì inviava lettere ai suoi fedeli, in cui esponeva la sua dottrina eretica.
Diceva e scriveva che il loro ideale era la povertà e non erano legati da alcun vincolo di obbedienza esteriore, e che lui Dolcino era stato mandato da Dio per dissigillare le profezie e capire le scritture dell'antico e del nuovo testamento. E chiamava chierici secolari, predicatori e minori, ministri del diavolo, e scioglieva chiunque dal dovere di ubbidir loro. E distingueva quattro età della vita del popolo di Dio, la prima dell'antico testamento, dei patriarchi e dei profeti, prima della venuta di Cristo, in cui il matrimonio era buono perché la gente si doveva moltiplicare; la seconda l'età di Cristo e degli apostoli, e fu l'epoca della santità e della castità. Poi venne la terza, in cui i pontefici dovettero dapprima accettare le ricchezze terrene per poter governare il popolo, ma quando gli uomini cominciarono ad allontanarsi dall'amore di Dio venne Benedetto, che parlò contro ogni possesso temporale. Quando poi anche i monaci di Benedetto tornarono ad accumulare ricchezze, vennero i frati di san Francesco e di san Domenico, ancora più severi di Benedetto nel predicare contro il dominio e la ricchezza terrena. Ma infine ora, che la vita di tanti prelati di nuovo contraddiceva tutti quei buoni precetti, si era giunti alla fine della terza età e occorreva convertirsi agli insegnamenti degli apostoli.”
“Ma allora Dolcino predicava quelle cose che avevano predicato i francescani, e tra i francescani proprio gli spirituali, e voi stesso, padre!”
“Oh sì, ma ne traeva un perfido sillogismo! Diceva che per por fine a questa terza età della corruzione occorreva che tutti i chierici, i monaci e i frati morissero di morte crudelissima, diceva che tutti i prelati della chiesa, i chierici, le monache, i religiosi e le religiose e tutti coloro che fan parte degli ordini dei predicatori e dei minori, degli eremiti, e lo stesso Bonifacio papa avrebbero dovuto essere sterminati dall'imperatore prescelto da lui, Dolcino, e questo sarebbe stato Federico di Sicilia.”
“Ma non era proprio Federico che accolse in Sicilia con favore gli spirituali cacciati dall'Umbria, e non sono i minoriti a chiedere proprio che l'imperatore, anche se ora è Ludovico, distrugga il potere temporale del papa e dei cardinali?”
“E' proprio dell'eresia, o della follia, trasformare i pensieri più retti e volgerli a conseguenze contrarie alla legge di Dio e degli uomini. I minoriti non hanno mai chiesto all'imperatore di uccidere gli altri sacerdoti.”
Si ingannava, ora lo so. Perché quando alcuni mesi dopo il Bavaro instaurò il proprio ordine a Roma, Marsilio e altri minoriti fecero ai religiosi fedeli al papa proprio quanto Dolcino chiedeva si facesse. Con questo non voglio dire che Dolcino fosse nel giusto, se mai Marsilio era nell'errore anch'egli. Ma incominciavo a chiedermi, specie dopo il colloquio del pomeriggio con Guglielmo, come fosse possibile ai semplici che seguivano Dolcino distinguere tra le promesse degli spirituali e l'attuazione che ne dava Dolcino. Non era forse egli colpevole di mettere in pratica quanto uomini reputati ortodossi avevano predicato per via puramente
mistica? O forse lì stava la differenza, la santità consisteva nell'attendere che Dio ci desse quanto i suoi santi avevano promesso, senza cercare di ottenerlo per mezzi terreni? Ora so che è così e so perché Dolcino era in errore: non si deve trasformare l'ordine delle cose anche se si deve fervidamente sperare nella sua trasformazione.
Ma quella sera ero in preda a contraddittori pensieri.
“Infine,” stava dicendomi Ubertino, “la marca dell'eresia la trovi sempre nella superbia. In una seconda lettera Dolcino, nell'anno 1303, si nominava capo supremo della congregazione apostolica, nominava come suoi luogotenenti la perfida Margherita (una donna) e Longino da Bergamo, Federico da Novara, Alberto Carentino e Valderico da Brescia. E iniziava a vaneggiare su una sequenza di papi venturi, due buoni, il primo e l'ultimo, due cattivi, il secondo e il terzo. Il primo è Celestino, il secondo è Bonifacio VIII, di cui i profeti dicono «la superbia del tuo cuore ti ha infamato, o tu che abiti nelle fessure delle rocce». Il terzo papa non è nominato, ma di lui avrebbe detto Geremia «ecco, qual leone». E, infamia, Dolcino riconosceva il leone in Federico di Sicilia. Il quarto papa per Dolcino era ancora sconosciuto, e avrebbe dovuto essere il papa santo, il papa angelico di cui parlava l'abate Gioacchino. Avrebbe dovuto essere eletto da Dio e allora Dolcino e tutti i suoi (che a quel punto erano già quattromila) avrebbero ricevuto insieme la grazia dello Spirito Santo e la chiesa ne sarebbe stata rinnovata sino alla fine del mondo. Ma nei tre anni che precedevano la sua venuta avrebbe dovuto essere consumato tutto il male. E questo Dolcino cercò di fare, portando la guerra ovunque. E il quarto papa, e qui si vede come il demonio si prenda gioco dei suoi succubi, fu proprio Clemente V
che bandì la crociata contro Dolcino. E fu giusto, perché in quelle lettere ormai Dolcino sosteneva teorie inconciliabili con l'ortodossia. Egli affermò che la chiesa romana è una meretrice, che non si deve obbedienza ai sacerdoti, che ogni potere spirituale era ormai passato alla setta degli apostoli, che solo gli apostoli formano la nuova chiesa, che gli apostoli possono annullare il matrimonio, che nessuno potrà essere salvato se non farà parte della setta, che nessun papa può assolvere dal peccato, che non si devono pagare le decime, che è vita più perfetta vivere senza voto che non col voto, che una chiesa consacrata non vale nulla per la preghiera, non più di una stalla, e che si può adorare Cristo nei boschi e nelle chiese.”
“Disse davvero queste cose?”
“Certo, questo è sicuro, le scrisse. Ma fece purtroppo di peggio. Come si attestò sulla Parete Calva, iniziò a saccheggiare i villaggi a valle, a compiere scorrerie, per procacciarsi i rifornimenti, conducendo insomma una vera e propria guerra contro i paesi vicini.”
“Tutti contro di lui?”
“Non si sa. Forse ricevette appoggi da alcuni, ti ho detto che si era inserito in un nodo inestricabile di discordie del luogo. Era caduto intanto l'inverno dell'anno 1305, uno dei più rigidi degli ultimi decenni, e c'era tutto intorno una grande carestia.
Dolcino inviava una terza lettera ai suoi seguaci e molti ancora lo raggiungevano, ma lassù la vita si era fatta impossibile e arrivarono a tale fame che mangiavano le carni dei cavalli e di altre bestie e il fieno cotto. E molti ne morirono.”
“Ma contro chi si battevano, ora?”
“Il vescovo di Vercelli si era appellato a Clemente V ed era stata bandita una crociata contro gli eretici. Fu emanata una indulgenza plenaria per chiunque vi avesse partecipato, furono sollecitati Ludovico di Savoia, gli inquisitori di Lombardia, l'arcivescovo di Milano. Molti presero la croce in aiuto dei vercellesi e dei novaresi, anche dalla Savoia, dalla Provenza, dalla Francia, e il vescovo di Vercelli ebbe il comando supremo. Erano continui scontri tra le avanguardie dei due eserciti, ma le fortificazioni di Dolcino erano imprendibili, e in qualche modo gli empi ricevevano dei soccorsi.”
“Da chi?”
“Da altri empi, credo, che traevano soddisfazione da quel fomite di disordine.
Sul finire dell'anno 1305 l'eresiarca fu costretto però ad abbandonare la Parete Calva, lasciando i feriti e i malati, e si portò nel territorio di Trivero, dove si arroccò su un monte, che allora veniva chiamato Zubello e che da allora in poi fu detto Rubello o Rebello, perché era divenuto la rocca dei ribelli alla chiesa. Insomma, non ti posso raccontare tutto quello che avvenne, e furono stragi terribili. Ma alla fine i ribelli furono costretti alla resa, Dolcino e i suoi furono catturati e finirono giustamente sul rogo.”
“Anche la bella Margherita?”
Ubertino mi guardò: “Ti sei ricordato che era bella, vero? Era bella, dicono, e molti signori del luogo tentarono di farla loro sposa per salvarla dal rogo. Ma essa non volle, morì impenitente con quell'impenitente del suo amante. E questo ti serva di lezione, guardati dalla meretrice di Babilonia, anche quando assume la forma della creatura più squisita.”
“Ma ora ditemi, padre. Ho appreso che il cellario del convento, e forse anche Salvatore, incontrarono Dolcino, e furono con lui in qualche modo...”
“Taci, e non pronunziare giudizi temerari. Conobbi il cellario in un convento di minoriti. Dopo i fatti che riguardano la storia di Dolcino, è vero. Molti spirituali in quegli anni, prima che decidessimo di trovar rifugio nell'ordine di san Benedetto, ebbero vita agitata, e dovettero lasciare i loro conventi. Non so dove sia stato Remigio prima che io lo incontrassi. So che fu sempre un buon frate, almeno dal punto di vista dell'ortodossia. Quanto al resto, ahimè, la carne è debole...”
“Cosa intendete dire?”
“Non sono cose che devi sapere. Ebbene, insomma, poiché ne abbiamo parlato, e devi poter distinguere il bene dal male...” esitò ancora, “ti dirò che ho sentito sussurrare qui, all'abbazia, che il cellario non sappia resistere a certe tentazioni... Ma sono mormorazioni. Tu devi imparare a non pensare neppure a queste cose.” Mi trasse di nuovo a sé abbracciandomi stretto e mi indicò la statua della Vergine: “Tu devi iniziarti all'amore senza macchia. Ecco colei in cui la femminilità si è sublimata.
Per questo di lei puoi dire che è bella, come l'amata del Cantico dei Cantici. In essa,”
disse col volto rapito da un gaudio interiore, proprio come l'Abate il giorno prima, quando parlava delle gemme e dell'oro dei suoi vasellami, “in essa persino la grazia del corpo si fa segno delle bellezze celesti, e per questo lo scultore l'ha rappresentata con tutte le grazie di cui la donna deve essere adornata.” Mi indicò il busto sottile della Vergine, tenuto alto e stretto da un corsetto legato al centro con lacciuoli, con
cui giocavano le piccole mani del Bambino. “Vedi? Pulchra enim sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice, nec fluitantia licenter, sed leniter restricta, repressa sed non depressa... Cosa provi davanti a questa dolcissima visione?”
Io arrossii violentemente sentendomi agitato come da un fuoco interno.
Ubertino dovette avvertirlo, o forse scorse l'ardore delle mie gote, perché subito aggiunse: “Ma devi imparare a distinguere il fuoco dell'amore soprannaturale dal deliquio dei sensi. E' difficile anche per i santi.”
“Ma come si riconosce l'amore buono?” chiesi tremando.
“Cos'è l'amore? Non v'è nulla al mondo né uomo né diavolo, né alcuna cosa, che io non consideri così sospetto come l'amore, ché questo penetra l'anima più di qualunque altra cosa. Non esiste nulla che tanto occupi e leghi il cuore come l'amore.
Perciò, a meno di non avere quelle armi che la governano, l'anima precipita per l'amore in una immensa rovina. E io credo che senza le seduzioni di Margherita, Dolcino non si sarebbe dannato, né senza la vita proterva e promiscua della Parete Calva, tanti avrebbero sentito il fascino della sua ribellione. Bada, queste cose io non te le dico solo dell'amore cattivo, che naturalmente deve essere sfuggito da tutti come cosa diabolica, io dico questo e con grande paura anche dell'amore buono che corre tra Dio e l'uomo, tra prossimo e prossimo. Sovente avviene che due o tre, uomini o donne, si amino assai cordialmente e nutrano a vicenda singolare affezione, e desiderino vivere sempre vicini, e quando l'una parte desidera, l'altra vuole. E ti confesso che un sentimento del genere io lo provai per donne virtuose come Angela e Chiara. Ebbene, anche ciò è assai riprovevole, per quanto si faccia spiritualmente e per Dio... Perché anche l'amore sentito dall'anima,se non è armato ma viene preso con calore, viene poi a cadere, oppure opera disordinatamente. Oh, l'amore ha diverse proprietà, dapprima l'anima per lui si intenerisce, poi cade inferma... Ma poi avverte il calore vero dell'amore divino e grida, e si lamenta, si fa pietra messa nella fornace per disfarsi in calce, e crepita lambita dalla fiamma...”
“E questo è amore buono?”
Ubertino mi accarezzò il capo, e come lo guardai vidi che aveva gli occhi inteneriti di lacrime: “Sì, questo è infine amore buono.” Staccò la sua mano dalle mie spalle: “Ma come è difficile,” aggiunse, “come è difficile distinguerlo dall'altro. E
talora quando la tua anima è tentata dai demoni ti senti come l'uomo impiccato per la gola che, legate le mani sul dorso e bendati gli occhi, rimane appeso alla forca e pure vive, senza nessun ausilio, senza nessun sostegno, senza nessun rimedio, a girare nel vuoto...”
Il suo volto non era più soltanto bagnato dal pianto, ma da un velo di sudore.
“Vai via ora,” mi disse in fretta, “ti ho detto quello che volevi sapere. Di qui il coro degli angeli, di là la gola dell'inferno. Vai, e sia lodato il Signore.” Si prosternò di nuovo davanti alla Vergine e lo udii singhiozzare piano. Pregava.
Non uscii dalla chiesa. Il colloquio con Ubertino mi aveva indotto nell'animo, e nelle viscere, uno strano fuoco e una indicibile irrequietezza. Forse per questo mi trovai incline alla disobbedienza e decisi di tornare da solo in biblioteca. Non sapevo neppure io cosa cercassi. Volevo esplorare da solo un luogo ignoto, mi affascinava
l'idea di potermici orientare senza l'aiuto del mio maestro. Ci salii come Dolcino era salito sul monte Rubello.
Avevo con me il lume (perché lo avevo portato? forse nutrivo già questo disegno segreto?) e penetrai nell'ossario quasi a occhi chiusi. In breve fui nello scriptorium.
Era una sera fatale, credo, perché mentre curiosavo tra i tavoli, ne scorsi uno sul quale stava aperto un manoscritto che un monaco copiava in quei giorni. Il titolo subito mi attrasse: Historia fratris Dulcini Heresiarche. Credo fosse il tavolo di Pietro da Sant'Albano, di cui mi avevano detto che stava scrivendo una monumentale storia dell'eresia (dopo quel che avvenne all'abbazia naturalmente non la scrisse più - ma non anticipiamo gli eventi). Non era quindi anormale che qui stesse quel testo, e altri ve n'erano di argomento affine, sui patarini e sui flagellanti. Ma assunsi come un segno soprannaturale, non so ancora se celeste o diabolico, quella circostanza, e mi piegai a leggere avidamente lo scritto. Non era molto lungo, e nella prima parte diceva, con molti più particolari che ho dimenticato, quanto mi aveva detto Ubertino.
Vi si parlava anche dei molti delitti commessi dai dolciniani durante la guerra e l'assedio. E della battaglia finale, che fu cruentissima. Ma vi trovai anche quanto Ubertino non mi aveva raccontato, e detto da chi evidentemente aveva visto tutto e ne aveva l'immaginazione ancora accesa.
Appresi dunque come nel marzo del 1307, il sabato santo, Dolcino, Margherita e Longino, infine presi, furono condotti nella città di Biella e consegnati al vescovo, che attendeva la decisione del papa. Il papa, come apprese la notizia la trasmise al re di Francia Filippo, scrivendo: “Ci sono giunte notizie graditissime, feconde di gioia ed esultanza, perché quel demone pestifero, figlio di Belial e orrendissimo eresiarca Dolcino, dopo lunghi pericoli, fatiche, stragi e frequenti interventi, finalmente coi suoi seguaci è prigioniero nelle nostre carceri, per opera del nostro venerabile fratello Raniero, vescovo di Vercelli, catturato nel giorno della santa cena del Signore, e la numerosa gente che era con lui, infettata dal contagio, fu uccisa quel giorno stesso.”
Il papa fu spietato nei confronti dei prigionieri e comandò al vescovo di metterli a morte. Allora, nel luglio dello stesso anno, il primo giorno del mese, gli eretici furono consegnati al braccio secolare. Mentre le campane della città suonavano a stormo, furono messi su di un carro, circondati dai carnefici, seguiti dalla milizia, che percorse tutta la città, mentre a ogni cantone con tenaglie infuocate si laceravano le carni dei rei. Margherita fu bruciata per prima, davanti a Dolcino, il quale non mosse muscolo del volto, così come non aveva emesso un lamento quando le tenaglie gli mordevano le membra. Poi il carro continuò la sua strada, mentre i carnefici infilavano i loro ferri in vasi pieni di faci ardenti. Dolcino subì altri tormenti, e restò sempre muto, salvo quando gli amputarono il naso, perché si strinse un poco nelle spalle, e quando gli strapparono il membro virile, ché a quel punto egli lanciò un lungo sospiro, come un mugolìo. Le ultime cose che disse suonarono a impenitenza, e avvertì che sarebbe risuscitato il terzo giorno. Poi fu bruciato e le sue ceneri furono disperse al vento.Chiusi il manoscritto con le mani che tremavano. Dolcino aveva commesso molti delitti, mi era stato detto, ma era stato orrendamente bruciato. E si era comportato sul rogo... come? con la fermezza dei martiri o con la protervia dei
dannati? Mentre salivo vacillando le scale che portavano alla biblioteca, capii perché ero tanto turbato. Mi sovvenne all'improvviso una scena che avevo visto non molti mesi prima, poco dopo il mio arrivo in Toscana. Mi chiedevo anzi come mai l'avessi quasi dimenticata sino ad allora, come se l'anima mia malata avesse voluto cancellare un ricordo che le gravava sopra come un incubo. Ovvero, non me ne ero dimenticato, perché ogni volta che sentivo parlare di fraticelli rivedevo immagini di quella vicenda, ma subito le ricacciavo nelle latebre del mio spirito, come se fosse stato un peccato essere stato testimone di quell'orrore.
Avevo sentito parlare per la prima volta di fraticelli nei giorni in cui, a Firenze, ne avevo visto ardere uno sul rogo. Era stato poco prima che incontrassi a Pisa frate Guglielmo. Egli stava ritardando il suo arrivo in quella città e mio padre mi aveva dato licenza di visitare Firenze di cui avevamo sentito lodare le bellissime chiese. Mi ero aggirato per la Toscana, per apprendere meglio il volgare italiano, e avevo infine soggiornato una settimana a Firenze, perché molto avevo udito parlare di quella città e desideravo conoscerla.
Fu così che appena vi arrivai sentii parlare di un gran caso che stava agitando tutta la città. Un fraticello eretico, imputato di delitti contro la religione, e tratto davanti al vescovo e altri ecclesiastici, era in quei giorni sottoposto a severa inquisizione. E seguendo coloro che me ne parlavano, mi portai al luogo dove avveniva l'evento, mentre udivo la gente dire che questo fraticello, a nome Michele, era in verità uomo molto pio, che aveva predicato penitenza e povertà, ripetendo le parole del santo Francesco, ed era stato trascinato davanti ai giudici per la malizia di certe donne che, fingendo di confessarsi da lui, gli avevano poi attribuito proposizioni eretiche; e anzi era stato preso dagli uomini del vescovo proprio in casa di quelle donne, fatto questo che mi stupiva, perché un uomo di chiesa non dovrebbe recarsi ad amministrare i sacramenti in luoghi così poco adatti, ma questa pareva essere la debolezza dei fraticelli, il non tener in debita considerazione le convenienze, e forse c'era qualcosa di vero nella voce pubblica che li voleva, oltre che eretici, di dubitevoli costumi (così come sempre si diceva dei catari che fossero bulgari e sodomiti).
Arrivai alla chiesa di San Salvatore dove si teneva il processo, ma non potei entrare, per la gran folla che vi era davanti. Però alcuni stavano issati e attaccati alla inferriata delle finestre e vedevano e udivano quanto vi avveniva, e ne riferivano agli altri di sotto. Stavano allora rileggendo a frate Michele la confessione che aveva fatta il giorno prima, in cui diceva che Cristo e gli apostoli suoi “non ebbero niuna cosa né in speziale né in comune per ragione di proprietà”, ma Michele protestava che il notaio vi aveva aggiunto ora “molte false consequenzie” e gridava (e questo lo udii da fuori) “n'avete a render ragione al dì del giudizio!”. Ma gli inquisitori lessero la confessione così come l'avevano redatta e alla fine gli chiesero se voleva umilmente attenersi alle opinioni della chiesa e di tutto il popolo della città. E sentii Michele che gridava a voce alta che egli voleva attenersi a ciò che credeva, e cioè che “voleva tenere Cristo povero crocifisso e papa Giovanni XXII eretico, poiché diceva il contrario”. Ne seguì una gran discussione, in cui gli inquisitori, tra cui molti francescani, gli volevano far intendere che le scritture non avevano detto quel che
diceva lui, e lui li accusava di negare la loro stessa regola dell'ordine, e quelli gli davano addosso chiedendogli se mai lui credesse di intendere le scritture meglio di loro che ne erano maestri. E fra Michele, molto pertinace davvero, li contestava, sì che quelli prendevano ad assalirlo con provocazioni come “e allora vogliamo che tu tenga Cristo come fosse proprietario e papa Giovanni come cattolico e santo”. E
Michele, non deflettendo: “No, eretico.” E quelli dicevano che non avevano mai visto alcuno così duro nella propria nequizia. Ma tra la folla fuori del palazzo ne udii molti che dicevano che egli era come Cristo tra i farisei, e mi avvidi che tra il popolo molti credevano nella santità di frate Michele.
Infine gli uomini del vescovo lo riportarono in prigione in ceppi. E la sera mi dissero che molti dei frati amici del vescovo erano andati a insultarlo e a chiedergli di ritrattare, ma egli rispondeva come uno che fosse sicuro della propria verità. E
ripeteva a ciascuno che Cristo era povero e che così avevano detto anche santo Francesco e santo Domenico, e che se a professare questa retta opinione avesse dovuto essere condannato al supplizio, tanto meglio, perché in breve tempo avrebbe potuto vedere ciò che dicono le scritture, e i ventiquattro vegliardi dell'Apocalisse, e Gesù Cristo, e san Francesco, e i gloriosi martiri. E mi dissero che disse: “Se leggiamo con tanto fervore la dottrina di certi santi abati con quanto maggior fervore e gioia dobbiamo desiderare di stare in mezzo a loro.” E a parole del genere gli inquisitori uscivano dal carcere col viso scuro gridando sdegnati (e io li udii): “Ha il diavolo addosso!”
Il giorno dopo sapemmo che la condanna era stata pronunziata, e andato in vescovado potei vedere la pergamena, e parte ne copiai sulla mia tavoletta.
Cominciava “In nomine Domini amen. Hec est quedam condemnatio corporalis et sententia condemnationis corporalis lata, data et in hiis scriptis sententialiter pronumptiata et promulgata...” eccetera, e proseguiva con una severa descrizione dei peccati e delle colpe del detto Michele, che qui in parte riporto perché il lettore giudichi secondo prudenza:
« Johannem vocatum fratrem Micchaelem Iacobi, de comitatu Sancti Frediani, hominem male condictionis, et pessime conversationis, vite et fame, hereticum et heretica labe pollutum et contra fidem cactolicam credentem et affirmantem... Deum pre oculis non habendo sed potius humani generis inimicum, scienter, studiose, appensate, nequiter et animo et intentione exercendi hereticam pravitatem stetit et conversatus fuit cum Fraticellis, vocatis Fraticellis della povera vita hereticis et scismaticis et corum pravam sectam et heresim secutus fuit et sequitur contra fidem cactolicam... et accessit ad dictam civitatem Florentie et in locis publicis dicte civitatis in dicta inquisitione contentis, credidit, tenuit et pertinaciter affirmavit ore et corde... quod Christus redentor noster non habuit rem aliquam in proprio vel comuni sed habuit a quibuscumque rebus quas sacra scriptura eum habuisse testatur, tantum simplicem facti usum.»
Ma non erano solo questi i delitti di cui era accusato, e tra gli altri uno mi parve turpissimo, anche se non so (così come andò il processo) se egli avesse davvero affermato tanto, ma si diceva insomma che il detto minorita aveva sostenuto che santo Tommaso d'Aquino non era né santo né godeva della eterna salvezza, bensì
era dannato e in stato di perdizione! E la sentenza concludeva comminando la pena, poiché l'accusato non aveva voluto emendarsi:
« Costat nobis etiam ex predictis et ex dicta sententia lata per dictum dominum episcopum florentinum, dictum Johannem fore hereticum, nolle se tantis herroribus et heresi corrigere et emendare, et se ad rectam viam fidei dirigere, habentes dictum Johannem pro irreducibili, pertinace et hostinato in dictis suis perversis herroribus, ne ipse Johannes de dictis suis sceleribus et herroribus perversis valeat gloriari, et ut eius pena aliis transeat in exemplum; idcirco, dictum Johannem vocatum fratrem Micchaelem hereticum et scismaticum quod ducatur ad locum iustitie consuetum, et ibidem igne et flammis igneis accensis concremetur et comburatur, ita quod penitus moriatur et anima a corpore separetur.»
E poi che la sentenza fu resa pubblica, vennero ancora uomini di chiesa alla prigione e avvertirono Michele di ciò che sarebbe accaduto, e li udii anzi dire: “Fra Michele, sono state già fatte le mitre coi mantellini, e dipintivi sopra fraticelli accompagnati da diavoli.” Per spaventarlo e costringerlo infine a ritrattare. Ma frate Michele si mise in ginocchio e disse: “Io penso che intorno al rogo vi sarà il nostro padre Francesco e dico di più, credo che vi saranno Gesù e gli apostoli, e i gloriosi martiri Bartolomeo e Antonio.” Che era un modo di rifiutare per l'ultima volta le offerte degli inquisitori.
La mattina dopo fui anch'io sul ponte del vescovado dove si eran radunati gli inquisitori, davanti ai quali fu tratto sempre in ceppi frate Michele. Uno dei fedeli si inginocchiò davanti a lui per ricevere la benedizione, e fu preso dagli uomini d'arme e condotto subito in prigione. Dopo, gli inquisitori rilessero la sentenza al condannato e domandarono ancora se voleva pentirsi. A ogni punto in cui la sentenza diceva che egli era un eretico, Michele rispondeva “eretico non sono, peccatore, sì, ma cattolico”
e quando il testo nominava “il venerabilissimo e santissimo papa Giovanni XXII”
Michele rispondeva “no, ma eretico”. Allora il vescovo comandò che Michele venisse a inginocchiarsi davanti a lui, e Michele disse che non si inginocchiava davanti agli eretici. Lo fecero inginocchiare per forza ed egli mormorò: “Ne sono scusato davanti a Dio.” E siccome era stato portato lì davanti con tutti i suoi paramenti sacerdotali, iniziò un rito in cui brano a brano i paramenti gli venivano levati sino a che rimase in quella vesticciola che a Firenze chiamano cioppa. E come vuole l'uso per il prete che si sconsacra, con un ferro tagliente gli rasero i polpastrelli delle dita e gli rasero i capelli. Poi fu affidato al capitano e ai suoi uomini, che lo trattarono molto duramente e lo misero in ceppi riportandolo in carcere, mentre lui diceva alla folla: “per Dominum moriemur”. Doveva essere bruciato, così appresi, solo il giorno dopo. E in quel giorno andarono anche a chiedergli se voleva confessarsi e comunicarsi. E rifiutò di commettere peccato accettando i sacramenti di chi era in peccato. E in questo, credo, fece male, e si dimostrò corrotto dall'eresia dei patarini.
E infine venne il mattino del supplizio, e venne a prenderlo un gonfaloniere che mi parve persona amica, perché gli chiese che razza d'uomo fosse, e perché si ostinava quando bastava affermare quello che tutto il popolo affermava e accettar l'opinione di santa madre chiesa. Ma Michele, durissimo: “Io credo in Cristo povero
crocefisso.” E il gonfaloniere se ne andò allargando le braccia. Arrivarono allora il capitano e i suoi uomini e portarono Michele nel cortile dove c'era il vicario del vescovo che gli rilesse e la confessione e la condanna, Michele intervenne ancora a contestare opinioni false che gli erano attribuite: ed erano invero cose di tanta sottigliezza che io non le ricordo e allora non le compresi bene. Ma su quelle si decideva della morte di Michele, certo, e della persecuzione dei fraticelli. Tanto che io non capivo perché gli uomini della chiesa e del braccio secolare si accanissero così contro persone che volevano vivere in povertà e ritenevano che Cristo non avesse avuto beni terreni. Perché, mi dicevo, se mai, dovrebbero temere uomini che vogliano vivere in ricchezza e sottrarre danaro agli altri, e portare la chiesa nel peccato e introdurvi pratiche di simonia. E parlai di questo a uno che mi stava vicino, perché non resistevo a tacere. E quello sorrise beffardo e mi disse che un frate che pratica la povertà diventa cattivo esempio per il popolo, che poi non si avvezza più ai frati che non la praticano. E che, aggiunse, quella predicazione di povertà metteva cattive idee in testa al popolo, che della sua povertà avrebbe tratto ragione di orgoglio, e l'orgoglio può portare a molti atti orgogliosi. E infine che avrei dovuto sapere che, non era chiaro neppure a lui per qual sillogismo, a predicar la povertà per i frati si stava dalla parte dell'imperatore e questo al papa non piaceva. Tutte ottime ragioni, mi parvero, anche se dette da un uomo di poca dottrina. Salvo che a quel punto non capivo perché fra’ Michele volesse morire così orrendamente per compiacere l'imperatore, o dirimere una questione tra ordini religiosi. E infatti qualcuno tra i presenti diceva: “Non è un santo, è stato inviato da Ludovico per seminar discordia tra i cittadini, e i fraticelli sono toscani ma dietro a essi stanno i messi dell'impero.” E altri: “Ma è un pazzo, è invasato dal demonio, gonfio di orgoglio e gode del martirio per dannata superbia, a questi frati fan leggere troppe vite dei santi, meglio sarebbe prendessero moglie!” E altri ancora: “No, avremmo bisogno che tutti i cristiani fossero così, pronti a testimoniare la loro fede come al tempo dei pagani.” E nell'ascoltare quelle voci, mentre più non sapevo cosa pensare, mi accadde di poter rivedere in faccia il condannato, che a tratti la folla davanti a me mi nascondeva. E vidi il viso di chi guarda qualcosa che non è di questa terra, come talora lo vidi sulle statue dei santi rapiti in visione. E compresi che, pazzo o veggente che fosse, egli lucidamente voleva morire perché credeva che morendo avrebbe sconfitto il suo nemico, qualsiasi esso fosse. E compresi che il suo esempio ne avrebbe portati a morte altri. E solo rimasi sbigottito da tanta fermezza perché ancora oggi non so se in costoro prevalga un amore orgoglioso per la verità in cui credono, che li porta alla morte, o un orgoglioso desiderio di morte, che li porta a testimoniare la loro verità, qualsiasi essa sia. E ne sono travolto di ammirazione e timore.
Ma torniamo al supplizio, ché ormai stavano tutti avviandosi al luogo della messa a morte.
Il capitano e i suoi lo trassero fuori della porta, con la sua gonnelluccia addosso, e parte dei bottoni sfibbiati, e andava con passo largo e il capo chino, recitando il suo ufficio, che pareva uno dei martiri. E c'era tanta folla da non credersi e molti gridavano: “Non morire!” e lui rispondeva: “Voglio morire per Cristo”, “Ma tu non muori per Cristo,” gli dicevano, e lui: “Ma per la verità.” Arrivati a un luogo
detto il canto del Proconsolo uno gli gridò di pregare Iddio per loro tutti, ed egli benedisse la folla. E ai Fondamenti di santa Liperata uno gli disse: “Sciocco che sei, credi nel papa!” e lui rispose: “Ne avete fatto un dio di questo vostro papa” e aggiunse: “Questi vostri paperi v'hanno ben conci” (che era un gioco di parole, o arguzia, che faceva diventare i papi come animali, nel dialetto toscano, come mi spiegarono): e tutti si stupirono che andasse alla morte facendo scherzi.
A San Giovanni gli gridarono: “Campa la vita!” e lui rispose: “Scampate dai peccati!”; al Mercato Vecchio gli gridarono: “Campa, campa!” e lui rispose:
“Scampate dall'inferno”; al Mercato Nuovo gli urlarono: “Pentiti, pentiti,” e lui rispose: “Pentitevi delle usure.” E giunto a Santa Croce vide i frati del suo ordine che erano sulla scalinata e li rimproverò perché non seguivano la regola di san Francesco.
E di quelli alcuni si stringevano nelle spalle ma altri si coprivano per vergogna il viso col cappuccio.
E andando verso la porta della Giustizia molti gli dicevano: “Nega, nega, non voler morire;” e lui: “Cristo morì per noi.” E loro: “Ma tu non sei Cristo, non devi morire per noi!” e lui: “Ma io voglio morire per lui.” Al prato della Giustizia uno gli disse se non poteva fare come un certo frate suo superiore che aveva negato, ma Michele rispose che non aveva negato, e vidi molti tra la folla assentire e incitare Michele a essere forte: così io e molti altri capimmo che quelli erano dei suoi, e ci scostammo.
Si fu infine fuori della porta e davanti a noi apparve la pira, o capannuccio, come là la chiamavano, perché il legno vi era disposto in forma di capanna, e lì si fece un cerchio di cavalieri armati perché la gente non si avvicinasse troppo. E quivi legarono frate Michele alla colonna. E udii ancora uno gridargli: “Ma cosa è questo, per cui vuoi morire?” ed egli rispose: “Questa è una verità che mi abita dentro, della quale non si può dar testimonianza se non di morte.” Appiccarono il fuoco. E frate Michele, che già aveva intonato il Credo, intonò dopo il Te Deum. Ne cantò forse otto versi, poi si piegò come dovesse starnutire, e cadde per terra, perché si erano arsi i legami. Ed era già morto, perché prima che il corpo bruci del tutto già si muore per il gran calore che fa scoppiare il cuore e il fumo che invade il petto.
Poi il capanno bruciò completamente come una torcia e ci fu un gran bagliore, e non fosse stato per il povero corpo carbonizzato di Michele che ancora si intravvedeva tra i legni incandescenti, avrei detto di essere davanti al roveto ardente.
E fui così vicino ad avere una visione che (ricordai mentre salivo le scale della biblioteca) mi erano salite spontanee alle labbra alcune parole sul rapimento estatico che avevo letto nei libri di santa Ildegarda: “La fiamma consiste di una splendida chiarezza, di un insito vigore e di un igneo ardore, ma la splendida chiarezza la possiede perché riluca e l'igneo ardore affinché bruci.”
Mi ricordai di alcune frasi di Ubertino sull'amore. L'immagine di Michele sul rogo si confuse con quella di Dolcino, e quella di Dolcino con quella di Margherita la bella. Sentii di nuovo quella irrequietezza che mi aveva preso in chiesa.
Tentai di non pensarci e procedetti decisamente verso il labirinto.
Vi penetravo da solo per la prima volta, le ombre lunghe proiettate dalla lucerna sul pavimento mi terrorizzavano quanto le visioni delle notti precedenti.
Temevo a ogni istante di trovarmi davanti a un altro specchio, perché tale è la magìa degli specchi, che anche se sai che sono specchi essi non cessano di inquietarti.
Non cercavo d'altra parte di orientarmi, né di evitare la stanza dai profumi che inducono a visioni. Procedevo come in preda a febbre né sapevo dove volessi andare.
Di fatto non mi mossi molto dal punto di partenza, perché poco dopo mi ritrovai nella stanza eptagonale da cui ero entrato. Qui su di un tavolo erano disposti alcuni libri che non mi pareva di aver visto la sera prima. Indovinai che erano opere che Malachia aveva ritirato dallo scriptorium e che non aveva ancora ricollocato nei punti a loro destinati. Non capivo se ero molto distante dalla sala dei profumi, perché mi sentivo come stordito e poteva essere per qualche effluvio che arrivava sino in quel luogo, oppure per le cose su cui avevo fantasticato sino ad allora. Aprii un volume riccamente miniato che, per lo stile, mi sembrava provenire dai monasteri dell'ultima Thule.
Fui colpito, in una pagina in cui iniziava il santo evangelo dell'apostolo Marco, dalla immagine di un leone. Era certamente un leone, anche se non ne avevo mai visti in carne e ossa, e il miniatore ne aveva riprodotto con fedeltà le fattezze, forse ispirandosi alla vista dei leoni di Hibernia, terra di creature mostruose, e mi convinsi che questo animale, come d'altra parte dice il Fisiologo, concentra in sé tutti i caratteri delle cose più orrende e maestose a un tempo. Così quella immagine mi evocava insieme l'immagine del nemico e quella di Cristo Nostro Signore, né sapevo in quale chiave simbolica dovessi leggerla, e tremavo tutto, e per il timore, e per il vento che penetrava dalle fessure delle pareti.
Il leone che vidi aveva una bocca irta di denti, e una testa finemente loricata come quella dei serpenti, il corpo immane che si reggeva su quattro zampe dalle unghie puntute e feroci, assomigliava nel suo vello a uno di quei tappeti che più tardi vidi portare dall'oriente, a scaglie rosse e smaragdine, su cui disegnavano, gialle come la peste, orribili e robuste trabeazioni d'ossa. Gialla era pure la coda, che si attorceva dalle terga su su sino al capo, terminando con un'ultima voluta in ciuffi bianchi e neri.
Già molto mi ero impressionato per il leone (e più di una volta mi ero girato all'indietro come se mi attendessi di veder apparire un animale di quelle fattezze all'improvviso), quando decisi di guardare altri fogli e l'occhio mi cadde, all'inizio dell'evangelo di Matteo, sull'immagine di un uomo. Non so perché, esso mi spaventò più del leone: il volto era d'uomo, ma questo uomo era catafratto in una sorta di pianeta rigida che lo copriva sino ai piedi, e questa pianeta o corazza era incrostata di pietre dure rosse e gialle. Quella testa, che fuoriusciva enigmatica da un castello di rubini e topazi, mi apparve (quanto il terrore mi fece blasfemo!) come l'assassino misterioso di cui seguivamo le impalpabili tracce. E poi capii perché collegavo così strettamente la belva e il catafratto al labirinto: perché entrambi, come tutte le figure di quel libro, emergevano da un tessuto figurato di labirinti interallacciati, dove linee d'onice e smeraldo, fili di crisopazio, nastri di berillo sembravano tutti alludere al gomitolo di sale e corridoi in cui mi trovavo. Il mio occhio si perdeva, sulla pagina,
per sentieri splendenti, come i miei piedi si stavano perdendo nella teoria inquietante delle sale della biblioteca, e il veder rappresentato su quelle pergamene il mio errare mi riempì di inquietudine e mi convinse che ciascuno di quei libri raccontava per misteriosi cachinni la mia storia di quel momento. “De te fabula narratur,” mi dissi, e mi domandai se quelle pagine non contenessero già la storia degli istanti futuri che mi attendevano.
Aprii un altro libro, e questo mi parve di scuola ispanica. I colori erano violenti, i rossi parevano sangue o fuoco. Era il libro della rivelazione dell'apostolo, e caddi ancora una volta, come la sera prima, sulla pagina della mulier amicta sole. Ma non era lo stesso libro, la miniatura era diversa, qui l'artista aveva insistito più a lungo sulle fattezze della donna. Ne paragonai il volto, il seno, i fianchi flessuosi alla statua della Vergine che avevo visto con Ubertino. Il segno era diverso, ma anche questa mulier mi apparve bellissima. Pensai che non dovevo insistere su questi pensieri, e voltai alcune pagine. Trovai un'altra donna, ma questa volta era la meretrice di Babilonia. Non mi colpirono tanto le sue fattezze ma il pensiero che anch'essa era una donna come l'altra, eppure questa era vascello di ogni vizio, quella ricettacolo di ogni virtù. Ma le fattezze erano muliebri in entrambi i casi, e a un certo punto non fui più capace di capire cosa le distinguesse. Di nuovo provai una agitazione interna, l'immagine della Vergine della chiesa si sovrappose a quella della bella Margherita. “Sono dannato!” mi dissi. O: “Sono pazzo.” E decisi che non potevo più restare nella biblioteca.
Per fortuna ero vicino alla scala. Mi precipitai giù a rischio di inciampare e spegnere il lume. Mi ritrovai sotto le ampie volte dello scriptorium, ma neanche a quel punto mi trattenni e mi lanciai giù per la scala che menava al refettorio.
Quivi ristetti, ansimante. Dalle vetrate penetrava la luce della luna, in quella notte luminosissima, e quasi non avevo più bisogno del lume, indispensabile invece per celle e cunicoli della biblioteca. Tuttavia lo mantenni acceso, quasi a cercar conforto. Ma ancora ansimavo, e pensai che avrei dovuto bere dell'acqua, per calmare la tensione. Poiché la cucina era vicina, attraversai il refettorio e aprii lentamente una delle porte che dava nella seconda metà del piano terra dell'Edificio.
E a questo punto il mio terrore, anziché diminuire, aumentò. Perché mi avvidi subito che qualcuno stava nella cucina, presso al forno del pane: o almeno mi avvidi che in quell'angolo brillava un lume, e pieno di spavento spensi il mio. Spaventato com'ero, incutei spavento, e infatti l'altro (o gli altri) spensero rapidamente il loro.
Ma invano, perché la luce della notte illuminava abbastanza la cucina per disegnare davanti a me, sul pavimento, una o più ombre confuse.
Io, raggelato, non ardivo più retrocedere, né avanzare. Udii un ciangottio e mi parve di udire, sommessa, una voce di donna. Poi dal gruppo informe che si disegnava oscuramente presso al forno, un'ombra scura e tozza si distaccò, e fuggì verso la porta esterna, che evidentemente era socchiusa, richiudendola dietro di sé.
Rimasi io, sul limine tra refettorio e cucina, e un qualcosa di impreciso presso al forno. Qualcosa di impreciso e - come dire? - mugolante. Proveniva infatti dall'ombra un gemito, quasi un pianto sommesso, un singhiozzo ritmico, di paura.
Nulla infonde più coraggio al pauroso della paura altrui: ma non mi mossi verso l'ombra spinto da coraggio. Piuttosto, direi, spinto da una ebbrezza non dissimile da quella che mi aveva colto quando avevo avuto le visioni. C'era nella cucina qualcosa di affine ai suffumigi che mi avevano sorpreso nella biblioteca, il giorno prima. O forse non si trattava delle stesse sostanze, ma ai miei sensi sovraeccitati esse fecero lo stesso effetto. Avvertivo un afrore di traganta, allume e tartaro, che i cuochi usavano per aromatizzare il vino. O forse, come appresi dopo, si stava in quei giorni preparando la birra (che in quella plaga a nord della penisola era tenuta in un certo pregio) e la si produceva secondo la moda del mio paese, con erica, mirto di palude e rosmarino di stagno selvatico. Aromi tutti che, più che le mie nari, inebriarono la mia mente.
E mentre il mio istinto razionale era di gridare “vade retro!” e allontanarmi dalla cosa gemente che certamente era un succubo evocatomi dal maligno, qualcosa nella mia vis appetitiva mi spinse in avanti, come volessi esser partecipe di un portento.
Così mi feci dappresso all'ombra, sino a che, alla luce della notte, che cadeva dai finestroni, mi avvidi che era una donna, tremante, che serrava al petto con una mano un involto, e che si ritraeva piangendo verso la bocca del forno.
Dio, la Beata Vergine e tutti i santi del Paradiso mi assistano ora nel dire cosa mi accadde. Il pudore, la dignità del mio stato (ormai vecchio monaco in questo bel monastero di Melk, luogo di pace e serena meditazione) mi consiglierebbero piissime cautele. Dovrei dire semplicemente che qualcosa di male avvenne ma che non è onesto ripetere cosa fu, e non turberei né me stesso né il mio lettore.
Ma mi sono ripromesso di raccontare, su quei fatti lontani, tutta la verità, e la verità è indivisa, brilla della sua stessa perspicuità, e non consente di essere dimidiata dai nostri interessi e dalla nostra vergogna. Il problema è piuttosto di dire cosa avvenne non come ora lo vedo e lo ricordo (anche se ancora ricordo tutto con impietosa vivacità, né so se sia il pentimento che ne è seguito a fissare in modo così vivido casi e pensieri nella mia memoria, o l'insufficienza di quello stesso pentimento che ancora mi tormenta dando vita nella mia mente addolorata a ogni minima sfumatura della mia vergogna), ma come lo vidi e lo sentii allora. E posso farlo, con fedeltà di cronista, perché se chiudo gli occhi posso ripetere tutto quanto non solo feci ma pensai in quegli istanti, come se copiassi una pergamena scritta allora. Devo quindi procedere in tal modo, e san Michele Arcangelo mi protegga: perché a edificazione dei lettori venturi e a flagellazione della mia colpa voglio ora raccontare come un giovane possa incappare nelle trame del demonio, sì che esse possano essere note ed evidenti, e chi ancora vi incappi possa sconfiggerle.
Era dunque una donna. Che dico, una fanciulla. Avendo avuto sino ad allora (e da allora in poi, siano rese grazie a Dio) poca dimestichezza con gli esseri di quel sesso, non so dire che età potesse aver avuto. So che era giovane, quasi adolescente, forse aveva sedici, o diciotto primavere, o forse venti, e fui colpito dall'impressione di umana realtà che promanava da quella figura. Non era una visione, e mi parve in ogni caso valde bona. Forse perché tremava come un uccellino d'inverno, e piangeva, e aveva paura di me.
Così, pensando che il dovere di ogni buon cristiano sia di soccorrere il proprio prossimo, mi appressai a essa con gran dolcezza e in buon latino le dissi che non doveva temere perché ero un amico, in ogni caso non un nemico, certamente non il nemico come essa forse formidinava.
Forse per la mansuetudine che spirava dal mio sguardo, la creatura si calmò e mi si avvicinò. Avvertii che non capiva il mio latino e d'istinto mi rivolsi a lei nel mio volgare tedesco, e questo la spaventò moltissimo, non so se a causa dei suoni aspri, inusitati per le genti di quella plaga, o perché questi suoni le ricordassero qualche altra esperienza con soldati delle mie terre. Allora sorrisi, ritenendo che il linguaggio dei gesti e del viso sia più universale di quello delle parole, ed essa si quetò. Mi sorrise anch'essa e mi disse poche parole.
Conoscevo pochissimo il suo volgare, e in ogni caso era diverso da quello che avevo in parte appreso a Pisa, tuttavia mi avvidi dal tono che essa mi diceva parole dolci, e mi parve dicesse qualcosa come: “Tu sei giovane, tu sei bello...” Accade raramente a un novizio, che abbia passato tutta la sua infanzia in monastero, di udire affermazioni circa la propria bellezza, e anzi si è di solito ammoniti che la bellezza corporale è fugace e da tenere in conto assai vile: ma le trame del nemico sono infinite e confesso che quell'accenno alla mia venustà, per quanto mendace, scese dolcissimo alle mie orecchie e mi diede una incontenibile emozione. Tanto più che la fanciulla, nel dir questo, aveva proteso la mano e coi polpastrelli delle sue dita aveva sfiorato la mia gota, allora del tutto imberbe. Ne provai come una impressione di deliquio, ma in quel momento non riuscivo ad avvertire ombra di peccato nel mio cuore. Tanto può il demonio quando vuole metterci alla prova e cancellare dall'animo nostro le tracce della grazia.
Cosa provai? Cosa vidi? Io solo ricordo che le emozioni del primo istante furono orbate di ogni espressione, perché la mia lingua e la mia mente non erano state educate a nominare sensazioni di quella fatta. Sino a che non mi sovvennero altre parole interiori, udite in altro tempo e in altri luoghi, certamente parlate per altri fini, ma che mirabilmente mi parvero armonizzare con il mio gaudio di quel momento, come se fossero nate consustanzialmente a esprimerlo. Parole che si erano affollate nelle caverne della mia memoria salirono alla superficie (muta) del mio labbro, e dimenticai che esse fossero servite nelle scritture o sulle pagine dei santi a esprimere ben più fulgide realtà. Ma v'era poi davvero differenza tra le delizie di cui avevano parlato i santi e quelle che il mio animo esagitato provava in quell'istante? In quell'istante si annullò in me il senso vigile della differenza. Che è appunto, mi pare, il segno del rapimento negli abissi dell'identità.
Di colpo la fanciulla mi apparve così come la vergine nera ma bella di cui dice il Cantico. Essa portava un abituccio liso di stoffa grezza che si apriva in modo abbastanza inverecondo sul petto, e aveva al collo una collana fatta di pietruzze colorate e, credo, vilissime. Ma la testa si ergeva fieramente su un collo bianco come torre d'avorio, i suoi occhi erano chiari come le piscine di Hesebon, il suo naso era una torre del Libano, le chiome del suo capo come porpora. Sì, la sua chioma mi parve come un gregge di capre, i suoi denti come greggi di pecore che risalgono dal bagno, tutte appaiate, sì che nessuna di esse era prima della compagna. E: “Come sei
bella, mia amata, come sei bella,” mi venne da mormorare, “la tua chioma è come un gregge di capre che scende dalle montagne di Galaad, come nastro di porpora sono le tue labbra, spicchio di melograno è la tua guancia, il tuo collo è come la torre di David cui sono appesi mille scudi.” E mi chiedevo spaventato e rapito chi fosse costei che si levava davanti a me come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata.
Allora la creatura si appressò a me ancora di più, gettando in un angolo l'involto scuro che sino ad allora aveva tenuto stretto contro il suo petto, e levò ancora la mano ad accarezzarmi il volto, e ripeté ancora una volta le parole che avevo già udito. E mentre non sapevo se sfuggirla o accostarmi ancora di più, mentre il mio capo pulsava come se le trombe di Giosuè stessero per far crollate le mura di Gerico, e al tempo stesso bramavo e temevo di toccarla, essa ebbe un sorriso di grande gioia, emise un gemito sommesso di capra intenerita, e sciolse i lacci che chiudevano l'abito suo sul petto e si sfilò l'abito dal corpo come una tunica, e rimase davanti a me come Eva doveva essere apparsa ad Adamo nel giardino dell'Eden. “Pulchra sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice,” mormorai ripetendo la frase che avevo udito da Ubertino, perché i suoi seni mi apparvero come due cerbiatti, due gemelli di gazzelle che pascolavano tra i gigli, il suo ombelico fu una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato, il suo ventre un mucchio di grano contornato di fiori delle valli.
“O sidus clarum puellarum,” le gridai, “o porta clausa, fons hortorum, cella custos unguentorum, cella pigmentaria!” e mi ritrovai senza volere a ridosso del suo corpo avvertendone il calore e il profumo acre di unguenti mai conosciuti. Mi sovvenni: “Figli, quando viene l'amore folle, nulla può l'uomo!” e compresi che, fosse quanto provavo trama del nemico o dono celeste, nulla ormai potevo fare per contrastare l'impulso che mi muoveva e: “Oh langueo,” gridai, e: “Causam languoris video nec caveo!” anche perché un odore roseo spirava dalle sue labbra ed erano belli i suoi piedi nei sandali, e le gambe erano come colonne e come colonne le pieghe dei suoi fianchi, opera di mano d'artista. O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia, mormoravo tra me, e fui tra le sue braccia, e cademmo insieme sul nudo pavimento della cucina e, non so se per mia iniziativa o per arti di lei, mi trovai libero del mio saio di novizio e non avemmo vergogna dei nostri corpi et cuncta erant bona.
Ed essa mi baciò con i baci della sua bocca, e i suoi amori furono più deliziosi del vino e all'odore erano deliziosi i suoi profumi, ed era bello il suo collo tra le perle e le sue guance tra i pendenti, come sei bella mia amata, come sei bella, i tuoi occhi sono colombe (dicevo) e fammi vedere la tua faccia, fammi sentire la tua voce, ché la tua voce è armoniosa e la tua faccia incantevole, mi hai reso folle di amore sorella mia, mi hai reso folle con una tua occhiata, con un solo monile del tuo collo, favo che gocciola sono le tue labbra, miele e latte sotto la tua lingua, il profumo del tuo respiro è come quello dei pomi, i tuoi seni a grappoli, i tuoi seni come grappoli d'uva, il tuo palato un vino squisito che punta dritto al mio amore e fluisce sulle labbra e sui denti... Fontana da giardino, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, mirra e aloe, io mangiavo il mio favo e il mio miele, bevevo il mio vino e il mio latte, chi era, chi
era mai costei che si levava come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere vessillifere?
Oh Signore, quando l'anima viene rapita, quivi la sola virtù sta nell'amare ciò che vedi (non è vero?), la somma felicità nell'avere ciò che hai, quivi la vita beata si beve alla sua fonte (non è stato detto?), quivi si gusta la vera vita che dopo questa mortale ci toccherà di vivere accanto agli angeli nell'eternità... Questo pensavo e mi pareva che le profezie si avverassero, infine, mentre la fanciulla mi colmava di dolcezze indescrivibili ed era come se il mio corpo fosse tutto un occhio davanti e di dietro e vedessi le cose circostanti di colpo. E capivo che da esso, che è l'amore, si producono a un tempo l'unità e la soavità e il bene e il bacio e l'amplesso, come già avevo udito dire credendo mi si parlasse d'altro. E solo per un istante, mentre la mia gioia stava per toccare lo zenith, mi sovvenne che forse stavo sperimentando, e di notte, la possessione del demone meridiano, condannato infine a mostrarsi nella sua natura stessa di demone all'anima che nell'estasi domandi “chi sei?”, esso che sa rapire l'anima e illudere il corpo. Ma subito mi convinsi che diaboliche erano certo le mie esitazioni, perché nulla poteva essere più giusto, più buono, più santo di quel che stavo provando e la cui dolcezza cresceva di momento in momento. Come una piccola goccia d'acqua infusa in una quantità di vino tutta si disperde per prendere colore e sapore di vino, come il ferro incandescente e infuocato diventa somigliantissimo al fuoco perdendo la sua forma primitiva, come l'aria quando è inondata dalla luce del sole è trasformata nel massimo splendore e nella medesima chiarezza, tanto da non sembrare più illuminata bensì essere luce essa stessa, così io mi sentivo morire di tenera liquefazione, sì che mi rimase solo la forza per mormorare le parole del salmo: “Ecco il mio petto è come vino nuovo, senza spiraglio, che rompe otri nuovi”, e subito vidi una fulgidissima luce e in essa una forma color zaffiro che avvampava tutta di un fuoco rutilante e soavissimo, e quella luce splendida si diffuse per l'intero fuoco rutilante, e questo fuoco rutilante per quella forma splendente e quella luce fulgidissima e quel fuoco rutilante per l'intera forma.
Mentre, quasi svanito, cadevo sul corpo a cui mi ero unito, capii in un ultimo soffio di vitalità che la fiamma consiste di una splendida chiarezza, di un insito vigore e di un igneo ardore, ma la splendida chiarezza la possiede affinché riluca e l'igneo ardore affinché bruci. Poi capii l'abisso, e gli abissi ulteriori che esso invocava.
Ora che, con la mano che trema (e non so se per l'orrore del peccato di cui dico o per la colpevole nostalgia del fatto che rimemoro) scrivo queste linee, mi avvedo di avere usato le stesse parole per descrivere la mia turpissima estasi di quell'istante, che ho usato, non molte pagine innanzi, per descrivere il fuoco che bruciava il corpo martire del fraticello Michele. Né è un caso che la mia mano, prona esecutrice dell'anima, abbia stilato le stesse espressioni per due esperienze così difformi, perché probabilmente nello stesso modo le vissi allora, quando le avvertii, e poco fa, quando cercavo di farle rivivere entrambe sulla pergamena.
C'è una misteriosa saggezza per cui fenomeni tra sé disparati possono venir nominati con parole analoghe, la stessa per cui le cose divine possono essere
designate con nomi terreni, e per simboli equivoci Dio può essere detto leone o leopardo, e la morte ferita, e la gioia fiamma, e la fiamma morte, e la morte abisso, e l'abisso perdizione e la perdizione deliquio e il deliquio passione.
Perché io fanciullo nominavo l'estasi di morte che mi aveva colpito nel martire Michele con le parole con cui la santa aveva nominato l'estasi di vita (divina), ma con le stesse parole non potevo non nominare l'estasi (colpevole e passeggera) di godimento terreno, che dal canto proprio subito dopo mi era apparsa sensazione di morte e annullamento? Io cerco ora di ragionare e sul modo in cui avvertii, a pochi mesi di distanza, due esperienze entrambe esaltanti e dolorose, e sul modo in cui quella notte all'abbazia rimemorai l'una e sensibilmente avvertii l'altra, a poche ore di distanza, e ancora il modo in cui nel contempo le ho rivissute ora, stilando queste linee, e come nei tre casi le abbia recitate a me stesso con le parole della diversa esperienza di un'anima santa che si annullava nella visione della divinità. Ho forse bestemmiato (allora, ora)? Cosa vi era di simile nel desiderio di morte di Michele, nel rapimento che provai alla vista della fiamma che lo consumava, nel desiderio di congiunzione carnale che provai con la fanciulla, nel mistico pudore con cui lo traducevo allegoricamente, e nello stesso desiderio di annullamento gaudioso che muoveva la santa a morire del proprio amore per vivere più a lungo ed eternamente?
Possibile che cose tanto equivoche possan dirsi in modo così univoco? Eppure è questo, pare, l'insegnamento che ci hanno lasciato i massimi tra i dottori: omnis ergo figura tanto evidentius veritatem demonstrat quanto apertius per dissimilem similitudinem figuram se esse et non veritatem probat. Ma se l'amore della fiamma e dell'abisso sono figura dell'amore di Dio, possono essere figura dell'amore della morte e dell'amore del peccato? Sì, così come il leone e il serpente sono a un tempo figura e del Cristo e del demonio. E' che la giustezza dell'interpretazione non può essere fissata che dall'autorità dei padri, e nel caso di cui mi cruccio non ho auctoritas a cui la mia mente obbediente possa rifarsi, e brucio nel dubbio (e ancora la figura del fuoco interviene a definire il vuoto di verità e la pienezza di errore che mi annullano!). Cosa avviene, o Signore, nel mio animo, ora che mi faccio prendere dal vortice dei ricordi e insieme conflagro tempi diversi, come se stessi per manomettere l'ordine degli astri e la sequenza dei loro moti celesti? Certamente supero i limiti della mia intelligenza peccatrice e malata. Orsù, ritorniamo al compito che mi ero umilmente proposto. Stavo raccontando di quel giorno e del totale smarrimento dei sensi in cui mi inabissai. Ecco, ho detto di cosa mi ricordai in quella occasione, e a questo si limiti la mia debole penna di fedele e veritiero cronista.
Giacqui, non so per quanto, la fanciulla accanto a me. Con moto lieve la sola sua mano continuava a toccare il mio corpo, ora madido di sudore. Provavo una interiore esultanza, che non era pace, ma come l'ultimo ardere sommesso di un fuoco che tardasse a estinguersi sotto la cenere quando ormai la fiamma è morta. Non esiterei a chiamar beato colui a cui fosse concesso di provare qualcosa di simile (mormoravo come nel sonno), anche raramente, in questa vita (e di fatto lo provai solo quella volta), e soltanto rapidissimamente, e per lo spazio di un istante solo.
Quasi non si esistesse più, non sentire per nulla se stessi, l'essere abbassati, quasi annientati, e se qualcuno dei mortali (mi dicevo) potesse per un solo istante e
rapidissimamente gustare ciò che io ho gustato, subito guarderebbe di malocchio questo mondo perverso, sarebbe turbato dalla malizia del vivere quotidiano, sentirebbe il peso del corpo di morte... Non era così che mi era stato insegnato?
Quell'invito di tutto il mio spirito a smemorare nella beatitudine era certo (ora lo capivo) l'irradiazione del sole eterno, e la gioia che quello produce apre, distende, ingrandisce l'uomo, e la gola spalancata che l'uomo reca in se stesso non più si chiude con tanta facilità, è la ferita aperta dal colpo di spada dell'amore, né v'è quaggiù altra cosa che sia più dolce e terribile. Ma tale è il diritto del sole, esso saetta il ferito coi suoi raggi e tutte le pieghe si allargano, l'uomo s'apre e si dilata, le sue vene stesse sono spalancate, le sue forze non sono più in grado di eseguire gli ordini che ricevono ma sono mosse unicamente dal desiderio, lo spirito brucia inabissato nell'abisso di ciò che ora tocca, vedendo il proprio desiderio e la propria verità superati dalla realtà che ha vissuto e che vive. E si assiste stupefatto al proprio deliquio.
Fui immesso in tali sensazioni di inenarrabile gaudio interiore, che mi assopii.
Riaprii gli occhi alquanto dopo e la luce della notte, forse a causa di una nube, si era molto affievolita. Allungai la mano al mio fianco e non sentii più il corpo della fanciulla. Volsi il capo: non c'era più.
L'assenza dell'oggetto che aveva scatenato il mio desiderio e saziata la mia sete, mi fece avvertire di un tratto e la vanità di quel desiderio e la perversità di quella sete. Omne animal triste post coitum. Presi coscienza del fatto che avevo peccato. Ora, dopo anni e anni di distanza, mentre ancora piango amaramente il mio fallo, non posso dimenticare che quella sera io avevo provato grande gaudio e farei torto all'Altissimo, che ha creato tutte le cose in bontà e bellezza, se non ammettessi che anche in quella vicenda di due peccatori avvenne qualcosa che in sé, naturaliter, era buono e bello. Ma forse è la mia vecchiezza attuale, che mi fa sentire colpevolmente come bello e buono tutto ciò che fu della mia giovinezza. Mentre dovrei volgere il mio pensiero alla morte, che si appressa. Allora, giovane, non pensai alla morte, ma vivacemente e sinceramente, piansi per il mio peccato.
Mi alzai tremando, anche perché ero stato a lungo sulle pietre gelide della cucina e il corpo mi si era intirizzito. Mi rivestii, quasi febbricitando. Scorsi allora in un canto l'involto che la ragazza aveva abbandonato nel fuggire. Mi chinai a esaminare l'oggetto: era una sorta di pacco fatto di tela arrotolata, che sembrava venire dalle cucine. Lo svolsi, e sul momento non capii cosa vi fosse dentro, sia a causa della poca luce che della forma informe del suo contenuto. Poi compresi: tra grumi di sangue e brandelli di carne più flaccida e biancastra, stava davanti ai miei occhi, morto ma ancora palpitante della vita gelatinosa delle viscere morte, solcato da nervature livide, un cuore, di grandi dimensioni.
Un velo oscuro mi scese sugli occhi, una saliva acidula mi salì alla bocca.
Lanciai un urlo e caddi come cade un corpo morto.
Terzo giorno
Notte
Dove Adso sconvolto si confessa con Guglielmo e medita
sulla funzione della donna nel piano della creazione, poi però scopre il cadavere di un uomo
Mi riebbi che qualcuno mi bagnava il volto. Era frate Guglielmo, che recava un lume, e mi aveva messo qualcosa sotto il capo.
“Cosa è successo, Adso,” mi chiese, “che giri di notte a rubar frattaglie in cucina?”
In breve, Guglielmo si era svegliato, mi aveva cercato non so più per quale ragione, non trovandomi aveva sospettato che fossi andato a far qualche bravata in biblioteca. Avvicinandosi all'Edificio dalla parte della cucina, aveva visto un'ombra che usciva dalla porta verso l'orto (era la ragazza che si stava allontanando, forse perché aveva udito qualcuno che si appressava). Aveva cercato di capire chi fosse e di seguirla, ma essa (ovvero quella che per lui era un'ombra) si era allontanata verso il muro di cinta e poi era scomparsa. Allora Guglielmo - dopo un'esplorazione nei dintorni - era entrato nella cucina e lì mi aveva trovato svenuto.
Quando gli accennai, ancora terrorizzato, all'involto col cuore, farfugliando di un nuovo delitto, si mise a ridere: “Adso, ma quale uomo avrebbe un cuore così grosso? E' un cuore di vacca, o di bue, hanno giusto ammazzato un animale quest'oggi! Piuttosto, come si trova tra le tue mani?”
A quel punto, oppresso dai rimorsi, oltre che stordito dalla gran paura, scoppiai in un pianto dirotto e chiesi che mi amministrasse il sacramento della confessione. Il che fece, e io gli raccontai tutto senza celargli nulla.
Frate Guglielmo mi ascoltò con grande serietà, ma con un'ombra di indulgenza. Quando ebbi finito si fece serio in viso e mi disse: “Adso, tu hai peccato, è certo, e contro il comandamento che ti impone di non fornicare, e contro i tuoi doveri di novizio. A tua discolpa, sta il fatto che ti sei trovato in una di quelle situazioni in cui si sarebbe dannato anche un padre nel deserto. E sulla donna come fomite di tentazione hanno già parlato abbastanza le scritture. Della donna dice l'Ecclesiaste che la sua conversazione è come fuoco ardente, e i Proverbi dicono che essa s'impadronisce dell'anima preziosa dell'uomo e i più forti sono stati rovinati da essa. E dice ancora l'Ecclesiaste: scoprii che più amara della morte è la donna, che è come il laccio dei cacciatori, il suo cuore è come una rete, le sue mani sono funi. E
altri hanno detto che essa è vascello del demonio. Questo appurato, caro Adso, io non riesco a convincermi che Dio abbia voluto introdurre nella creazione un essere così immondo senza dotarlo di qualche virtù. E non posso non riflettere sul fatto che Egli le ha concesso molti privilegi e motivi di pregio, di cui tre almeno grandissimi. Infatti ha creato l'uomo in questo mondo vile, e dal fango, e la donna in un secondo tempo,
in paradiso e da nobile umana materia. E non l'ha formata dai piedi o dalle interiora del corpo di Adamo, ma dalla costola. In secondo luogo il Signore, che può tutto, avrebbe potuto incarnarsi direttamente in un uomo in qualche modo miracoloso, e scelse invece di abitare nel ventre di una donna, segno che non era così immonda. E
quando apparve dopo la resurrezione, apparve a una donna. E infine, nella gloria celeste nessun uomo sarà re in quella patria, e ne sarà invece regina una donna che non ha mai peccato. Se dunque il Signore ha avuto tante attenzioni per Eva stessa e per le sue figlie, è così anormale che anche noi ci sentiamo attratti dalle grazie e dalla nobiltà di quel sesso? Quello che voglio dirti, Adso, è che certo non devi farlo più, ma che non è così mostruoso che tu sia stato tentato di farlo. E d'altra parte che un monaco, almeno una volta nella sua vita, abbia avuto esperienza della passione carnale, in modo da poter essere un giorno indulgente e comprensivo coi peccatori a cui darà consiglio e conforto... ebbene, caro Adso, è cosa da non auspicare prima che avvenga, ma neppure da vituperare troppo dopo che sia avvenuta. E quindi va con Dio e non parliamone più. Ma piuttosto, per non stare a meditare troppo su qualcosa che sarà meglio dimenticare, se ci riuscirai,” e mi parve che a questo punto la sua voce si affievolisse come per qualche interna commozione, “chiediamoci piuttosto il senso di quanto è accaduto questa notte. Chi era questa ragazza e con chi aveva convegno?”
“Questo proprio non lo so, e non ho visto l'uomo che era con lei,” dissi.
“Bene, ma possiamo dedurre chi fosse da molti certissimi indizi. Anzitutto era un uomo brutto e vecchio, con cui una fanciulla non va volentieri, specie se è bella come tu la dici, anche se mi pare, caro il mio lupacchiotto, che tu fossi propenso a trovare squisito ogni cibo.”
“Perché brutto e vecchio?”
“Perché la fanciulla non andava da lui per amore, ma per un pacco di rognoni.
Certamente era una ragazza del villaggio che, forse non per la prima volta, si concede a qualche monaco lussurioso per fame, e ne ha come guiderdone qualcosa da mettere sotto i denti lei e la sua famiglia.”
“Una meretrice!” dissi inorridito.
“Una contadina povera, Adso. Magari coi fratellini da nutrire. E che, potendo, si darebbe per amore e non per lucro. Come ha fatto stasera. Infatti mi dici che ti ha trovato giovane e bello, e ti ha dato gratis e per amor tuo ciò che ad altri avrebbe dato invece per un cuore di bue e qualche pezzo di polmone. E si è sentita così virtuosa per il dono gratuito che ha fatto di sé, e sollevata, che è fuggita senza prendere nulla in cambio. Ecco perché penso che l'altro, al quale ti ha comparato, non fosse né giovane né bello.”
Confesso che, benché il mio pentimento fosse vivissimo, quella spiegazione mi riempì di dolcissimo orgoglio, ma tacqui e lasciai continuare il mio maestro.
“Questo vecchiaccio brutto doveva avere la possibilità di scendere al villaggio e aver contatti coi contadini, per qualche motivo connesso al suo ufficio. Doveva conoscere il modo di fare entrare e uscire gente dalla cinta, e sapere che in cucina ci sarebbero state quelle frattaglie (e magari domani si sarebbe detto che, la porta restata aperta, un cane era entrato e se le era mangiate). E infine doveva avere un
certo senso dell'economia, e un certo interesse a che la cucina non fosse deprivata di derrate più preziose, altrimenti le avrebbe dato una bistecca o un'altra parte più prelibata. E allora vedi che l'immagine del nostro sconosciuto si disegna con molta chiarezza e che tutte queste proprietà, o accidenti, ben si convengono a una sostanza che non avrei timore di definire come il nostro cellario, Remigio da Varagine. O, se mi sbagliassi, come il nostro misterioso Salvatore. Il quale tra l'altro, essendo di queste parti, sa parlare assai bene con le genti del posto e sa come convincere una fanciulla a fare quel che voleva farle fare, se tu non fossi arrivato.”
“E' certo così,” dissi convinto, “ma cosa ci serve ora saperlo?”
“Niente. E tutto,” disse Guglielmo. “La storia può avere o non avere a che fare coi delitti di cui ci occupiamo. D'altra parte se il cellario è stato dolciniano, questo spiega quello e viceversa. E sappiamo ora infine che questa abbazia, di notte, è luogo di molte ed errabonde vicende. E chissà che il nostro cellario, o Salvatore, che la percorrono al buio con tanta disinvoltura, non sappiano in ogni caso più cose di quelle che non dicono.”
“Ma le diranno a noi?”
“No, se ci comporteremo in modo compassionevole, ignorando i loro peccati.
Ma se proprio dovessimo sapere qualcosa, avremmo in mano un modo di persuaderli a parlare. In altre parole, se ce ne sarà bisogno, il cellario o Salvatore sono nostri, e Dio ci perdonerà questa prevaricazione, visto che perdona tante altre cose,” disse, e mi guardò con malizia, né io ebbi animo di fare osservazioni sulla liceità di quei suoi propositi.
“Ed ora dovremmo andare a letto, perché tra un'ora è mattutino. Ma ti vedo ancora agitato, mio povero Adso, ancora timoroso del tuo peccato... Non c'è nulla come una buona sosta in chiesa per distenderti l'animo. Io ti ho assolto, ma non si sa mai. Vai a chiedere conferma al Signore.” E mi diede una manata piuttosto energica sul capo, forse come prova di paterno e virile affetto, forse come indulgente penitenza. O forse (come colpevolmente pensai in quel momento) per una sorta di bonaria invidia, da uomo assetato di esperienze nuove e vivaci come era.
Ci avviammo verso la chiesa, uscendo per la nostra via consueta, che percorsi in fretta chiudendo gli occhi, perché tutte quelle ossa mi ricordavano con troppa evidenza, quella notte, come anch'io fossi polvere e quanto dissennato fosse stato l'orgoglio della mia carne.
Giunti nella navata vedemmo un'ombra davanti all'altar maggiore. Credevo fosse ancora Ubertino. Invece era Alinardo, che a tutta prima non ci riconobbe. Disse che ormai era incapace di dormire, e aveva deciso di passare la notte pregando per quel giovane monaco scomparso (non ne ricordava neppure il nome). Pregava per la sua anima, se fosse morto, per il suo corpo, se giacesse infermo e solo da qualche parte.
“Troppi morti,” disse, “troppi morti... Ma era scritto nel libro dell'apostolo.
Con la prima tromba venne la grandine, con la seconda la terza parte del mare divenne sangue, e uno lo avete trovato nella grandine, l'altro nel sangue... La terza tromba avverte che una stella ardente cadrà nella terza parte dei fiumi e delle fonti.
Così vi dico, è scomparso il nostro terzo fratello. E temete per il quarto, perché sarà
colpita la terza parte del sole, e della luna e delle stelle, così che sarà buio quasi completo...”
Mentre uscivamo dal transetto, Guglielmo si chiese se nelle parole del vegliardo non vi fosse qualcosa di vero.
“Ma,” gli feci osservate, “questo presupporrebbe che una sola mente diabolica, usando l'Apocalisse come guida, avesse predisposto le tre scomparse, ammesso che anche Berengario sia morto. Invece sappiamo che quella di Adelmo fu dovuta alla sua volontà...”
“E' vero,” disse Guglielmo, “ma la stessa mente diabolica, o malata, potrebbe avere tratto ispirazione dalla morte di Adelmo per organizzare in modo simbolico le altre due. E se così fosse, Berengario dovrebbe trovarsi in un fiume o in una fonte. E
non ci sono fiumi e fonti all'abbazia, almeno non tali che qualcuno ci possa annegare o vi possa essere annegato...”
“Ci sono solo dei bagni,” osservai quasi per caso.
“Adso!” disse Guglielmo, “sai che questa può essere un'idea? I balnea!”
“Ma vi avranno già guardato...”
“Ho visto i servi stamane quando facevano le loro ricerche, hanno aperto la porta della costruzione dei balnea e han dato un'occhiata intorno, senza frugare, non si attendevano ancora di dover cercare qualcosa di ben nascosto, si aspettavano un cadavere che giacesse teatralmente da qualche parte, come il cadavere di Venanzio nell'orcio... Andiamo a dare un'occhiata, tanto fa ancora buio e mi pare che la nostra lucerna arda ancora con gusto.”
Così facemmo, e aprimmo senza difficoltà la porta della costruzione dei balnea, a ridosso dell'ospedale.
Riparate l'una dall'altra mediante ampie tende, stavano delle vasche, non ricordo quante. I monaci le usavano per la loro igiene, quando la regola ne fissava il giorno, e Severino li usava per ragioni terapeutiche, perché nulla come un bagno può calmare il corpo e la mente. Un camino in un angolo permetteva facilmente di scaldare l'acqua. Lo trovammo sporco di cenere fresca, e vi giaceva davanti un gran calderone rovesciato. L'acqua era attingibile da una fonte in un angolo.
Guardammo nelle prime vasche, che erano vuote. Solo l'ultima, celata da una tenda tirata, era piena e accanto vi giaceva, ammucchiata, una veste. A prima vista, alla luce della nostra lampada, la superficie del liquido ci apparve calma: ma come il lume vi batté sopra vi intravvedemmo sul fondo, esanime, un corpo umano, nudo. Lo tirammo lentamente fuori: era Berengario. E questo, disse Guglielmo, aveva veramente il volto di un annegato. Le fattezze del viso erano gonfie. Il corpo, bianco e molle, privo di peli, pareva quello di una donna, salvo lo spettacolo osceno delle flaccide pudenda. Arrossii, poi ebbi un brivido. Mi segnai, mentre Guglielmo benediceva il cadavere.
Quarto giorno
Quarto giorno
Laudi
Dove Guglielmo e Severino esaminano il cadavere di Berengario, scoprono che ha la lingua nera, cosa singolare per un annegato.
Poi discutono di veleni dolorosissimi e di un furto remoto Non mi attarderò a dire di come informammo l'Abate, di come tutta l'abbazia si risvegliò prima dell'ora canonica, delle grida di orrore, dello spavento e del dolore che si vedevano sul viso di ciascuno, di come la notizia si propagò a tutto il popolo del pianoro, coi servi che si segnavano e pronunciavano scongiuri. Non so se quella mattina si svolse il primo ufficio secondo le regole, e chi vi prese parte. Io seguii Guglielmo e Severino che fecero avvolgere il corpo di Berengario e ordinarono di distenderlo su un tavolo nell'ospedale.
Allontanatisi l'Abate e gli altri monaci, l'erborista e il mio maestro osservarono a lungo il cadavere, con la freddezza degli uomini di medicina.
“E' morto annegato,” disse Severino, “non vi è dubbio. Il viso è gonfio, il ventre è teso...”
“Ma non è stato annegato da altri,” osservò Guglielmo, “altrimenti si sarebbe ribellato alla violenza dell'omicida, e avremmo trovato tracce d'acqua sparsa intorno alla vasca. E invece tutto era ordinato e pulito, come se Berengario avesse scaldato l'acqua, riempito il bagno e vi si fosse adagiato di propria volontà.”
“Questo non mi stupisce,” disse Severino. “Berengario soffriva di convulsioni, e io stesso gli avevo detto più volte che i bagni tiepidi servono a calmare l'eccitazione del corpo e dello spirito. Varie volte mi aveva chiesto licenza di accedere ai balnea.
Così potrebbe avere fatto questa notte...”
“L'altra notte,” osservò Guglielmo, “perché questo corpo - lo vedi - è restato nell'acqua almeno un giorno...”
“E' possibile che sia stato l'altra notte,” convenne Severino. Guglielmo lo mise parzialmente al corrente degli avvenimenti della notte prima. Non gli disse che eravamo stati furtivamente nello scriptorium ma, celandogli varie circostanze, gli disse che avevamo inseguito una figura misteriosa che ci aveva sottratto un libro.
Severino capì che Guglielmo gli diceva solo una parte della verità, ma non fece altre domande. Osservò che l'agitazione di Berengario, se era lui il ladro misterioso, poteva averlo indotto a cercare la tranquillità in un bagno ristoratore. Berengario, osservò, era di natura molto sensibile, talora una contrarietà o un'emozione gli provocavano tremori, sudori freddi, sbarrava gli occhi e cadeva per terra sputando una bava biancastra.
“In ogni caso,” disse Guglielmo, “prima di venire qui è stato da qualche altra parte, perché non ho visto nei balnea il libro che ha rubato.”
“Sì,” confermai con una certa fierezza, “ho sollevato la sua veste che giaceva accanto alla vasca, e non ho trovato tracce di alcun oggetto voluminoso.”
“Bravo,” mi sorrise Guglielmo. “Dunque è stato da qualche altra pane, poi ammettiamo pure che per calmare la propria agitazione, e forse per sottrarsi alle nostre ricerche, si sia infilato nei balnea e si sia immerso nell'acqua. Severino, ritieni che il male di cui soffriva fosse sufficiente a fargli perdere i sensi e a farlo annegare?”
“Potrebbe essere,” osservò dubbioso Severino. “D'altra parte se tutto è accaduto due notti fa, avrebbe potuto esserci dell'acqua intorno alla vasca, che poi è asciugata. Così non possiamo escludere che sia stato annegato a viva forza.”
“No,” disse Guglielmo. “Hai mai visto un assassinato che, prima di farsi annegare, si toglie gli abiti?” Severino scosse la testa, come se quell'argomento non avesse più gran valore. Da qualche istante stava esaminando le mani del cadavere:
“Ecco una cosa curiosa...” disse.
“Quale?”
“L'altro giorno ho osservato le mani di Venanzio, quando il corpo è stato ripulito dal sangue, e ho notato un particolare a cui non avevo dato molta importanza.
I polpastrelli di due dita della mano destra di Venanzio erano scuri, come anneriti da una sostanza bruna. Esattamente, vedi?, come ora i polpastrelli di due dita di Berengario. Anzi, qui abbiamo anche qualche traccia sul terzo dito. Allora avevo pensato che Venanzio avesse toccato degli inchiostri nello scriptorium...”
“Molto interessante,” osservò Guglielmo pensieroso, avvicinando gli occhi alle dita di Berengario. L'alba stava sorgendo, la luce all'interno era ancora fioca, il mio maestro soffriva evidentemente della mancanza delle sue lenti. “Molto interessante,”
ripeté.”L'indice e il pollice sono scuri sui polpastrelli, il medio solo sulla parte interna, e debolmente. Ma ci sono tracce più deboli anche sulla mano sinistra, almeno sull'indice e sul pollice.”
“Se fosse solo la mano destra, sarebbero le dita di chi afferra qualcosa di piccolo, o di lungo e sottile...”
“Come uno stilo. O un cibo. O un insetto. O un serpente. O un ostensorio. O un bastone. Troppe cose. Ma se ci sono segni anche sull'altra mano potrebbe essere anche una coppa, la destra la tiene salda e la sinistra collabora con minor forza...”
Severino ora sfregava leggermente le dita del morto, ma il colore bruno non scompariva. Notai che si era messo un paio di guanti, che probabilmente usava quando maneggiava sostanze velenose. Annusava, ma senza trarne alcuna sensazione. “Potrei citarti molte sostanze vegetali (e anche minerali) che provocano tracce di questo tipo. Alcune letali, altre no. I miniatori hanno talora le dita sporche di polvere d'oro...”
“Adelmo faceva il miniatore,” disse Guglielmo. “Immagino che di fronte al suo corpo sfracellato tu non abbia pensato a esaminargli le dita. Ma costoro potrebbero aver toccato qualcosa che era appartenuto ad Adelmo.”
“Proprio non so,” disse Severino. “Due morti, entrambi con le dita nere. Cosa ne deduci?”
“Non ne deduco nulla: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam.
Bisognerebbe ricondurre entrambi i casi a una regola. Per esempio: esiste una sostanza che annerisce le dita di chi la tocca...”
Terminai trionfante il sillogismo: “...Venanzio e Berengario hanno le dita annerite, ergo hanno toccato questa sostanza!”
“Bravo Adso,” disse Guglielmo, “peccato che il tuo sillogismo non sia valido, perché aut semel aut iterum medium generaliter esto, e in questo sillogismo il termine medio non appare mai come generale. Segno che abbiamo scelto male la premessa maggiore. Non dovevo dire: tutti coloro che toccano una certa sostanza hanno le dita nere, perché potrebbero esserci anche persone con le dita nere e che non han toccato la sostanza. Dovevo dire: tutti coloro e solo tutti coloro che han le dita nere hanno certamente toccato una data sostanza. Venanzio e Berengario, eccetera.
Col che avremmo un Darii, un ottimo terzo sillogismo di prima figura.”
“Allora abbiamo la risposta!” dissi tutto contento.
“Ahimè Adso, come ti fidi dei sillogismi! Abbiamo solo e di nuovo la domanda. Cioè abbiamo fatto l'ipotesi che Venanzio e Berengario abbiano toccato la stessa cosa, ipotesi senz'altro ragionevole. Ma una volta che abbiamo immaginato una sostanza che, sola tra tutte, provoca questo risultato (il che è ancora da appurare) non sappiamo quale sia e dove coloro l'abbian trovata, e perché l'abbian toccata. E
bada bene, non sappiamo neppure se è poi la sostanza che han toccato, quella che li ha condotti a morte. Immagina che un folle volesse uccidere tutti coloro che toccano della polvere d'oro. Diremmo che è la polvere d'oro che uccide?”
Rimasi turbato. Avevo sempre creduto che la logica fosse un'arma universale, e mi accorgevo ora di come la sua validità dipendesse dal modo in cui la si usava.
D'altra parte, frequentando il mio maestro mi ero reso conto, e sempre più me ne resi conto nei giorni che seguirono, che la logica poteva servire a molto a condizione di entrarci dentro e poi di uscirne.
Severino, che certo non era un buon logico, frattanto rifletteva secondo la propria esperienza: “L'universo dei veleni è vario come vari sono i misteri della natura,” disse. Indicò una serie di vasi e ampolle che già una volta avevamo ammirato, disposti in bell'ordine negli scaffali lungo i muri, insieme a molti volumi.”Come ti ho già detto, molte di queste erbe, dovutamente composte e dosate, potrebbero dar luogo a bevande e a unguenti mortali. Ecco laggiù, datura stramonium, belladonna, cicuta: possono dare la sonnolenza, l'eccitazione, o entrambe; somministrate con cautela sono ottimi medicamenti, in dosi eccessive portano alla morte. Laggiù c'è la fava di sant'Ignazio, l'angostura pseudo ferruginea, la nux vomica, che potrebbero togliere il respiro...”
“Ma nessuna di queste sostanze lascerebbe segni sulle dita?”
“Nessuna, credo. Poi ci sono sostanze che diventano pericolose solo se ingerite e altre che agiscono invece sulla pelle. L'elleboro bianco può provocare vomiti in chi l'afferra per strapparlo dalla terra. Ci sono delle begonie che quando sono in fiore provocano ebbrezza nei giardinieri che le toccano, come se avessero bevuto del vino.
L'elleboro nero, al solo toccarlo, provoca la diarrea. Altre piante danno palpitazioni di cuore, altre alla testa, altre ancora tolgono la voce. Invece il veleno della vipera,
applicato alla pelle senza penetrare nel sangue, produce solo una leggera irritazione...
Ma una volta mi fu mostrato un composto che, applicato alla parte interna delle cosce di un cane, vicino ai genitali, porta l'animale a morire in breve tempo tra convulsioni atroci, con le membra che piano piano si irrigidiscono...”
“Sai molte cose sui veleni,” osservò Guglielmo con un tono di voce che pareva ammirato. Severino lo fissò e ne sostenne lo sguardo per qualche istante: “So quello che un medico, un erborista, un cultore di scienze dell'umana salute deve sapere.”
Guglielmo restò a lungo sovrappensiero. Poi pregò Severino di aprire la bocca del cadavere, e di osservarne la lingua. Severino, incuriosito, usò una spatola sottile, uno degli strumenti della sua arte medica, ed eseguì. Ebbe un grido di stupore: “La lingua è nera!”
“E' così allora,” mormorò Guglielmo. “Ha afferrato qualcosa con le dita e lo ha ingerito... Questo elimina i veleni che hai citato prima, che uccidono penetrando attraverso la pelle. Ma non rende più facili le nostre induzioni. Perché ora dobbiamo pensare, per lui e per Venanzio, a un gesto volontario, non casuale, non dovuto a distrazione o a imprudenza, né indotto con la violenza. Hanno afferrato qualcosa e lo hanno introdotto in bocca, sapendo cosa facevano...”
“Un cibo? Una bevanda?”
“Forse. O forse... che so? uno strumento musicale come un flauto...”
“Assurdo,” disse Severino.
“Certo che è assurdo. Ma non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi, per straordinaria che sia. Ma ora cerchiamo di risalire alla materia venefica. Se qualcuno che conosca i veleni quanto te si fosse introdotto qui e avesse usato alcune di queste tue erbe, avrebbe potuto comporre un unguento mortale capace di produrre quei segni sulle dita e sulla lingua? Capace di essere posto in un cibo, in una bevanda, su un cucchiaio, su qualcosa che si mette in bocca?”
“Sì,” ammise Severino, “ma chi? E poi, anche ammessa questa ipotesi, come sarebbe stato propinato il veleno ai nostri due poveri confratelli?”
Francamente anch'io non riuscivo a immaginarmi Venanzio o Berengario che si lasciavano avvicinare da qualcuno che porgeva loro una sostanza misteriosa convincendoli a mangiarla o a berla. Ma Guglielmo non parve turbato da questa stranezza. “A questo penseremo dopo,” disse, “perché ora vorrei che tu cercassi di ricordare qualche fatto che forse non ti è ancora ritornato alla mente, non so, qualcuno che ti abbia fatto domande sulle tue erbe, qualcuno che entri con facilità nell'ospedale...”
“Un momento,” disse Severino, “molto tempo fa, parlo di anni, conservavo in uno di quegli scaffali una sostanza molto potente, che mi era stata data da un confratello che aveva viaggiato in paesi lontani. Non sapeva dirmi di cosa fosse fatta, certo di erbe, e non tutte note. Era, all'apparenza, vischiosa e giallastra, ma mi fu consigliato di non toccarla, perché se fosse venuta anche solo in contatto con le mie labbra mi avrebbe ucciso in breve tempo. Il confratello mi disse che, ingerita anche in dosi minime, provocava nel volgere di mezz'ora un senso di grande spossatezza, poi una lenta paralisi di tutte le membra, e infine la morte. Non voleva portarla con sé e me ne fece dono. La tenni a lungo, perché mi proponevo di esaminarla in qualche
modo. Poi un giorno venne sul pianoro una grande bufera. Uno dei miei aiutanti, un novizio, aveva lasciata aperta la porta dell'ospedale, e l'uragano aveva sconvolto tutta la stanza in cui ora siamo. Ampolle rotte, liquidi sparsi sul pavimento, erbe e polveri disperse. Lavorai un giorno a rimettere in ordine le mie cose, e mi feci aiutare solo per spazzare via i cocci e le erbe ormai irrecuperabili. Alla fine mi accorsi che mancava proprio l'ampolla di cui ti parlavo. Dapprima mi preoccupai, poi mi convinsi che si era infranta e confusa con altri detriti. Feci lavare bene il pavimento dell'ospedale, e gli scaffali...”
“E avevi visto l'ampolla poche ore prima dell'uragano?”
“Sì... O meglio, no, ora che ci penso. Stava dietro una fila di vasi, ben nascosta, e non la controllavo ogni giorno...”
“Quindi, per quanto ne sai, avrebbe potuto esserti sottratta anche molto tempo prima dell'uragano, senza che tu lo sapessi?”
“Ora che mi ci fai riflettere, sì, indubbiamente.”
“E quel tuo novizio potrebbe averla sottratta e poi potrebbe aver colto il destro dell'uragano per lasciare di proposito la porta aperta e mettere confusione tra le tue cose.”
Severino apparve molto eccitato: “Certo, sì. Non solo, ma ricordando quanto avvenne, mi stupii molto che l'uragano, per quanto violento, avesse rovesciato tante cose. Potrei benissimo dire che qualcuno ha approfittato dell'uragano per sconvolgere la stanza e produrre più danni di quanto il vento non avesse potuto fare!”
“Chi era il novizio?”
“Si chiamava Agostino. Ma è morto l'anno scorso, cadendo da una impalcatura mentre con altri monaci e famigli ripuliva le sculture della facciata della chiesa. E
poi, a ben pensarci, lui aveva giurato e spergiurato di non aver lasciata aperta la porta prima dell'uragano. Fui io, infuriato, che lo ritenni responsabile dell'incidente. Forse era davvero innocente.”
“E così abbiamo una terza persona, magari ben più esperta di un novizio, che era a conoscenza del tuo veleno. A chi ne avevi parlato?”
“Questo proprio non lo ricordo. All'Abate, certo, chiedendogli il permesso di trattenere una sostanza così pericolosa. E a qualcun altro, forse proprio in biblioteca, perché cercavo degli erbari che mi potessero rivelare qualcosa.”
“Ma non mi hai detto che trattieni presso di te i libri più utili alla tua arte?”
“Sì, e molti,” disse indicando in un angolo della stanza alcuni scaffali carichi di decine di volumi. “Ma allora cercavo certi libri che non potrei trattenere e che anzi Malachia era restio a farmi vedere tanto che dovetti chiederne l'autorizzazione all'Abate.” La sua voce si abbassò e quasi ebbe ritegno a farsi udire da me. “Sai, in un luogo ignoto della biblioteca si conservano anche opere di negromanzia, di magìa nera, ricette di filtri diabolici. Potei consultare alcune di queste opere, per dovere di conoscenza, e speravo di trovare una descrizione di quel veleno e delle sue funzioni.
Invano.”
“Quindi ne hai parlato a Malachia.”
“Certo, senz'altro a lui, e forse anche allo stesso Berengario che lo assisteva.
Ma non trarre conclusioni affrettate: non ricordo, forse mentre parlavo erano presenti altri monaci, sai, talora lo scriptorium è abbastanza affollato...”
“Non sto sospettando di nessuno. Cerco solo di capire cosa può essere accaduto. In ogni caso mi dici che il fatto avvenne qualche anno fa, ed è curioso che qualcuno abbia sottratto con tanto anticipo un veleno che avrebbe poi usato tanto tempo dopo. Sarebbe indizio di una volontà maligna che ha covato a lungo nell'ombra un proposito omicida.”
Severino si segnò con una espressione di orrore sul volto.”Dio ci perdoni tutti!” disse.
Non c'erano altri commenti da fare. Ricoprimmo il corpo di Berengario, che avrebbe dovuto essere preparato per le esequie.
Quarto giorno
Prima
Dove Guglielmo induce prima Salvatore e poi il cellario
a confessare il loro passato, Severino ritrova le lenti rubate, Nicola porta quelle nuove e Guglielmo con sei occhi va
a decifrare il manoscritto di Venanzio
Stavamo uscendo quando entrò Malachia. Parve contrariato dalla nostra presenza, e accennò a ritirarsi. Dall'interno Severino lo vide e disse: “Mi cercavi? E'
per...” S'interruppe, guardandoci. Malachia gli fece un cenno, impercettibile, come per dire: “Parliamone dopo...” Noi stavamo uscendo, lui stava entrando, ci trovammo tutti e tre nel vano della porta. Malachia disse, in modo piuttosto ridondante:
“Cercavo il fratello erborista... Ho... ho male al capo.”
“Deve essere l'aria chiusa della biblioteca,” gli disse Guglielmo con tono di premurosa comprensione.”Dovreste fare dei suffumigi.”
Malachia mosse le labbra come se volesse ancora parlare, poi rinunziò, abbassò il capo ed entrò, mentre noi ci allontanavamo.
“Cosa va a fare da Severino?” domandai.
“Adso,” mi disse con impazienza il maestro,”impara a ragionare con la tua testa.” Poi cambiò discorso: “Dobbiamo interrogare alcune persone, ora. Almeno,”
aggiunse mentre con lo sguardo esplorava il pianoro,”sino a che sono ancora vive. A proposito: d'ora in poi facciamo attenzione a ciò che mangiamo e beviamo. Prendi sempre i tuoi cibi dal piatto comune, e le tue bevande dalla brocca a cui abbiano già attinto gli altri. Dopo Berengario siamo coloro che sanno più cose. Oltre, naturalmente, all'assassino.”
“Ma chi volete interrogare ora?”
“Adso,” disse Guglielmo,”avrai osservato che qui le cose più interessanti avvengono di notte. Di notte si muore, di notte si gira per lo scriptorium, di notte si introducono donne nella cinta... Abbiamo un'abbazia diurna e un'abbazia notturna, e quella notturna pare sciaguratamente più interessante di quella diurna. Pertanto, ogni persona che si aggiri di notte ci interessa, compreso per esempio l'uomo che hai visto ieri sera con la fanciulla. Magari la storia della fanciulla non ha nulla a che vedere con quella dei veleni, e magari sì. In ogni caso ho delle idee sull'uomo di ieri sera, che deve essere persona che sa anche altre cose sulla vita notturna di questo santo luogo. E, lupo nella favola, eccolo per l'appunto che sta passando laggiù.”
Mi additò Salvatore, il quale ci aveva visto a sua volta. Notai una lieve esitazione nel suo passo come se, desiderando evitarci, si fosse arrestato per invertire il cammino. Fu un attimo. Evidentemente si era reso conto che non poteva sottrarsi all'incontro, e riprese la sua marcia. Si rivolse a noi con un vasto sorriso e
un”benedicite” alquanto untuoso. Il mio maestro quasi non lo lasciò finire e gli parlò in tono brusco.
“Sai che domani arriva qui l'inquisizione?” gli domandò.
Salvatore non ne parve contento. Con un filo di voce chiese: “E mi?”
“E tu farai bene a dire la verità a me, che sono amico tuo, e sono frate minore come tu sei stato, piuttosto che dirla domani a quelli, che conosci benissimo.”
Assalito così bruscamente, Salvatore parve abbandonare ogni resistenza.
Guardò con aria sottomessa Guglielmo come per fargli capire che era pronto a dirgli quel che gli avesse chiesto.
“Questa notte c'era in cucina una donna. Chi era con lei?”
“Oh, femena che vendese como mercandia, no po' unca bon essere, nì aver cortesia,” recitò Salvatore.
“Non voglio sapere se era una brava ragazza. Voglio sapere chi c'era con lei!”
“Deu, quanto son le femene de malveci scaltride! Pensano dì e note como l'omo schernisca...”
Guglielmo lo afferrò bruscamente per il petto: “Chi c'era con lei, tu o il cellario?”
Salvatore capì che non poteva mentire più a lungo. Cominciò a raccontare una strana storia, dalla quale faticosamente apprendemmo che lui, per compiacere il cellario, gli procacciava ragazze al villaggio, facendole entrare nottetempo nella cinta per vie che non ci volle dire. Ma spergiurò che agiva per puro buon cuore, lasciando trasparire un comico rammarico per il fatto che non trovava modo di trarne anche il suo piacere, in modo che la ragazza, dopo aver accontentato il cellario, desse qualcosa anche a lui. Disse tutto questo con viscidi e lubrichi sorrisi, e ammicchii, come a lasciar intendere che parlava a uomini fatti di carne, adusi alle stesse pratiche.
E mi guardava di sottecchi, né io potevo rintuzzarlo come avrei voluto, perché mi sentivo legato a lui da un segreto comune, suo complice e compagno di peccato.
Guglielmo decise a quel punto di tentare il tutto per tutto. Gli chiese di colpo:
“Hai conosciuto Remigio prima o dopo essere stato con Dolcino?” Salvatore gli si inginocchiò ai piedi pregandolo tra le lacrime di non volerlo perdere e di salvarlo dall'inquisizione, Guglielmo gli giurò solennemente di non dire a nessuno quanto avrebbe saputo, e Salvatore non esitò a consegnare il cellario alla nostra mercé. Si erano conosciuti alla Parete Calva, entrambi della banda di Dolcino, col cellario era fuggito ed entrato nel convento di Casale, con lui si era trasferito tra i cluniacensi.
Biascicava implorazioni di perdono, ed era chiaro che da lui non si sarebbe potuto sapere di più. Guglielmo decise che valeva la pena di prendere di sorpresa Remigio, e lasciò Salvatore, che corse a rifugiarsi in chiesa.
Il cellario era dalla parte opposta dell'abbazia, davanti ai granai, e stava contrattando con alcuni villici della valle. Ci guardò con apprensione, e cercò di mostrarsi molto indaffarato, ma Guglielmo insistette per parlare con lui. Sino ad allora avevamo avuto con quell'uomo pochi contatti; lui era stato cortese con noi, noi con lui. Quella mattina Guglielmo gli si rivolse come avrebbe fatto con un confratello del suo ordine. Il cellario parve imbarazzato di quella confidenza e rispose da principio con molta prudenza.
“Per le ragioni del tuo ufficio tu sei evidentemente costretto ad aggirarti per l'abbazia anche quando gli altri dormono, immagino,” disse Guglielmo.
“Dipende,” rispose Remigio,”talora vi sono piccole faccende da sbrigare e vi debbo dedicare qualche ora di sonno.”
“Non ti è accaduto nulla, in questi casi, che possa indicarci chi si aggirasse, senza avere le tue giustificazioni, tra la cucina e la biblioteca?”
“Se avessi visto qualcosa l'avrei detto all'Abate.”
“Giusto,” convenne Guglielmo, e cambiò bruscamente discorso: “Il villaggio a valle non è molto ricco, vero?”
“Sì e no,” rispose Remigio,”vi abitano dei prebendari che dipendono dall'abbazia e costoro condividono la nostra ricchezza, nelle annate grasse. Per esempio il giorno di San Giovanni hanno ricevuto dodici moggi di malto, un cavallo, sette buoi, un toro, quattro giovenche, cinque vitelli, venti pecore, quindici maiali, cinquanta polli e diciassette alveari. E poi venti maiali affumicati, ventisette forme di strutto, mezza misura di miele, tre misure di sapone, una rete da pesca...”
“Ho capito, ho capito,” interruppe Guglielmo,”ma ammetterai che questo non mi dice ancora quale sia la situazione del villaggio, quali tra gli abitanti siano prebendari dell'abbazia, e quanta terra abbia da coltivare in proprio chi non è prebendario...”
“Oh, per questo,” disse Remigio,”una famiglia normale laggiù possiede anche cinquanta tavole di terreno.”
“Quanto è una tavola?”
“Naturalmente, quattro trabucchi quadri.”
“Trabucchi quadri? Quanto sono?”
“Trentasei piedi quadri a trabucco. O sei vuoi, ottocento trabucchi lineari fanno un miglio piemontese. E calcola che una famiglia - nelle terre verso mezzanotte - può coltivare olivi per almeno mezzo sacco di olio.”
“Mezzo sacco?”
“Sì, un sacco fa cinque emine, e una emina fa otto coppe.”
“Ho capito,” disse scoraggiato il mio maestro.”Ogni paese ha le sue misure.
Voi per esempio il vino lo misurate a boccali?”
“O a rubbie. Sei rubbie, una brenta e otto brente un bottale. Se vuoi, un rubbo è di sei pinte da due boccali.”
“Credo di aver le idee chiare,” disse Guglielmo rassegnato.
“Desideri sapere altro?” chiese Remigio, con un tono che mi parve di sfida.
“Sì! Ti domandavo su come vivano a valle, perché meditavo oggi in biblioteca sulle prediche alle donne di Umberto da Romans, e in particolare su quel capitolo Ad mulieres pauperes in villulis. Dove dice che esse più di altre sono tentate ai peccati della carne, a causa della loro miseria, e saggiamente dice che esse peccant enim mortaliter, cum peccant cum quocumque laico, mortalius vero quando cum Clerico in sacris ordinibus constituto, maxime vero quando cum Religioso mundo mortuo. Tu sai meglio di me che anche in luoghi santi come le abbazie le tentazioni del demone meridiano non mancano mai. Mi chiedevo se nei tuoi contatti con la gente del
villaggio fossi venuto ad apprendere che alcuni monaci, Dio non volesse, abbiano indotto alcune fanciulle in fornicazione.”
Benché il mio maestro dicesse queste cose con tono quasi distratto, il mio lettore avrà capito come quelle parole turbassero il povero cellario. Non so dire se impallidì, ma dirò che tanto mi attendevo che impallidisse che lo vidi impallidire.
“Mi chiedi cose che, se le sapessi, avrei già detto all'Abate,” rispose umilmente.”In ogni caso se, come immagino, queste notizie servono alla tua indagine, non ti tacerò nulla di quanto possa apprendere. Anzi, ora che mi fai pensare, a proposito della tua prima domanda... La notte in cui morì il povero Adelmo, io circolavo per la corte... sai, una storia di galline... voci che avevo raccolto su un qualche maniscalco che nottetempo andava a rubacchiare nel pollaio... Ecco, quella notte mi accadde di vedere - da lontano, non potrei giurare - Berengario che rientrava al dormitorio costeggiando il coro, come se provenisse dall'Edificio... Non me ne stupii, perché tra i monaci si mormorava da tempo su Berengario, forse l'hai saputo...”
“No, dimmi.”
“Bene, come dire? Berengario era sospettato di nutrire passioni che... non si convengono a un monaco...”
“Vuoi forse suggerirmi che aveva rapporti con ragazze del villaggio, come ti stavo domandando?”
Il cellario tossì imbarazzato, ed ebbe un sorriso piuttosto laido: “Oh no...
passioni ancora più sconvenienti...”
“Perché un monaco che si diletti carnalmente con fanciulle del villaggio esercita invece passioni in qualche modo convenienti?”
“Non ho detto questo, ma tu mi insegni che c'è una gerarchia nella depravazione come c'è nella virtù. La carne può essere tentata secondo natura e...
contro natura.”
“Tu mi stai dicendo che Berengario era mosso da desideri carnali per uomini del suo sesso?”
“Io dico che così si mormorava di lui... Ti comunicavo queste cose come prova della mia sincerità e della mia buona volontà...”
“E io ti ringrazio. E convengo con te che il peccato di sodomia è ben peggiore di altre forme di lussuria, sulle quali francamente non sono portato a investigare...”
“Miserie, miserie, quand'anche si verificassero,” disse con filosofa il cellario.
“Miserie, Remigio. Siamo tutti peccatori. Non cercherei mai la pagliuzza nell'occhio del fratello, tanto temo di avere una gran trave nel mio. Ma ti sarò grato per tutte le travi di cui mi vorrai parlare in futuro. Così ci intratterremo su grandi e robusti tronchi di legno e lasceremo che le pagliuzze volteggino nell'aria. Quanto dicevi che è un trabucco?”
“Trentasei piedi quadri. Ma non affannarti. Quando vorrai sapere qualcosa di preciso verrai da me. Fai conto di avere in me un amico fedele.”
“Tale io ti considero,” disse Guglielmo con calore.”Ubertino mi ha detto che un tempo appartenevi al mio stesso ordine. Non tradirei mai un antico confratello, specie in questi giorni in cui si sta attendendo l'arrivo di una legazione pontificia
condotta da un grande inquisitore, famoso per aver bruciato tanti dolciniani. Dicevi che un trabucco fa trentasei piedi quadri?”
Il cellario non era uno sciocco. Decise che non valeva più la pena di giocare al gatto e al topo, tanto più che si accorgeva di essere il topo.
“Frate Guglielmo,” disse, “vedo che tu sai molte più cose di quanto io non immaginassi. Non tradirmi, e io non ti tradirò. E' vero, sono un povero uomo carnale, e cedo alle lusinghe della carne. Salvatore mi ha detto che tu o il tuo novizio ieri sera li avete sorpresi in cucina. Tu hai viaggiato molto Guglielmo, sai che neppure i cardinali di Avignone sono modelli di virtù. So che non è per questi piccoli e miserabili peccati che stai interrogandomi. Ma capisco anche che hai appreso qualcosa sulla mia storia di un tempo. Ho avuto una vita bizzarra, come accadde a molti di noi minoriti. Anni fa ho creduto nell'ideale di povertà, ho abbandonato la comunità per darmi a vita randagia. Ho creduto alla predicazione di Dolcino, come molti altri come me. Non sono un uomo colto, ho ricevuto gli ordini ma so appena dir messa. So poco di teologia. E forse non riesco neppure ad affezionarmi alle idee.
Vedi, un tempo ho tentato di ribellarmi ai signori, ora li servo e per il signore di queste terre comando a quelli come me. O ribellarsi o tradire, è data poca scelta a noi semplici.”
“Talora i semplici capiscono le cose meglio dei dotti,” disse Guglielmo.
“Forse,” rispose il cellario con una alzata di spalle.”Ma non so neppure perché ho fatto quello che ho fatto, allora. Vedi, per Salvatore era comprensibile, veniva dai servi della gleba, da una infanzia di carestie e di malattie... Dolcino rappresentava la ribellione, e la distruzione dei signori. Per me è stato diverso, ero di famiglia cittadina, non sfuggivo alla fame. E' stata... non so come dire, una festa dei folli, un bel carnevale... Sui monti con Dolcino, prima che fossimo ridotti a mangiare la carne dei nostri compagni morti in battaglia, prima che ne morissero tanti di stenti che non si poteva mangiarli tutti, e si gettavano in pasto agli uccelli e alle fiere sulle pendici del Rebello... o forse anche in questi momenti... respiravamo un'aria... posso dire di libertà? Non sapevo prima cosa fosse la libertà, i predicatori ci dicevano: «La verità vi farà liberi.» Ci sentivamo liberi, pensavamo che fosse la verità. Pensavamo che tutto quello che facevamo fosse giusto...”
“E laggiù avete preso... a unirvi liberamente con una donna?” chiesi, e non so neppure perché, ma mi ossessionavano dalla notte innanzi le parole di Ubertino, e quello che avevo letto nello scriptorium, e gli stessi casi che mi erano accaduti.
Guglielmo mi guardò incuriosito, probabilmente non si attendeva che fossi così ardimentoso, e impudente. Il cellario mi fissò come se fossi uno strano animale.
“Sul Rebello,” disse, “c'era gente che per tutta l'infanzia avevan dormito, in dieci e più, in pochi cubiti di stanza, fratelli e sorelle, padri e figlie. Cosa vuoi che fosse per loro accettare questa nuova situazione? Facevano per elezione quello che prima avevano fatto per necessità. E poi di notte, quando temi l'arrivo delle squadre nemiche e ti stringi vicino al tuo compagno, sulla terra, per non sentire freddo... Gli eretici: voi monacelli che venite da un castello e finite in una abbazia, credete che sia un modo di pensare, ispirato dal demonio. Invece è un modo di vivere, ed è... ed è stata... una esperienza nuova... Non c'erano più padroni e Dio, ci dicevano, era con
noi. Non dico che avessimo ragione, Guglielmo, e infatti mi vedi qui, perché li abbandonai ben presto. Ma è che non ho mai capito le vostre dispute dotte sulla povertà di Cristo e l'uso e il fatto e il diritto... Te l'ho detto, è stato un gran carnevale, e a carnevale si fanno le cose alla rovescia. Poi diventi vecchio, non diventi saggio, ma diventi ghiottone. E qui faccio il ghiottone... Puoi condannare un eretico, ma vuoi condannare un ghiottone?”
“Basta così, Remigio,” disse Guglielmo.”Non ti interrogo per quello che è successo allora, ma per quello che è accaduto di recente. Aiutami, e io non cercherò certo la tua rovina. Non posso e non voglio giudicarti. Ma mi devi dire cosa sai sui fatti dell'abbazia. Giri troppo, di notte e di giorno, per non sapere qualcosa. Chi ha ucciso Venanzio?”
“Non lo so, te lo giuro. So quando è morto, e dove.”
“Quando? Dove?”
“Lasciami raccontare. Quella notte, un'ora dopo compieta, sono entrato in cucina...”
“Da dove, e per quali ragioni?”
“Dalla porta verso l'orto. Ho una chiave che da tempo mi son fatto fare dai fabbri. La porta della cucina è l'unica che non sia sbarrata dall'interno. E le ragioni...
non contano, hai detto tu stesso che non vuoi accusarmi per le debolezze della mia carne...” Sorrise imbarazzato.”Ma non vorrei nemmeno che credessi che passo i miei giorni nella fornicazione... Quella sera cercavo cibo da regalare alla ragazza che Salvatore doveva far entrare nella cinta...”
“Da dove?”
“Oh, la cinta delle mura ha altre entrate, oltre al portale. Le conosce l'Abate, le conosco io... Ma quella sera la ragazza non venne, la rimandai indietro proprio a causa di quello che scoprii, e che sto per raccontarti. Ecco perché tentai di farla tornare ieri notte. Se voi foste giunti un poco dopo avreste trovato me invece di Salvatore, fu lui ad avvertirmi che c'era gente nell'Edificio, e io tornai nella mia cella...”
“Torniamo alla notte tra domenica e lunedì.”
“Ecco: io entrai in cucina e vidi per terra Venanzio, morto.”
“In cucina?”
“Sì, vicino all'acquaio. Forse era appena disceso dallo scriptorium.”
“Nessuna traccia di lotta?”
“Nessuna. O meglio, vicino al corpo c'era una tazza infranta, e segni di acqua per terra.”
“Perché sai che era acqua?”
“Non lo so. Ho pensato che fosse acqua. Cosa poteva essere?”
Come Guglielmo mi fece osservare dopo, quella tazza poteva significare due cose diverse. O proprio lì in cucina qualcuno aveva dato da bere a Venanzio una pozione velenosa, o il poveretto aveva già ingerito il veleno (ma dove? e quando?) ed era sceso a bere per calmare una improvvisa arsura, uno spasimo, un dolore che gli bruciava le viscere, o la lingua (ché certamente la sua doveva essere nera come quella di Berengario).
In ogni caso per il momento non si poteva sapere di più. Scorto il cadavere, e terrorizzato, Remigio si era chiesto cosa fare, e aveva risolto di non fare nulla. A chiedere soccorso, avrebbe dovuto ammettere di aver vagato durante la notte per l'Edificio, né avrebbe giovato al confratello ormai perduto. Pertanto aveva risolto di lasciare le cose così come erano, attendendo che qualcuno scoprisse il corpo il mattino dopo, all'apertura delle porte. Era corso a trattenere Salvatore, che già stava facendo penetrare la ragazza nell'abbazia, poi - lui e il suo complice - se ne erano tornati a dormire, se mai sonno si poteva chiamare la veglia agitata che ebbero sino a mattutino. E a mattutino, quando i porcai vennero ad avvertire l'Abate, Remigio credeva che il cadavere fosse stato scoperto dove lui l'aveva lasciato, ed era rimasto allibito scoprendolo nella giara. Chi aveva fatto sparire il cadavere dalla cucina? Su questo Remigio non aveva nessuna idea.
“L'unico che può muoversi liberamente per l'Edificio è Malachia,” disse Guglielmo.
Il cellario reagì con energia: “No, Malachia no. Cioè, non credo... In ogni caso non sono io che ti ho detto qualcosa contro Malachia...”
“Stai tranquillo, qualsiasi sia il debito che ti lega a Malachia. Sa qualcosa di te?”
“Sì,” arrossì il cellario, “e si è comportato da uomo discreto. Fossi in te io sorveglierei Bencio. Aveva strani legami con Berengario e Venanzio... Ma ti giuro, non ho visto altro. Se saprò qualcosa te lo dirò.”
“Per ora può bastare. Tornerò da te se ne avrò bisogno.” Il cellario, evidentemente sollevato, tornò ai suoi traffici, redarguendo aspramente i villici che frattanto avevano spostato non so quali sacchi di sementi.
In quel mentre ci raggiunse Severino. Portava in mano le lenti di Guglielmo, quelle che gli erano state sottratte due notti prima.”Li ho trovati nel saio di Berengario,” disse. “Li ho visti sul tuo naso, l'altro giorno in biblioteca. Sono i tuoi, vero?”
“Dio sia lodato,” esclamò gioiosamente Guglielmo.”Abbiamo risolto due problemi! Ho le mie lenti e so finalmente di sicuro che era Berengario l'uomo che ci derubò l'altra notte nello scriptorium!”
Avevamo appena finito di parlare che arrivò di corsa Nicola da Morimondo, più trionfante ancora di Guglielmo. Teneva nelle mani un paio di lenti finite, montate sulla loro forcella: “Guglielmo,” gridava,”ce l'ho fatta da solo, li ho finiti, credo che funzionino!” Poi vide che Guglielmo aveva altre lenti sul volto e rimase di sasso.
Guglielmo non volle umiliarlo, si tolse le sue vecchie lenti e misurò le nuove: “Sono migliori delle altre,” disse.”Vuol dire che terrò le vecchie di riserva, e porterò sempre le tue.” Poi si volse a me: “Adso, ora mi ritiro in cella a leggere quelle carte che sai.
Finalmente! Aspettami da qualche parte. E grazie, grazie a voi tutti fratelli carissimi.”
Suonava l'ora terza e mi portai in coro, a recitar con gli altri l'inno, i salmi, i versetti e il Kyrie. Gli altri pregavano per l'anima del morto Berengario. Io ringraziavo Iddio di averci fatto ritrovare non uno ma due paia di lenti.
Per la grande serenità, dimenticate tutte le brutture che avevo viste e udite, mi assopii, risvegliandomi quando l'ufficio ebbe termine. Mi resi conto che quella notte
non avevo dormito e mi turbai pensando che avevo anche usato molto delle mie forze. E a quel punto, uscito all'aperto, il mio pensiero cominciò a essere ossessionato dal ricordo della fanciulla.
Cercai di distrarmi, e mi misi a muovere in fretta per il pianoro. Provavo un senso di lieve vertigine. Battevo le mani intirizzite l'una contro l'altra. Pestavo i piedi per terra. Avevo ancora sonno, eppure mi sentivo sveglio e pieno di vita. Non capivo cosa mi stesse accadendo.
Quarto giorno
Terza
Dove Adso si dibatte nei patimenti d'amore, poi arriva
Guglielmo col testo di Venanzio, che continua a rimanere
indecifrabile anche dopo esser stato decifrato
In verità, dopo il mio incontro peccaminoso con la fanciulla, gli altri terribili avvenimenti mi avevano fatto quasi dimenticare quella vicenda, e d'altra parte, subito dopo essermi confessato a frate Guglielmo, il mio animo si era sgravato del rimorso che avevo avvertito al risveglio dopo il mio colpevole cedimento, tanto che mi era parso di aver consegnato al frate, con le parole, lo stesso fardello di cui esse erano la voce significativa. A che altro serve infatti il benefico lavacro della confessione, se non a scaricare il peso del peccato, e del rimorso che comporta, nel seno stesso di Nostro Signore, ottenendo con il perdono una nuova aerea leggerezza dell'anima, così da dimenticare il corpo martoriato dalla nequizia? Ma non di tutto mi ero liberato. Ora che passeggiavo al sole pallido e freddo di quella mattinata invernale, circondato dal fervore degli uomini e degli animali, cominciavo a ricordare gli avvenimenti passati in modo diverso. Come se di tutto quanto era accaduto non rimanessero più il pentimento e le parole consolatrici del lavacro penitenziale, ma solo immagini di corpi e di umane membra. Mi balzava alla mente sovreccitata il fantasma di Berengario gonfio di acqua, e rabbrividivo di ribrezzo e pietà. Poi come per fugare quel lemure, la mia mente si rivolgeva ad altre immagini di cui la memoria fosse fresco ricettacolo, e non potevo evitare di vedere, evidente ai miei occhi (agli occhi dell'anima, ma quasi come se apparisse innanzi agli occhi carnali), l'immagine della fanciulla, bella e terribile come esercito schierato in battaglia.
Mi sono ripromesso (vecchio amanuense di un testo mai scritto prima d'ora ma che per lunghi decenni ha parlato nella mia mente) di essere cronista fedele, e non solo per amore della verità, né per il desiderio (peraltro degnissimo) di ammaestrare i miei lettori futuri; ma anche per liberare la mia memoria appassita e stanca di visioni che per tutta la vita l'hanno affannata. E quindi devo dire tutto, con decenza ma senza vergogna. E devo dire, ora, e a chiare lettere, quello che allora pensai e quasi tentai di nascondere a me stesso, passeggiando per il pianoro, mettendomi talvolta a correre per potere attribuire al moto del corpo i battiti improvvisi del mio cuore, soffermandomi ad ammirare le opere dei villani e illudendomi di distrarmi nella loro contemplazione, aspirando l'aria fredda a pieni polmoni, come fa chi beve del vino per dimenticare timore o dolore.
Invano. Io pensavo alla fanciulla. La mia carne aveva dimenticato il piacere, intenso, peccaminoso e passeggero (cosa vile) che mi aveva dato il congiungermi con lei; ma la mia anima non aveva dimenticato il suo volto, e non riusciva a sentire
perverso questo ricordo, anzi palpitava come se in quel volto risplendessero tutte le dolcezze del creato.
Avvertivo, in modo confuso e quasi negando a me stesso la verità di quanto sentivo, che quella povera, lercia, impudente creatura che si vendeva (chissà con quanta proterva costanza) ad altri peccatori, quella figlia di Eva che, debolissima come tutte le sue sorelle, aveva tante volte fatto commercio della propria carne, era tuttavia un qualcosa di splendido e mirifico. Il mio intelletto la sapeva fomite di peccato, il mio appetito sensitivo l'avvertiva come ricettacolo di ogni grazia. E'
difficile dire cosa provassi. Potrei tentare di scrivere che, ancora preso dalle trame del peccato, desideravo, colpevolmente, di vederla apparire a ogni istante, e quasi spiavo il lavoro degli operai per scrutare se dall'angolo di una capanna, dal buio di una stalla, apparisse quella figura che mi aveva sedotto. Ma non scriverei il vero, oppure tenterei di porre un velo alla verità per attenuarne la forza e l'evidenza. Perché la verità è che io”vedevo” la fanciulla, la vedevo nei rami dell'albero spoglio che palpitavano leggermente quando un passero intirizzito volava a cercarvi rifugio; la vedevo negli occhi delle giovenche che uscivano dalla stalla, e la udivo nel belato degli agnelli che incrociavano il mio errare. Era come se tutto il creato mi parlasse di lei, e desideravo, sì, di rivederla, ma ero pur pronto ad accettare l'idea di non rivederla mai più, e di non congiungermi mai più con lei, purché potessi godere del gaudio che mi pervadeva quel mattino, e averla sempre vicina anche se fosse stata, e per l'eternità, lontana. Era, ora cerco di capire, come se tutto l'universo mondo, che chiaramente è quasi un libro scritto dal dito di Dio, in cui ogni cosa ci parla dell'immensa bontà del suo creatore, in cui ogni creatura è quasi scrittura e specchio della vita e della morte, in cui la più umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno, tutto insomma, di altro non mi parlasse se non del volto che avevo a mala pena intravisto nelle ombre odorose della cucina. Indulgevo a queste fantasie perché mi dicevo (o meglio non mi dicevo, perché in quel momento non formulavo pensieri traducibili in parole) che se il mondo intero è destinato a parlarmi della potenza, bontà, e saggezza del creatore, e se quel mattino il mondo intero mi parlava della fanciulla che (per peccatrice che fosse) era pur sempre un capitolo del gran libro del creato, un versetto del grande salmo cantato dal cosmo - mi dicevo (ora dico), che se questo avveniva non poteva non far parte del grande disegno teofanico che regge l'universo, disposto a modo di cetra, miracolo di consonanza e di armonia. Quasi inebriato, godevo allora della presenza di lei nelle cose che vedevo, e in esse desiderandola, nella vista di esse mi appagavo. E pure sentivo come un dolore, perché al tempo stesso soffrivo di un'assenza, pur essendo felice di tanti fantasmi di una presenza. Mi riesce difficile spiegare questo mistero di contraddizione, segno che l'animo umano è assai fragile e non procede mai dirittamente lungo i sentieri della ragione divina, che ha costruito il mondo come un perfetto sillogismo, ma di questo sillogismo coglie solo proposizioni isolate e sovente disconnesse, donde la nostra facilità a cadere vittima delle illusioni del maligno. Era illusione del maligno quella che quella mattina mi rendeva così commosso? Penso oggi che lo fosse, perché ero novizio, ma penso che l'umano sentimento che mi agitava non fosse cattivo in sé, ma solo in riferimento al mio stato. Perché di per sé era il sentimento che muove l'uomo
verso la donna affinché l'uno si congiunga con l'altra, come vuole l'apostolo delle genti, ed entrambi siano carne di una sola carne, e insieme procreino nuovi esseri umani e si assistano mutuamente dalla gioventù alla vecchiaia. Solo che l'apostolo così parlò per coloro che cercano il rimedio alla concupiscenza e a chi non voglia bruciare, ricordando però che ben più preferibile è lo stato di castità, a cui io monaco mi ero consacrato. E quindi io pativo quella mattina ciò che era male per me, ma per altri forse era bene, e bene dolcissimo, per cui ora capisco che il mio turbamento non era dovuto alla pravità dei miei pensieri, in sé degni e soavi, ma alla pravità del rapporto tra i miei pensieri e i voti che avevo pronunciato. E quindi facevo male a godere di una cosa buona sotto una certa ragione, cattiva sotto un'altra, e il mio difetto stava nel tentare di conciliare con l'appetito naturale i dettami dell'anima razionale. Ora so che soffrivo del contrasto tra l'appetito elicito intellettivo, dove avrebbe dovuto manifestarsi l'imperio della volontà, e l'appetito elicito sensitivo, soggetto delle umane passioni. Infatti actus appetiti sensitivi in quantum habent trasmutationem corporalem annexam, passiones dicuntur, non autem actus voluntatis.
E il mio atto appetitivo era per l'appunto accompagnato da un tremore di tutto il corpo, da un impulso fisico a gridare e ad agitarmi. L'angelico dottore dice che le passioni in sé non sono cattive, salvo che van moderate dalla volontà guidata dall'anima razionale. Ma la mia anima razionale era in quel mattino sopita dalla stanchezza la quale teneva a freno l'appetito irascibile, che si rivolge al bene e al male in quanto termini di conquista, ma non l'appetito concupiscibile, che si rivolge al bene e al male in quanto conosciuti. A giustificare la mia irresponsabile leggerezza di allora dirò oggi, e con le parole del dottore angelico, che ero indubbiamente preso di amore, che è passione ed è legge cosmica, perché anche la gravità dei corpi è amore naturale. E da questa passione ero naturalmente sedotto, perché in questa passione appetitus tendit in appetibile realiter consequendum ut sit ibi finis motus.
Per cui naturalmente amor facit quod ipsae res quae amantur, amanti aliquo modo uniantur et amor est magis cognitivus quam cognitio. Infatti io ora vedevo la fanciulla meglio di quanto l'avessi vista la sera prima, e la capivo intus et in cute perché in essa capivo me e in me essa stessa. Mi chiedo ora se quello che provavo fosse l'amore di amicizia, in cui il simile ama il simile e vuole solo il bene altrui, o amore di concupiscenza, in cui si vuole il proprio bene e il mancante vuole solo ciò che lo completa. E credo che amore di concupiscenza fosse stato quello della notte, in cui volevo dalla fanciulla qualcosa che non avevo mai avuto, mentre in quella mattina dalla fanciulla non volevo nulla, e volevo solo il suo bene, e desideravo che essa fosse sottratta alla crudele necessità che la piegava a darsi per poco cibo, e fosse felice, né volevo chiederle più nulla ma solo continuare a pensarla e vederla nelle pecore, nei buoi, negli alberi, nella luce serena che avvolgeva di gaudio la cinta dell'abbazia.
Ora so che causa dell'amore è il bene e ciò che è bene si definisce per conoscenza, e non si può amare se non ciò che si è appreso come bene, mentre la fanciulla l'avevo appresa, sì, come bene dell'appetito irascibile, ma come male della volontà. Ma allora ero in preda a tanti e tanto contrastanti moti dell'animo perché ciò che provavo era simile all'amore più santo proprio come lo descrivono i dottori: esso
mi produceva l'estasi, in cui amante e amato vogliono la stessa cosa (e per misteriosa illuminazione io in quel momento sapevo che la fanciulla, dovunque essa fosse, voleva le stesse cose che io stesso volevo), e per essa io provavo gelosia, ma non quella cattiva, condannata da Paolo nella prima ai corinzi, che è principium contentionis, e non ammette consortium in amato, ma quella di cui parla Dionigi nei Nomi Divini, per cui anche Dio è detto geloso propter multum amorem quem habet ad existentia (e io amavo la fanciulla proprio perché essa esisteva, ed ero lieto, non invidioso, che essa esistesse). Ero geloso nel modo in cui per l'angelico dottore la gelosia è motus in amatum, gelosia di amicizia che induce a muoversi contro tutto ciò che nuoce all'amato (e io altro non fantasticavo, in quell'istante, che di liberare la fanciulla dal potere di chi ne stava comprando le carni insozzandola con le proprie passioni nefaste).
Ora so, come dice il dottore, che l'amore può ledere l'amante quando sia eccessivo. E il mio era eccessivo. Ho tentato di spiegare cosa allora provassi, non tento per nulla di giustificare quanto provavo. Parlo di quelli che furono i miei colpevoli ardori di gioventù. Erano male, ma la verità mi impone di dire che allora li avvertii come estremamente buoni. E questo valga ad ammaestrare chi, come me, incapperà nelle reti della tentazione. Oggi, vegliardo, conoscerei mille modi di sfuggire a tali seduzioni (e mi chiedo quanto debba esserne fiero, dappoiché sono libero dalle tentazioni del demone meridiano; ma non libero da altre, tal che mi chiedo se quanto sto ora facendo non sia colpevole acquiescenza alla passione terrestre della rimemorazione, stolido tentativo di sfuggire al flusso del tempo, e alla morte).
Allora, mi salvai quasi per istinto miracoloso. La fanciulla mi appariva nella natura e nelle umane opere che mi circondavano. Cercai quindi, per felice intuito dell'anima, di immergermi nella distesa contemplazione di quelle opere. Osservai il lavoro dei vaccari che stavano portando i buoi fuori della stalla, dei porcai che recavano cibo ai maiali, dei pastori che aizzavano i cani a riunire le pecore, dei contadini che portavano farro e miglio ai mulini e ne uscivano con sacchi di buon cibo. Mi immersi nella contemplazione della natura, cercando di dimenticare i miei pensieri e cercando di guardare solo gli esseri come essi ci appaiono, e di obliarmi nella loro visione, giocondamente.
Come era bello lo spettacolo della natura non ancora toccato dalla sapienza, spesso perversa, dell'uomo!
Vidi l'agnello, a cui è stato dato questo nome quasi in riconoscimento della sua purezza e bontà. Infatti il nome agnus deriva dal fatto che questo animale agnoscit, riconosce la propria madre, e ne riconosce la voce in mezzo al gregge mentre la madre tra tanti agnelli d'identica forma e di identico belato riconosce sempre e soltanto il figlio suo, e lo nutre. Vidi la pecora, che ovis è detta ab oblatione perché serviva sin dai primi tempi ai riti sacrificali; la pecora che, come è suo costume, sul far dell'inverno, cerca l'erba con avidità e si riempie di foraggio prima che i pascoli siano bruciati dal gelo. E le greggi erano sorvegliate dai cani, così chiamati da canor a causa del loro latrato. Animale perfetto tra gli altri, con doti superiori di acutezza, il cane riconosce il proprio padrone, ed è addestrato alla caccia alle fiere nei boschi,
alla guardia delle greggi contro i lupi, protegge la casa e i piccoli del padrone suo, e talora in tale funzione di difesa viene ucciso. Il re Garamante, che era stato tradotto in prigionia dai suoi nemici, era stato riportato in patria da una muta di duecento cani che si fecero strada in mezzo alle schiere avversarie; il cane di Giasone Licio, dopo la morte del padrone, continuò a rifiutare cibo sino a morire d'inedia; quello del re Lisimaco si gettò sul rogo del proprio padrone per morire con lui. Il cane ha il potere di risanare le ferite lambendole con la lingua e la lingua dei suoi cuccioli può guarire le lesioni intestinali. Per natura è solito utilizzare due volte lo stesso cibo, dopo averlo vomitato. Sobrietà che è simbolo di perfezione di spirito, così come il potere taumaturgico della sua lingua è simbolo della purificazione dei peccati ottenuta attraverso la confessione e la penitenza. Ma che il cane ritorni a ciò che ha vomitato è anche segno che, dopo la confessione, si ritorna agli stessi peccati di prima, e questa moralità mi fu assai utile quel mattino per ammonire il mio cuore, mentre ammiravo le meraviglie della natura.
Frattanto il mio passo mi portava alle stalle dei buoi, che stavano uscendo in quantità guidati dai loro bovari. Mi parvero subito quali erano e sono, simboli di amicizia e bontà, perché ogni bue sul lavoro si volge a cercare il proprio compagno di aratro, se per caso esso in quel momento sia assente, e a esso si rivolge con affettuosi muggiti. I buoi imparano ubbidienti a ritornare da soli alla stalla quando piove, e quando si riparano alla greppia allungano continuamente il capo per guardare fuori se il maltempo sia cessato, perché ambiscono di ritornare al lavoro. E
coi buoi uscivano in quel momento dalle stalle i vitellini che, femmine e maschi, traggono il loro nome dalla parola viriditas o anche da virgo, perché a quella età essi sono ancora freschi, giovani e casti, e male avevo fatto e facevo, mi dissi, a vedere nelle loro movenze graziose una immagine della fanciulla non casta. A queste cose pensai, riappacificato col mondo e con me stesso, osservando il gaio lavoro dell'ora mattutina. E non pensai più alla fanciulla, ovvero mi sforzai di trasformare l'ardore che provavo per essa in un senso di interiore gaiezza e di pace devota. Mi dissi che il mondo era buono, e ammirevole. Che la bontà di Dio è manifestata anche dalle bestie più orride, come spiega Onorio Augustoduniense. E' vero, ci sono serpenti così grandi che divorano i cervi e nuotano attraverso l'oceano, vi è la bestia cenocroca dal corpo d'asino, le corna di stambecco, il petto e le fauci di leone, il piede di cavallo ma bisolco come quello del bue, un taglio della bocca che arriva sino alle orecchie, la voce quasi umana e al posto dei denti un solo solido osso. E vi è la bestia manticora, dal volto d'uomo, un triplice ordine di denti, il corpo di leone, la coda di scorpione, gli occhi glauchi, il colore di sangue e la voce simile al sibilo dei serpenti, ghiotta di carne umana. E vi son mostri con otto dita per piede, e musi di lupo, unghie adunche, pelle di pecora e latrato di cane, che diventano neri anziché bianchi con la vecchiaia, e di molto eccedono la nostra età. E vi sono creature con occhi sugli omeri e due fori sul petto in luogo di narici, perché mancano del capo, e altre ancora che abitano lungo il fiume Gange, che vivono solo dell'odore di un certo pomo, e quando se ne allontanano, muoiono. Ma anche tutte queste bestie immonde cantano nella loro varietà le lodi del Creatore e la sua saggezza, come il cane, il bue, la pecora, l'agnello e la lince. Come è grande, mi dissi allora, ripetendo le parole di Vincenzo
Belovacense, la più umile bellezza di questo mondo, e come piacevole è per l'occhio della ragione il considerare attentamente non solo i modi e i numeri e gli ordini delle cose, così decorosamente stabiliti per tutto l'universo, ma anche il volgere dei tempi che incessantemente si dipanano attraverso successioni e cadute, segnati dalla morte di ciò che è nato. Confesso, da quel peccatore che sono, con l'anima da poco ancora prigioniera della carne, che fui mosso allora da spirituale dolcezza verso il creatore e la regola di questo mondo, e ammirai con gioiosa venerazione la grandezza e la stabilità del creato.
In questa buona disposizione di spirito mi trovò il mio maestro quando, trascinato dai miei piedi e senza rendermene conto, compiuto quasi il periplo dell'abbazia, mi ritrovai dove ci eravamo lasciati due ore innanzi. Lì stava Guglielmo, e quanto mi disse mi distrasse dei miei pensieri e mi volse di nuovo la mente ai tenebrosi misteri dell'abbazia.
Guglielmo pareva molto contento. Aveva in mano il foglio di Venanzio, che finalmente aveva decifrato. Andammo nella sua cella, lontano da orecchie indiscrete, ed egli mi tradusse quello che aveva letto. Dopo la frase in alfabeto zodiacale (secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor), ecco cosa diceva il testo greco:
«Il veleno tremendo che dà la purificazione...
L'arma migliore per distruggere il nemico...
Usa le persone umili vili e brutte, trai piacere dal loro difetto...
Non debbono morire... Non nelle case dei nobili e dei potenti ma dai villaggi dei contadini, dopo abbondante pasto e libagioni... Corpi tozzi, visi deformi.
Stuprano vergini e giacciono con meretrici, non malvagi, senza timore.
Una verità diversa, una diversa immagine della verità...
I venerandi fichi.
La pietra svergognata rotola per la pianura... Sotto gli occhi.
Bisogna ingannare e sorprendere ingannando, dire le cose all'opposto di quanto si credeva, dire una cosa e intenderne un'altra.
A essi le cicale canteranno da terra.»
Niente altro. A mio giudizio, troppo poco, quasi nulla. Sembravano le farneticazioni di un demente, e lo dissi a Guglielmo.
“Potrebbe darsi. E appare senz'altro più demente di quanto non fosse a causa della mia traduzione. Conosco il greco abbastanza approssimativamente. E tuttavia, posto che Venanzio fosse pazzo, o fosse pazzo l'autore del libro, questo non ci direbbe perché tante persone, e non tutte pazze, si sono date da fare, prima per nascondere il libro e poi per recuperarlo...”
“Ma le cose che sono scritte qui, provengono dal libro misterioso?”
“Si tratta senz'altro di cose scritte da Venanzio. Lo vedi anche tu, non si tratta di una pergamena antica. E devono essere appunti presi leggendo il libro, altrimenti Venanzio non avrebbe scritto in greco. Egli ha certamente ricopiato, abbreviandole, delle frasi che ha trovato sul volume sottratto al finis Africae. Lo ha portato nello scriptorium e ha iniziato a leggerlo, annotando ciò che gli pareva degno di nota. Poi è
accaduto qualcosa. O si è sentito male, o ha udito qualcuno salire. Allora ha riposto il libro, con gli appunti, sotto al suo tavolo, probabilmente ripromettendosi di riprenderlo la sera dopo. In ogni caso è solo partendo da questo foglio che potremo ricostruire la natura del libro misterioso, ed è solo dalla natura di quel libro che sarà possibile inferire la natura dell'omicida. Perché in ogni delitto commesso per possedere un oggetto, la natura dell'oggetto dovrebbe fornirci una idea sia pur pallida della natura dell'assassino. Se si uccide per un pugno d'oro, l'assassino sarà persona avida, se per un libro, l'assassino sarà ansioso di custodire per sé i segreti di quel libro. Occorre dunque sapere cosa dice il libro che noi non abbiamo.”
“E voi sarete in grado, da queste poche righe, di capire di quale libro si tratta?”
“Caro Adso, queste sembrano le parole di un testo sacro, il cui significato va al di là della lettera. Leggendole stamattina, dopo che avevamo parlato con il cellario, mi ha colpito il fatto che anche qui si fa cenno ai semplici e ai contadini, come portatori di una verità diversa da quella dei saggi. Il cellario ha lasciato capire che qualche strana complicità lo legava a Malachia. Che Malachia avesse nascosto qualche pericoloso testo ereticale che Remigio gli aveva consegnato? Allora Venanzio avrebbe letto e annotato qualche misteriosa istruzione concernente una comunità di uomini rozzi e vili in rivolta contro tutto e tutti. Ma...”
“Ma?”
“Ma due fatti stanno contro questa mia ipotesi. L'uno è che Venanzio non pareva interessato a tali questioni: era un traduttore di testi greci, non un predicatore di eresie... L'altro è che frasi come quelle dei fichi, della pietra o delle cicale non verrebbero spiegate da questa prima ipotesi...”
“Forse sono enigmi con un altro significato,” suggerii.”Oppure avete un'altra ipotesi?”
“Ce l'ho, ma è ancora confusa. Mi pare, leggendo questa pagina, di avere già letto alcune di queste parole, e mi tornano alla mente frasi quasi simili che ho visto altrove. Mi pare anzi che questo foglio parli di qualcosa di cui si è già parlato nei giorni scorsi... Ma non ricordo cosa. Devo pensarci su. Forse dovrò leggere altri libri.”
“Come mai? Per sapere cosa dice un libro ne dovete leggere altri?”
“Talora si può fare così. Spesso i libri parlano di altri libri. Spesso un libro innocuo è come un seme, che fiorirà in un libro pericoloso, o all'inverso, è il frutto dolce di una radice amara. Non potresti, leggendo Alberto, sapere cosa avrebbe potuto dire Tommaso? O leggendo Tommaso sapere cosa avesse detto Averroè?”
“E' vero,” dissi ammirato. Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come si parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fatti tramite.
“Ma allora,” dissi, “a che serve nascondere i libri, se dai libri palesi si può risalire a quelli occulti?”
“Sull'arco dei secoli non serve a nulla. Sull'arco degli anni e dei giorni serve a qualcosa. Vedi infatti come noi ci troviamo smarriti.”
“E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l'apparizione?” chiesi stupito.
“Non sempre e non necessariamente. In questo caso lo è.”
Quarto giorno
Sesta
Dove Adso va a cercar tartufi e trova i minoriti in arrivo, questi colloquiano a lungo con Guglielmo e Ubertino
e si apprendono cose molto tristi su Giovanni XXII
Dopo queste considerazioni il mio maestro decise di non fare più nulla. Ho già detto che aveva talvolta di questi momenti di totale mancanza di attività, come se il ciclo incessante degli astri si fosse arrestato, ed egli con esso e con essi. Così fece quel mattino. Si distese sul pagliericcio con gli occhi aperti nel vuoto e le mani incrociate sul petto, muovendo appena le labbra come se recitasse una preghiera, ma in modo irregolare e senza devozione.
Pensai che pensasse, e risolsi di rispettare la sua meditazione. Tornai nella corte e vidi che il sole si era affievolito. Da bella e limpida che era, la mattinata (mentre il giorno stava avviandosi a consumare la sua prima metà) stava diventando umida e brumosa. Grosse nuvole muovevano da mezzanotte e stavano invadendo la sommità del pianoro coprendola di una caligine leggera. Pareva nebbia, e forse nebbia saliva anche da terra, ma a quella altezza era difficile distinguere le brume che venivano dal basso da quelle che scendevano dall'alto. Si incominciava a distinguere a fatica la mole degli edifici più lontani.
Vidi Severino che radunava i porcai e alcuni dei loro animali, con allegria. Mi disse che andavano lungo le falde del monte, e a valle, a cercare i tartufi. Io non conoscevo ancora quel frutto prelibato del sottobosco che cresceva in quella penisola, e sembrava tipico delle terre benedettine, vuoi a Norcia - nero - vuoi in quelle terre -
più bianco e profumato. Severino mi spiegò cosa fosse, e quanto fosse gustoso, preparato nei modi più vari. E mi disse che era difficilissimo da trovare, perché si nascondeva sotto la terra, più segreto di un fungo, e gli unici animali capaci di scovarlo seguendo il loro olfatto erano i porci. Salvo che, come lo trovavano, volevano divorarselo, e bisognava subito allontanarli e intervenire a dissotterrarlo.
Seppi più avanti che molti gentiluomini non sdegnavano darsi a quella caccia, seguendo i porci come fossero segugi nobilissimi, e seguiti a loro volta dai servi con le zappe. Ricordo anzi che più avanti negli anni un signore dei miei paesi sapendo che conoscevo l'Italia, mi chiese come mai aveva visto laggiù dei signori andare a pascolare i maiali, e io risi comprendendo che invece andavano in cerca di tartufi. Ma come io dissi a colui che questi signori ambivano a ritrovare il”tartufo” sotto la terra per poi mangiarselo, quello capì che io dicessi che cercavano”der Teufel”, ovvero il diavolo, e si segnò devotamente guardandomi sbalordito. Poi l'equivoco si sciolse e ne ridemmo entrambi. Tale è la magìa delle umane favelle, che per umano accordo significano spesso, con suoni eguali, cose diverse.
Incuriosito dai preparativi di Severino risolsi di seguirlo, anche perché compresi che egli si dava a quella cerca per dimenticare le tristi vicende che opprimevano tutti; e io pensai che aiutando lui a dimenticare i suoi pensieri avrei forse, se non scordato, almeno tenuto a freno i miei. Né nascondo, poiché ho deciso di scrivere sempre e solo la verità, che segretamente mi seduceva l'idea che, disceso a valle, avrei forse potuto intravvedere qualcuno di cui non dico. Ma a me stesso e quasi ad alta voce asserii invece che, siccome per quel giorno si attendeva l'arrivo delle due legazioni, avrei forse potuto avvistarne una.
Man mano che si scendevano i tornanti del monte, l'aria si schiariva; non che tornasse il sole, ché la parte superiore del cielo era gravata dalle nuvole, ma le cose si distinguevano nettamente, perché la nebbia rimaneva sopra le nostre teste. Anzi, scesi che fummo di molto, mi voltai a guardare la cima del monte, e non vidi più nulla: da metà della salita in avanti, la sommità del colle, il pianoro, l'Edificio, tutto, scomparivano tra le nubi.
Il mattino del nostro arrivo, quando già eravamo tra i monti, a certi tornanti, era ancora possibile scorgere, a non più di dieci miglia e forse meno, il mare. Il nostro viaggio era stato ricco di sorprese, perché d'un tratto ci si trovava come su di una terrazza montana che dava a picco su golfi bellissimi, e dopo non molto si penetrava in gole profonde, dove montagne si elevavano tra le montagne, e l'una ottundeva all'altra la vista della costa lontana, mentre il sole penetrava a fatica in fondo alle valli. Mai come in quel luogo d'Italia avevo visto così strette e repentine interpenetrazioni di mare e monti, di litorali e paesaggi alpini, e nel vento che sibilava tra le gole si poteva intendere l'alterna lotta dei balsami marini e dei gelidi soffi rupestri.
Quel mattino invece tutto era grigio, e quasi bianco latte, e non v'erano orizzonti anche quando le gole si aprivano verso le coste lontane. Ma mi attardo in ricordi di poco interesse ai fini della vicenda che ci affanna, mio paziente lettore.
Così non dirò delle alterne vicende della nostra ricerca dei”derteufel”. E dirò piuttosto della legazione dei frati minori, che avvistai per primo, correndo subito verso il monastero per avvertire Guglielmo.
Il mio maestro lasciò che i nuovi arrivati entrassero e fossero salutati dall'Abate secondo il rito. Poi andò incontro al gruppo e fu una sequenza di abbracci e di saluti fraterni.
Era già trascorsa l'ora della mensa, ma una tavola era stata imbandita per gli ospiti e l'Abate ebbe la finezza di lasciarli tra loro, e soli con Guglielmo, sottratti ai doveri della regola, liberi di nutrirsi e di scambiare al tempo stesso le loro impressioni: dato che infine si trattava, Dio mi perdoni la sgradita similitudine, come di un consiglio di guerra, da tenersi al più presto prima che arrivasse l'oste nemica, e cioè la legazione avignonese.
Inutile dire che i nuovi venuti si incontrarono subito anche con Ubertino, che tutti salutarono con la sorpresa, la gioia e la venerazione che erano dovute e alla sua lunga assenza, e ai timori che avevano circondato la sua scomparsa, e alle qualità di quel coraggioso guerriero che da decenni aveva già combattuto la loro stessa battaglia.
Dei frati che componevano il gruppo dirò poi parlando della riunione del giorno dopo. Anche perché io parlai pochissimo con loro, preso come ero dal consiglio a tre che si stabilì immantinenti tra Guglielmo, Ubertino e Michele da Cesena.
Michele doveva essere un ben strano uomo: ardentissimo nella sua passione francescana (aveva talora i gesti, gli accenti di Ubertino nei suoi momenti di rapimento mistico); molto umano e gioviale nella sua terrestre natura di uomo delle Romagne, capace di apprezzare la buona tavola e felice di ritrovarsi con gli amici; sottile ed evasivo, di colpo diventando accorto e abile come una volpe, sornione come una talpa, quando si sfioravano problemi di rapporti tra i potenti; capace di grandi risate, di fervide tensioni, di eloquenti silenzi, abile nel distogliere lo sguardo dall'interlocutore quando la domanda di quello richiedeva di mascherare, con la distrazione, il rifiuto della risposta.
Di lui ho già detto qualcosa nelle pagine precedenti, ed erano cose che avevo sentito dire, forse da persone a cui erano state dette. Ora invece capivo meglio molti dei suoi atteggiamenti contraddittori e dei repentini mutamenti di disegno politico con cui negli ultimi anni aveva stupito i suoi stessi amici e seguaci. Ministro generale dell'ordine dei frati minori, era in principio l'erede di san Francesco, di fatto l'erede dei suoi interpreti: doveva competere con la santità e la saggezza di un predecessore come Bonaventura da Bagnoregio, doveva garantire il rispetto della regola ma al tempo stesso le fortune dell'ordine, così potente e vasto, doveva prestare orecchio alle corti e alle magistrature cittadine da cui l'ordine traeva, sia pure sotto forma di elemosine, doni e lasciti, motivo di prosperità e ricchezza; e doveva nel contempo badare che il bisogno di penitenza non trascinasse fuori dall'ordine gli spirituali più accesi, disciogliendo quella splendida comunità, di cui era a capo, in una costellazione di bande d'eretici. Doveva piacere al papa, all'impero, ai frati di povera vita, a san Francesco che certo lo sorvegliava dal cielo, al popolo cristiano che lo sorvegliava da terra. Quando Giovanni aveva condannato tutti gli spirituali come eretici, Michele non aveva esitato a consegnargli cinque tra i più riottosi frati di Provenza, lasciando che il pontefice li mandasse al rogo. Ma avvertendo (e non doveva essere stata estranea l'azione di Ubertino) che molti nell'ordine simpatizzavano per i seguaci della semplicità evangelica, aveva appunto agito in modo che il capitolo di Perugia, quattro anni dopo, facesse proprie le istanze dei bruciati. Naturalmente cercando di riassorbire un bisogno, che poteva essere ereticale, nei modi e nelle istituzioni dell'ordine, e volendo che ciò che l'ordine ora voleva fosse voluto anche dal papa. Ma, mentre attendeva di convincere il papa, senza il cui consenso non avrebbe voluto procedere, non aveva disdegnato di accettare i favori dell'imperatore e dei teologi imperiali. Ancora due anni prima del giorno in cui lo vidi aveva ingiunto ai suoi frati, nel capitolo generale di Lione, di parlare della persona del papa solo con moderazione e rispetto (e questo pochi mesi dopo che il papa aveva parlato dei minoriti protestando contro”i loro latrati, i loro errori e le loro insanie”). Ma ora era a tavola, amicissimo, con persone che del papa parlavano con rispetto meno che nullo.
Del resto ho già detto. Giovanni lo voleva ad Avignone, egli voleva e non voleva andare, e l'incontro del giorno dopo avrebbe dovuto decidere sui modi e sulle garanzie di un viaggio che non avrebbe dovuto apparire come un atto di sottomissione ma neppure come un atto di sfida. Non credo che Michele avesse mai incontrato di persona Giovanni, almeno da che era papa. In ogni caso non lo vedeva da tempo, e i suoi amici si affrettavano a dipingergli a tinte molto scure la figura di quel simoniaco.
“Una cosa dovrai imparare,” gli diceva Guglielmo,”a non fidarti dei suoi giuramenti, che egli mantiene sempre alla lettera, violandoli nella sostanza.”
“Tutti sanno,” diceva Ubertino,”cosa accadde ai tempi della sua elezione...”
“Non la chiamerei elezione, bensì imposizione!” intervenne un commensale, che sentii poi chiamare come Ugo da Novocastro, dall'accento affine a quello del mio maestro.”Intanto già la morte di Clemente V non è mai stata molto chiara. Il re non gli aveva più perdonato di aver promesso di processare la memoria di Bonifacio VIII, e poi di aver fatto di tutto per non sconfessare il suo predecessore. Come sia morto a Carpentras, nessuno sa bene. Fatto sta che quando i cardinali convengono a Carpentras per il conclave, il nuovo papa non viene fuori, perché (e giustamente) la disputa si sposta sulla scelta tra Avignone e Roma. Non so bene cosa sia successo in quei giorni, un massacro mi dicono, coi cardinali minacciati dal nipote del papa morto, i loro servi trucidati, il palazzo dato alle fiamme, i cardinali che si appellano al re, questi che dice che non ha mai voluto che il papa disertasse Roma, che pazientino, e facciano una buona scelta... Poi Filippo il Bello muore, anche lui Dio sa come...”
“O lo sa il diavolo,” disse segnandosi, imitato da tutti, Ubertino.
“O lo sa il diavolo,” ammise Ugo con un sogghigno.”Insomma, succede un altro re, sopravvive diciotto mesi, muore, muore in pochi giorni anche il suo erede appena nato, suo fratello il reggente prende il trono...”
“Ed è proprio questo Filippo V che, quando era ancora conte di Poitiers, aveva rimesso insieme i cardinali che fuggivano da Carpentras,” disse Michele.
“Infatti,” continuò Ugo, “li rimette in conclave a Lione nel convento dei domenicani, giurando di difendere la loro incolumità e di non tenerli prigionieri. Però appena quelli si mettono alla sua mercé, non solo li fa rinchiudere a chiave (che sarebbe poi la giusta usanza) ma gli diminuisce i cibi di giorno in giorno sino a che non abbiano preso una decisione. E a ciascuno promette di sostenerlo nelle sue pretese al soglio. Quando poi prende il trono, i cardinali, stanchi di essere prigionieri da due anni, per timore di rimanere lì anche tutta la vita, mangiando malissimo, accettano tutto, i ghiottoni, mettendo sulla cattedra di Pietro quello gnomo ultrasettantenne...”
“Gnomo certo sì,” rise Ubertino,”e di aspetto tisicuzzo, ma più robusto e più astuto di quanto si credesse!”
“Figlio di calzolaio,” bofonchiò uno dei legati.
“Cristo era figlio di falegname!” lo rampognò Ubertino.”Non è questo il fatto.
E' un uomo colto, ha studiato legge a Montpellier e medicina a Parigi, ha saputo coltivare le sue amicizie nei modi più acconci per avere e i seggi episcopali e il
cappello cardinalizio quando gli pareva opportuno, e quando è stato consigliere di Roberto il Savio a Napoli ha sbalordito molti per il suo acume. E come vescovo di Avignone ha dato tutti i consigli giusti (giusti, dico, ai fini di quella squallida impresa) a Filippo il Bello per rovinare i Templari. E dopo l'elezione è riuscito a sfuggire a un complotto di cardinali che volevano ucciderlo... Ma non è di questo che volevo dire, parlavo della sua abilità nel tradire i giuramenti senza poter essere incolpato di spergiuro. Quando fu eletto, e per essere eletto, ha promesso al cardinale Orsini che avrebbe riportato il seggio pontificio a Roma, e ha giurato sull'ostia consacrata che se non avesse mantenuto la sua promessa non sarebbe mai più salito su di un cavallo o su di un mulo. Ebbene sapete cosa ha fatto quella volpe? Quando si è fatto incoronare a Lione (contro la volontà del re, che voleva che la cerimonia avvenisse ad Avignone) ha viaggiato poi da Lione ad Avignone in battello!”
I frati risero tutti. Il papa era uno spergiuro, ma non gli si poteva negare un certo ingegno.
“E' uno spudorato,” commentò Guglielmo.”Ugo non ha detto che non tentò neppure di nascondere la sua mala fede? Non mi hai raccontato tu Ubertino di ciò che ha detto all'Orsini il giorno del suo arrivo ad Avignone?”
“Certo,” disse Ubertino,”gli disse che il cielo di Francia era così bello che non vedeva perché dovesse mettere piede in una città piena di rovine come Roma. E che siccome il papa, come Pietro, aveva il potere di legare e di sciogliere, lui questo potere ora esercitava, e decideva di rimanere lì dove era e dove stava così bene. E
come l'Orsini cercò di ricordargli che il suo dovere era di vivere sul colle vaticano, lo richiamò seccamente all'obbedienza, e troncò la discussione. Ma non è finita la storia del giuramento. Quando scese dal battello avrebbe dovuto montare una cavalla bianca, seguito dai cardinali su cavalli neri, come vuole la tradizione. E invece è andato a piedi al palazzo episcopale. Né mi risulta che davvero sia mai più montato a cavallo. E da quest'uomo, Michele, tu ti attendi che tenga fede alle garanzie che ti darà?”
Michele stette a lungo in silenzio. Poi disse: “Posso capire il desiderio del papa di rimanere ad Avignone, e non lo discuto. Ma lui non potrà discutere il nostro desiderio di povertà e la nostra interpretazione dell'esempio di Cristo.”
«Non essere ingenuo, Michele,» intervenne Guglielmo, «il vostro, il nostro desiderio, fa apparire in una luce sinistra il suo. Devi renderti conto che da secoli non era mai asceso sul trono pontifico un uomo più avido. Le meretrici di Babilonia contro cui tuonava un tempo il nostro Ubertino, i papi corrotti di cui parlavano i poeti del tuo paese come quell'Alighieri, erano agnelli mansueti e sobrii in confronto di Giovanni. E' una gazza ladra, un usuraio ebreo, ad Avignone si fanno più traffici che a Firenze! Ho saputo della ignobile transazione col nipote di Clemente, Bertrand de Goth, quello del massacro di Carpentras (in cui tra l'altro i cardinali furono alleggeriti di tutti i loro gioielli): costui aveva messo le mani sul tesoro dello zio, che non era da poco, e a Giovanni non era sfuggito nulla di ciò che aveva rubato (nella Cum venerabiles elenca con precisione le monete, i vasi d'oro e d'argento, i libri, i tappeti, le pietre preziose, gli ornamenti...). Giovanni però finse di ignorare che Bertrand aveva messo le mani su più di un milione e mezzo di fiorini d'oro durante il sacco di
Carpentras, e discusse di altri trentamila fiorini, che Bertrand confessava di aver avuto dallo zio per «un proposito pio», e cioè per una crociata. Si stabilì che Bertrand avrebbe trattenuto metà della somma per la crociata e l'altra metà sarebbe andata al soglio pontificio. Poi Bertrand non fece mai la crociata, o almeno non l'ha ancora fatta, e il papa non ha visto un fiorino...»
“Non è poi così abile, allora,” osservò Michele.
“E' l'unica volta che si è fatto giocare in materia di danaro,” disse Ubertino.”Devi sapere bene con che razza di mercante tu abbia a che fare. In tutti gli altri casi ha mostrato una abilità diabolica nel raccogliere danaro. E' un re Mida, quello che tocca diventa oro che affluisce nelle casse di Avignone. Ogni volta che sono entrato nei suoi appartamenti ho trovato banchieri, cambiatori di moneta, e tavole cariche d'oro, e chierici che contavano e impilavano fiorini gli uni sugli altri...
E vedrai che palazzo si è fatto costruire, con ricchezze che un tempo si attribuivano solo all'imperatore di Bisanzio o al Gran Cane dei tartari. E adesso capisci perché ha emanato tutte quelle bolle contro l'idea della povertà. Ma lo sai che ha spinto i domenicani, in odio al nostro ordine, a scolpire statue di Cristo con la corona reale, la tunica di porpora e d'oro e calzari sontuosi? Ad Avignone sono stati esposti crocifissi con Gesù inchiodato per una sola mano, mentre con l'altra tocca una borsa appesa alla sua cintura, per indicare che Egli autorizza l'uso del danaro per fini di religione...”
“Oh lo spudorato!” esclamò Michele.”Ma questa è pura bestemmia!”
“Ha aggiunto,” continuò Guglielmo,”una terza corona alla tiara papale, non è vero Ubertino?”
“Certo. All'inizio del millennio papa Ildebrando ne aveva assunta una, con la scritta Corona regni de manu Dei, l'infame Bonifacio ne aveva aggiunta di recente una seconda, scrivendovi Diadema imperii de manu Petri, e Giovanni non ha fatto altro che perfezionare il simbolo: tre corone, il potere spirituale, quello temporale e quello ecclesiastico. Un simbolo dei re persiani, un simbolo pagano...”
C'era un frate che sino ad allora era rimasto in silenzio, occupato con molta devozione a ingoiare i buoni cibi che l'Abate aveva fatto portare in tavola. Porgeva un orecchio distratto ai vari discorsi, emettendo ogni tanto un riso sarcastico all'indirizzo del pontefice, o un grugnito di approvazione alle interiezioni di sdegno dei commensali. Ma per il resto badava a pulirsi il mento dei sughi e dei pezzi di carne che lasciava cadere dalla bocca sdentata ma vorace, e le uniche volte che aveva rivolto la parola a uno dei suoi vicini era stato per lodare la bontà di una qualche leccornia. Seppi poi che era messer Girolamo, quel vescovo di Caffa che Ubertino giorni prima credeva ormai defunto (e debbo dire che quell'idea che fosse morto da due anni circolò come notizia vera per tutta la cristianità per molto tempo, perché l'udii anche dopo; e in effetti morì pochi mesi dopo quel nostro incontro, e continuo a pensare che fosse deceduto per la gran rabbia che la riunione del giorno dopo gli avrebbe messo in corpo, che quasi avrei creduto schiattasse subito e immediatamente, tanto era fragile di corpo e bilioso di umore).
S'intromise a quel punto nel discorso, parlando con la bocca piena: “E poi sapete che l'infame ha elaborato una costituzione sulle taxae sacrae poenitentiariae
dove specula sui peccati dei religiosi per trarne altro danaro. Se un ecclesiastico commette peccato carnale, con una monaca, con una parente, o anche con una donna qualsiasi (perché succede anche questo!) potrà essere assolto solo pagando sessantasette lire d'oro e dodici soldi. E se commette bestialità, saranno più di duecento lire, ma se l'ha commessa solo con fanciulli o animali, e non con femmine, la ammenda sarà ridotta di cento lire. E una monaca che si sia data a molti uomini, sia insieme che in momenti diversi, fuori o dentro il convento, e poi vuole diventare abbadessa, dovrà pagare centotrentun lire d'oro e quindici soldi...”
“Andiamo messer Girolamo,” protestò Ubertino,”sapete quanto poco ami il papa, ma su questo devo difenderlo! E' una calunnia messa in giro ad Avignone, non ho mai visto questa costituzione!”
“C'è,” affermò vigorosamente Girolamo.”Neppure io l'ho vista, ma c'è.”
Ubertino scosse la testa e gli altri tacquero. Mi avvidi che erano abituati a non prendere troppo sul serio messer Girolamo, che l'altro giorno Guglielmo aveva definito uno sciocco. Guglielmo in ogni caso cercò di riprendere la conversazione:
“In ogni caso, vero o falso che sia, questa voce ci dice di quale sia il clima morale di Avignone, dove chiunque, sfruttati e sfruttatori, sanno di vivere più in un mercato che nella corte di un rappresentante di Cristo. Quando Giovanni è salito in trono si parlava di un tesoro di settantamila fiorini d'oro, e ora c'è chi dice che ne abbia ammassati più di dieci milioni.”
“E' vero,” disse Ubertino.”Michele, Michele, non sai che vergogne ho dovuto vedere ad Avignone!”
“Cerchiamo di essere onesti,” disse Michele.”Sappiamo che anche i nostri hanno commesso degli eccessi. Ho avuto notizie di francescani che attaccavano in armi i conventi domenicani e denudavano i frati nemici per imporre loro la povertà...
E' per questo che non osai oppormi a Giovanni ai tempi dei casi di Provenza... Voglio addivenire con lui a un accordo, non umilierò il suo orgoglio, gli chiederò solo che non umilii la nostra umiltà. Non gli parlerò di danaro, gli chiederò solo di consentire con una sana interpretazione delle scritture. E questo dovremo fare coi legati suoi, domani. Alla fin fine sono uomini di teologia, e non tutti saranno rapaci come Giovanni. Quando degli uomini saggi avranno deliberato su un'interpretazione scritturale, egli non potrà...”
“Egli?” interruppe Ubertino.”Ma tu non conosci ancora le sue follie in campo teologico. Egli vuole legare davvero tutto di sua mano, in cielo e in terra. In terra abbiamo visto cosa fa. Quanto al cielo... Ebbene, egli non ha ancora espresso le idee che ti dico, non pubblicamente almeno, ma io so di certo che ne ha mormorato coi suoi fidi. Egli sta elaborando alcune proposizioni folli, se non perverse, che cambierebbero la sostanza stessa della dottrina, e toglierebbero ogni forza alla nostra predicazione!”
“Quali?” domandarono molti.
“Chiedete a Berengario, egli lo sa, me ne aveva parlato lui.” Ubertino si era rivolto a Berengario Talloni, che era stato negli anni scorsi uno dei più decisi avversari del pontefice nella sua stessa corte. Venuto da Avignone, si era da due
giorni ricongiunto col gruppo degli altri francescani e con loro era arrivato all'abbazia.
“E' una storia oscura e quasi incredibile,” disse Berengario.”Pare dunque che Giovanni abbia in mente di sostenere che i giusti non godranno della visione beatifica sino a dopo il Giudizio. E' da tempo che sta riflettendo sul versetto nove del capitolo sesto dell'Apocalisse, là dove si parla dell'apertura del quinto sigillo: dove appaiono sotto l'altare quelli che sono stati uccisi per testimoniare la parola di Dio e chiedono giustizia. A ciascuno viene data una veste bianca dicendo loro di pazientare ancora un poco... Segno, ne argomenta Giovanni, che essi non potranno vedere Dio nella sua essenza se non al compimento del giudizio finale.”
“Ma a chi ha detto queste cose?” domandò Michele esterrefatto.
“Sinora a pochi intimi, ma la voce si è diffusa, dicono che stia preparando un intervento aperto, non subito, forse tra qualche anno, sta consultandosi coi suoi teologi...”
“Ah ah!” ghignò Girolamo masticando.
“Non solo, sembra che voglia andare oltre e sostenere che neppure l'inferno sarà aperto prima di quel giorno... Nemmeno per i demoni.”
“Gesù Signore aiutaci!” esclamò Girolamo.”E cosa racconteremo allora ai peccatori se non possiamo minacciarli di un inferno immediato, subito appena morti!?”
“Siamo nelle mani di un pazzo,” disse Ubertino.”Ma non capisco perché voglia sostenere queste cose...”
“Va in fumo tutta la dottrina delle indulgenze,” lamentò Girolamo,”e neppure lui potrà più venderne. Perché un prete che ha peccato di bestialità deve pagare tante lire d'oro per evitare un castigo tanto remoto?”
“Non tanto remoto,” disse con forza Ubertino,”i tempi sono vicini!”
“Lo sai tu caro fratello, ma i semplici non lo sanno. Ecco come stanno le cose!” gridò Girolamo che non aveva più l'aria di godere del proprio cibo.”Che idea nefasta, gliela devono aver messa in capo questi frati predicatori... Ah!” e scosse il capo.
“Ma perché?” ripeté Michele da Cesena.
“Non credo ci sia una ragione,” disse Guglielmo.”E' una prova che egli si concede, un atto d'orgoglio. Vuole essere veramente colui che decide per il cielo e per la terra. Sapevo di queste mormorazioni, me lo aveva scritto Guglielmo di Occam. Vedremo alla fine se la spunterà il papa o la spunteranno i teologi, la voce tutta della chiesa, i desideri stessi del popolo di Dio, i vescovi...”
“Oh, su materie dottrinali egli potrà piegare anche i teologi,” disse triste Michele.
“Non è detto,” rispose Guglielmo.”Viviamo in tempi in cui i sapienti di cose divine non hanno timore a proclamare che il papa sia un eretico. I sapienti di cose divine sono a loro modo la voce del popolo cristiano. Contro cui neppure il papa potrà ormai andare.”
“Peggio, peggio ancora,” mormorò Michele spaventato.”Da un lato un papa folle, dall'altro il popolo di Dio che, sia pure per bocca dei suoi teologi, pretenderà tra poco di interpretare liberamente le scritture...”
“Perché, cosa avete fatto voi di diverso a Perugia?” domandò Guglielmo.
Michele si scosse come punto sul vivo: “Per questo voglio incontrare il papa.
Nulla noi possiamo su cui anch'egli non concordi.”
“Vedremo, vedremo,” disse Guglielmo in modo enigmatico.
Il mio maestro era davvero molto acuto. Come faceva a prevedere che Michele stesso avrebbe poi deciso di appoggiarsi ai teologi dell'impero e al popolo per condannare il papa? Come faceva a prevedere che, quando quattro anni dopo Giovanni avrebbe enunciato per la prima volta la sua incredibile dottrina, ci sarebbe stata una sollevazione da parte di tutta la cristianità? Se la visione beatifica era tanto ritardata, come avrebbero potuto i defunti intercedere per i viventi? E dove sarebbe finito il culto dei santi? Proprio i minoriti avrebbero iniziato le ostilità condannando il papa, e Guglielmo di Occam sarebbe stato in prima fila, severo e implacabile nelle sue argomentazioni. La lotta sarebbe durata per tre anni, sinché Giovanni, giunto vicino alla morte, avrebbe fatto parziale ammenda. Lo udii descrivere anni dopo, come apparve nel concistoro del dicembre 1334, più piccolo di quanto fosse mai apparso sino ad allora, rinsecchito dall'età, novantenne e moribondo, pallido in viso, e avrebbe detto (la volpe, così abile nel giocare sulle parole non solo per violare i propri giuramenti ma anche per rinnegare le proprie ostinazioni): “Noi confessiamo e crediamo che le anime separate dal corpo e completamente purificate siano in cielo, in paradiso con gli angeli, e con Gesù Cristo, e che esse vedano Dio nella sua divina essenza, chiaramente e faccia a faccia...” e poi con una pausa, nessuno seppe mai se dovuta alla difficoltà del respiro o alla volontà perversa di sottolineare l'ultima clausola come avversativa,”nella misura in cui lo stato e la condizione dell'anima separata lo permetta.” La mattina dopo, era di domenica, si fece mettere su una sedia allungata e dal dorso reclinato, accolse il bacio della mano dai suoi cardinali, e morì.
Ma nuovamente divago, e racconto altre cose da quelle che dovrei raccontare.
Anche perché in fondo, il resto di quella conversazione a tavola non aggiunge molto alla comprensione delle vicende di cui narro. I minoriti si accordarono sul contegno da tenere per il giorno dopo. Valutarono uno per uno i loro avversari. Commentarono con preoccupazione la notizia, data da Guglielmo, dell'arrivo di Bernardo Gui. E
ancora più il fatto che a presiedere la legazione avignonese sarebbe stato il cardinal Bertrando del Poggetto. Due inquisitori erano troppi: segno che si voleva usare contro i minoriti l'argomento dell'eresia.
“Tanto peggio,” disse Guglielmo,”noi tratteremo da eretici loro.”
“No, no,” disse Michele, “procediamo con cautela, non dobbiamo compromettere alcun accordo possibile.”
“Per quanto riesco a pensare,” disse Guglielmo,”pur avendo lavorato per la realizzazione di questo incontro, e tu lo sai Michele, io non credo che gli avignonesi vengano qui per trarne alcun risultato positivo. Giovanni ti vuole ad Avignone solo e non garantito. Ma l'incontro avrà almeno una funzione, di farti capire questo. Sarebbe stato peggio se tu fossi andato prima di avere questa esperienza.”
“Così tu ti sei dato da fare, e per molti mesi, per realizzare una cosa che credi inutile,” disse amaramente Michele.
“Mi era stato richiesto, e da te e dall'imperatore,” disse Guglielmo.”E infine, non è mai inutile conoscere meglio i propri nemici.”
A quel punto vennero ad avvertirci che stava entrando entro le mura la seconda delegazione. I minoriti si alzarono e andarono incontro agli uomini del papa.
Quarto giorno
Nona
Dove arrivano il cardinale del Poggetto, Bernardo Gui e gli altri uomini di Avignone, e poi ciascuno fa cose diverse
Uomini che già si conoscevano da tempo, uomini che senza conoscersi avevano udito parlare l'uno dell'altro, si salutavano nella corte con apparente mansuetudine. Al fianco dell'Abate il cardinal Bertrando del Poggetto si muoveva come chi abbia familiarità col potere, quasi che fosse un secondo pontefice egli stesso, e distribuiva a tutti, specie ai minoriti, cordiali sorrisi, auspicando mirabili intese dall'incontro del giorno dopo, e recando esplicitamente i voti di pace e bene (usò intenzionalmente questa espressione cara ai francescani) da parte di Giovanni XXII.
“Bravo, bravo,” disse a me, quando Guglielmo ebbe la bontà di presentarmi come suo scrivano e discepolo. Poi mi chiese se conoscessi Bologna e me ne lodò la bellezza, il buon cibo e la splendida università, invitandomi a visitarla, invece di tornare un giorno, mi disse, tra quelle mie genti tedesche che stavano facendo tanto soffrire il nostro signor papa. Poi mi porse l'anello da baciare mentre già volgeva il suo sorriso verso qualcun altro.
D'altra parte la mia attenzione si rivolse subito al personaggio di cui più avevo udito parlare in quei giorni: Bernardo Gui, come lo chiamavano i francesi, o Bernardo Guidoni o Bernardo Guido come lo chiamavano altrove.
Era un domenicano di circa settant'anni, esile ma diritto nella figura. Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell'esprimerli a bella posta.
Nello scambio generale dei saluti, non fu come gli altri affettuoso o cordiale, ma sempre e appena appena cortese. Quando vide Ubertino, che già conosceva, fu con lui molto deferente, ma lo fissò in modo tale da indurre in me un brivido di inquietudine. Quando salutò Michele da Cesena ebbe un sorriso difficile da decifrare, e mormorò senza calore: “Lassù vi si attende da molto tempo”, frase in cui non riuscii a cogliere né un cenno d'ansia, né un'ombra di ironia, né un'ingiunzione, né peraltro una sfumatura di interesse. Si incontrò con Guglielmo, e come apprese chi era lo guardò con educata ostilità: ma non perché il volto tradisse i suoi sentimenti segreti, ne ero certo (anche se ero incerto se egli mai nutrisse sentimento alcuno), ma perché certamente voleva che Guglielmo lo sentisse ostile. Guglielmo ricambiò la sua ostilità sorridendogli in modo esageratamente cordiale e dicendogli: “Da tempo desideravo conoscere un uomo la cui fama mi è stata di lezione e di monito per tante importanti decisioni che hanno ispirato la mia vita.” Sentenza senz'altro elogiativa e
quasi adulatoria per chi non sapesse, come invece Bernardo sapeva bene, che una delle decisioni più importanti della vita di Guglielmo era stata quella di abbandonare il mestiere dell'inquisitore. Ne trassi l'impressione che, se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche segreta imperiale, Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo colto da morte accidentale e subitanea; e siccome Bernardo aveva al proprio comando in quei giorni uomini d'arme, temetti per la vita del mio buon maestro.
Bernardo doveva già essere stato informato dall'Abate circa i delitti commessi all'abbazia. Infatti, fingendo di non raccogliere il veleno contenuto nella frase di Guglielmo, gli disse: “Pare che in questi giorni, per richiesta dell'Abate, e per assolvere il compito affidatomi ai termini dell'accordo che ci vede qui riuniti, dovrò occuparmi di vicende tristissime in cui si avverte il pestifero odore del demonio. Ve ne parlo perché so che in tempi lontani, in cui mi sareste stato più vicino, anche voi accanto a me - e a quelli come me - vi siete battuto su quel campo che vedeva confrontate a battaglia le schiere del bene contro le schiere del male.”
“Infatti,” disse quietamente Guglielmo,”ma poi io sono passato dall'altra parte.”
Bernardo sostenne bravamente il colpo: “Potete dirmi qualcosa di utile su queste cose delittuose?”
“Sfortunatamente no,” rispose civilmente Guglielmo.”Non ho la vostra esperienza in cose delittuose.”
Da quel momento in poi persi le tracce di ciascuno. Guglielmo, dopo un'altra conversazione con Michele e Ubertino, si ritirò nello scriptorium. Chiese a Malachia di poter esaminare certi libri e non giunsi a sentirne il titolo. Malachia lo guardò in modo strano, ma non poté negarglieli. Caso curioso, non dovette cercarli in biblioteca. Erano già tutti sul tavolo di Venanzio. Il mio maestro si immerse nella lettura e decisi di non disturbarlo.
Scesi in cucina. Lì vidi Bernardo Gui. Forse voleva rendersi conto della disposizione dell'abbazia e girava dappertutto. Lo udii che interrogava i cucinieri e altri servi, parlando bene o male il volgare del luogo (mi ricordai che era stato inquisitore in Italia settentrionale). Mi parve domandasse informazioni sui raccolti, sull'organizzazione del lavoro nel monastero. Ma anche ponendo le questioni più innocenti, guardava il suo interlocutore con occhi penetranti, poi poneva di colpo una nuova domanda, e a questo punto la sua vittima impallidiva e balbettava. Ne conclusi che, in qualche modo singolare, egli stava inquisendo, e si avvaleva di un'arma formidabile che ogni inquisitore nell'esercizio della sua funzione possiede e manovra: la paura dell'altro. Perché ogni inquisito di solito dice all'inquisitore, per il timore di essere sospettato di qualcosa, ciò che può servire a rendere sospetto qualcun altro.
Per tutto il resto del pomeriggio, a mano a mano che mi muovevo, vidi Bernardo procedere così, vuoi presso i mulini, vuoi nel chiostro. Ma quasi mai affrontò dei monaci, sempre dei fratelli laici o dei contadini. Il contrario di quanto aveva fatto sino ad allora Guglielmo.
Quarto giorno
Vespri
Dove Alinardo sembra dare informazioni preziose e Guglielmo rivela il suo metodo per arrivare a una verità probabile
attraverso una serie di sicuri errori
Più tardi Guglielmo discese dallo scriptorium di buon umore. Mentre attendevamo che si facesse l'ora di cena trovammo nel chiostro Alinardo. Ricordando la sua richiesta, sin dal giorno prima mi ero procurato dei ceci in cucina, e gliene offrii. Mi ringraziò infilandoseli nella bocca sdentata e bavosa.”Hai visto ragazzo,”
mi disse, “anche l'altro cadavere giaceva là dove il libro lo annunziava... Attendi ora la quarta tromba!”
Gli chiesi come mai pensava che la chiave per la sequenza dei crimini stesse nel libro della rivelazione. Mi guardò stupito: “Il libro di Giovanni offre la chiave di tutto!” E aggiunse, con una smorfia di rancore: “Io lo sapevo, io lo dicevo da gran tempo... Fui io, sai, a proporre all'Abate... quello di allora, di raccogliere quanti più commenti all'Apocalisse fosse possibile. Io dovevo diventare bibliotecario... Ma poi l'altro riuscì a farsi mandate a Silos, dove trovò i manoscritti più belli, e tornò con un bottino splendido... Oh, lui sapeva dove cercare, parlava anche la lingua degli infedeli... E così egli ricevette la biblioteca in custodia, e non io. Ma Dio lo punì, e lo fece entrare anzitempo nel regno delle tenebre. Ah, ah...” rise in modo cattivo, quel vecchio che sino ad allora mi era parso, immerso nella serenità della sua canizie, simile a un fanciullo innocente.
“Chi era quello di cui parlate?” chiese Guglielmo.
Ci guardò attonito.”Di chi parlavo? Non ricordo... fu tanto tempo fa. Ma Dio punisce, Dio cancella, Dio oscura anche i ricordi. Molti atti di superbia furono commessi nella biblioteca. Specie da quando cadde in mano agli stranieri. Dio punisce ancora...”
Non riuscimmo a trargli altre parole e lo abbandonammo al suo queto e rancoroso delirio. Guglielmo si disse molto interessato da quel colloquio: “Alinardo è un uomo da ascoltare, ogni volta che parla dice qualcosa d'interessante.”
“Cosa ha detto questa volta?”
“Adso,” disse Guglielmo,”risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno, o due, o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possano essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata enunciata. Certo, se sai, come dice il filosofo, che l'uomo, il cavallo e il mulo sono tutti senza fiele e tutti vivono a lungo, puoi tentare di enunciare il principio per cui gli animali senza fiele vivono a lungo. Ma immagina
il caso degli animali con le corna. Perché hanno le corna? Improvvisamente ti accorgi che tutti gli animali con le corna non hanno denti nella mandibola superiore. Sarebbe una bella scoperta, se non ti rendessi conto che, ahimè, ci sono animali senza denti nella mandibola superiore e che tuttavia non hanno le corna, come il cammello.
Infine ti accorgi che tutti gli animali senza denti nella mandibola superiore hanno due stomaci. Bene, puoi immaginare che chi non ha denti sufficienti mastichi male e dunque abbia bisogno di due stomaci per poter digerire meglio il cibo. Ma le corna?
Allora provi a immaginare una causa materiale delle corna, per cui la mancanza di denti provvede l'animale con una eccedenza di materia ossea che deve spuntare da qualche altra parte. Ma è una spiegazione sufficiente? No, perché il cammello non ha denti superiori, ha due stomaci, ma non le corna. E allora devi immaginare anche una causa finale. La materia ossea fuoriesce in corna solo negli animali che non hanno altri mezzi di difesa. Invece il cammello ha una pelle durissima e non ha bisogno delle corna. Allora la legge potrebbe essere...”
“Ma cosa c'entrano le corna?” domandai con impazienza,”e perché vi occupate di animali con le corna?”
“Io non me ne sono mai occupato, ma il vescovo di Lincoln se ne era occupato molto, seguendo una idea di Aristotele. Onestamente, io non so se le ragioni che ha trovato siano quelle buone, né ho mai controllato dove il cammello abbia i denti e quanti stomaci abbia: ma era per dirti che la ricerca delle leggi esplicative, nei fatti naturali, procede in modo tortuoso. Di fronte ad alcuni fatti inspiegabili tu devi provare a immaginare molte leggi generali, di cui non vedi ancora la connessione coi fatti di cui ti occupi: e di colpo, nella connessione improvvisa di un risultato, un caso e una legge, ti si profila un ragionamento che ti pare più convincente degli altri. Provi ad applicarlo a tutti i casi simili, a usarlo per trarne previsioni, e scopri che avevi indovinato. Ma sino alla fine non saprai mai quali predicati introdurre nel tuo ragionamento e quali lasciar cadere. E così faccio ora io. Allineo tanti elementi sconnessi e fingo delle ipotesi. Ma ne devo fingere molte, e numerose sono quelle così assurde che mi vergognerei di dirtele. Vedi, nel caso del cavallo Brunello, quando vidi le tracce, io finsi molte ipotesi complementari e contraddittorie: poteva essere un cavallo in fuga, poteva essere che su quel bel cavallo l'Abate fosse sceso lungo il pendio, poteva essere che un cavallo Brunello avesse lasciato i segni sulla neve e un altro cavallo Favello, il giorno prima, i crini nel cespuglio, e che i rami fossero stati spezzati da degli uomini. Io non sapevo quale fosse l'ipotesi giusta sino a che non vidi il cellario e i servi che cercavano con ansia. Allora capii che l'ipotesi di Brunello era la sola buona, e cercai di provare se fosse vera, apostrofando i monaci come feci. Vinsi, ma avrei anche potuto perdere. Gli altri mi hanno creduto saggio perché ho vinto, ma non conoscevano i molti casi in cui sono stato stolto perché ho perso, e non sapevano che pochi secondi prima di vincere io non ero sicuro che non avessi perduto. Ora, sui casi dell'abbazia, ho molte belle ipotesi, ma non c'è nessun fatto evidente che mi permetta di dire quale sia la migliore. E allora, per non apparire sciocco dopo, rinuncio ad apparire astuto ora. Lasciami ancora pensare, sino a domani, almeno.”
Capii in quel momento quale fosse il modo di ragionare del mio maestro, e mi parve assai difforme da quello del filosofo che ragiona sui principi primi, così che il suo intelletto assume quasi i modi dell'intelletto divino. Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne proponeva molte e diversissime tra loro. Rimasi perplesso.
“Ma allora,” ardii commentare,”siete ancora lontano dalla soluzione...”
“Ci sono vicinissimo,” disse Guglielmo,”ma non so a quale.”
“Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?”
“Adso, se l'avessi insegnerei teologia a Parigi.”
“A Parigi hanno sempre la risposta vera?”
“Mai,” disse Guglielmo,”ma sono molto sicuri dei loro errori.”
“E voi,” dissi con infantile impertinenza,”non commettete mai errori?”
“Spesso,” rispose. “Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di nessuno.”
Ebbi l'impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l'adeguazione tra la cosa e l'intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile.
In quel momento, lo confesso, disperai del mio maestro e mi sorpresi a pensare: “Meno male che è arrivata l'inquisizione.” Parteggiai per la sete di verità che animava Bernardo Gui.
E con queste colpevoli disposizioni di spirito, più turbato di Giuda la notte del giovedì santo, entrai con Guglielmo nel refettorio a consumare la cena.
Quarto giorno
Compieta
Dove Salvatore parla di una magìa portentosa
La cena per la legazione fu superba. L'Abate doveva conoscere molto bene e le debolezze degli uomini e gli usi della corte papale (che non dispiacquero, debbo dirlo, neppure ai minoriti di fra Michele). I maiali ammazzati da poco, ci doveva essere del sanguinaccio all'uso di Montecassino, ci disse il cuciniere. Ma la sciagurata fine di Venanzio aveva costretto a buttare tutto il sangue dei maiali, sino a che non si fosse proceduto a scannarne d'altri. Inoltre credo che in quei giorni ripugnasse a tutti uccidere creature del Signore. Ma avemmo del salmì di piccioncini, macerato nel vino di quelle terre, e coniglio in porchetta, pagnottini di santa Chiara, riso con le mandorle di quei monti, ovvero il biancomangiare delle vigilie, crostini di borragine, ulive ripiene, formaggio fritto, carne di pecora con salsa cruda di peperoni, fave bianche, e dolciumi squisiti, dolce di san Bernardo, paste di san Niccolò, occhietti di santa Lucia, e vini, e liquori d'erbe che misero di buon umore persino Bernardo Gui, di solito così austero: liquore di citronella, nocino, vino contro la gotta e vino di genziana. Sembrava una riunione di ghiottoni, se ogni sorsata o ogni boccone non fosse stato accompagnato da devote letture.
Alla fine tutti si alzarono molto lieti, alcuni accampando vaghi malori per non scendere a compieta. Ma l'Abate non se ne adontò. Non tutti hanno il privilegio e gli obblighi che conseguono all'essersi consacrati al nostro ordine.
Mentre i monaci si avviavano mi attardai curioso per la cucina, dove stavano apparecchiando per la chiusura notturna. Vidi Salvatore che sgattaiolava verso l'orto con un fagotto in braccio. Incuriosito lo seguii e lo chiamai. Egli cercò di schermirsi, poi alle mie domande rispose che recava nel fagotto (che si muoveva come abitato da cosa viva) un basilisco.
“Cave basilischium! Est lo reys dei serpenti, tant pleno del veleno che ne riluce tuto fuori! Che dicam, il veleno, il puzzo ne vien fuori che te ancide! Ti attosca... Et ha macule bianche sul dosso, et caput come gallo, et metà va dritta sopre la terra et metà va per terra come gli altri serpentes. E lo ancide la bellula...”
“La bellula?”
“Oc! Bestiola parvissima est, più lunga alguna cosa che 'l topo, et odiala 'l topo muchissimo. E assì la serpe et la botta. Et quando loro la mordono, la bellula corre alla fenicula o a la circerbita et ne dentecchia, et redet ad bellum. Et dicunt che ingenera per li oculi, ma li più dicono ch'elli dicono falso.”
Gli chiesi cosa facesse con un basilisco e disse che erano affari suoi. Gli dissi, ormai morso dalla curiosità, che in quei giorni, con tutti quei morti, non c'erano più affari segreti, e che ne avrei parlato a Guglielmo. Allora Salvatore mi pregò
ardentemente di tacere, aprì il fagotto e mi mostrò un gatto di pelo nero. Mi tirò vicino a sé e mi disse con un sorriso osceno che non voleva più che il cellario o io, perché eravamo l'uno potente e l'altro giovane e bello, potessimo avere l'amore delle ragazze del villaggio, e lui no perché era brutto e poveretto. Che conosceva una magìa portentosissima per far cadere ogni donna presa d'amore. Bisognava uccidere un gatto nero e cavargli gli occhi, poi metterli dentro due uova di gallina nera, un occhio in un uovo, un occhio nell'altro (e mi mostrò due uova che assicurò aver tratto dalle galline giuste). Poi occorreva mettere le uova a marcire dentro un mucchio di sterco di cavallo (e ne aveva approntato uno proprio in un angolino dell'orto dove non passava mai nessuno), e di lì ne sarebbe nato, per ciascun uovo, un diavoletto, che poi si sarebbe messo al suo servizio procurandogli tutte le delizie di questo mondo. Ma ahimè, mi disse, perché la magìa riuscisse occorreva che la donna, di cui voleva l'amore, sputasse sulle uova prima che fossero seppellite nello sterco, e quel problema lo angustiava, perché bisognava avere accanto, quella notte, la donna in questione, e farle fare l'ufficio suo senza che lei sapesse a cosa serviva.
Fui preso da subita vampa, al viso, o alle viscere, o in tutto il corpo, e chiesi con un filo di voce se quella notte avrebbe portato nella cinta la ragazza della notte avanti. Lui rise, schernendomi, e disse che ero proprio in preda a una gran foia (io dissi di no, che chiedevo per pura curiosità), e poi mi disse che al villaggio di donne ce n'erano tante, e che ne avrebbe portata su un'altra, più bella ancora di quella che piaceva a me. Io supposi che mi mentisse per allontanarmi da lui. E d'altra parte che avrei potuto fare? Seguirlo per tutta la notte quando Guglielmo mi attendeva per ben altre imprese? E tornare a rivedere colei (se pure di essa si trattava) verso cui i miei appetiti mi spingevano mentre la mia ragione me ne distoglieva - e che non avrei dovuto vedere mai più anche se desideravo sempre vederla ancora? Certo no. E
quindi convinsi me stesso che Salvatore diceva il vero, per quanto riguardava la donna. O che forse mentiva su tutto, che la magìa di cui parlava era una fantasia della sua mente ingenua e superstiziosa, e che non ne avrebbe fatto nulla.
Mi irritai con lui, lo trattai rudemente, gli dissi che per quella notte avrebbe fatto meglio ad andare a dormire, perché gli arcieri circolavano nella cinta. Egli rispose che conosceva l'abbazia meglio degli arcieri, e che con quella nebbia nessuno avrebbe visto nessuno. Anzi, mi disse, ora io scappo, e neppure tu mi vedrai più, anche se fossi lì a due passi a sollazzarmi con la ragazza che desideri. Lui si espresse con altre parole, assai più ignobili, ma questo era il senso di quanto diceva. Mi allontanai sdegnato, perché proprio non era da me, nobile e novizio, mettermi in certame con quella canaglia.
Raggiunsi Guglielmo e facemmo quello che si doveva. Cioè ci disponemmo a seguir compieta, indietro nella navata, in modo che quando l'ufficio finì eravamo pronti per intraprendere il nostro secondo viaggio (terzo per me) nelle viscere del labirinto.
Quarto giorno
Dopo compieta
Dove si visita di nuovo il labirinto, si arriva alla soglia del finis Africae ma non ci si può entrare perché non si sa cosa siano il primo e il settimo dei quattro, e infine Adso ha una ricaduta, peraltro assai dotta, nella sua malattia d'amore La visita in biblioteca ci portò via lunghe ore di lavoro. A parole il controllo che dovevamo fare era facile, ma procedere al lume della lucerna, leggere le scritte, segnare sulla mappa i varchi e le pareti piene, registrate le iniziali, compiere i vari percorsi che il gioco delle aperture e degli sbarramenti ci consentivano, fu cosa assai lunga. E noiosa.
Faceva molto freddo. La notte non era ventosa e non si udivano quei sibili sottili che ci avevano impressionato la prima sera, ma dalle feritoie penetrava un'aria umida e gelida. Avevamo messo dei guanti di lana per poter toccare i volumi senza che le mani si intirizzissero. Ma erano appunto di quelli che si usavano per scrivere d'inverno, con la punta delle dita scoperte, e talora dovevamo avvicinare le mani alla fiamma, o metterle nel petto, o batterle l'una contro l'altra, saltellando intirizziti.
Per questo non compimmo tutta l'opera di seguito. Ci fermavamo a curiosare negli armaria, e ora che Guglielmo - coi suoi nuovi vetri sul naso - poteva attardarsi a leggere i libri, a ogni titolo che scopriva prorompeva in esclamazioni di allegrezza, o perché conosceva l'opera, o perché da tempo la cercava o infine perché non l'aveva mai sentita menzionare ed era oltremodo eccitato e incuriosito. Insomma, ogni libro era per lui come un animale favoloso che egli incontrasse in una terra sconosciuta. E
mentre lui sfogliava un manoscritto, mi ingiungeva di cercarne altri.
“Guarda cosa c'è in quell'armadio!”
E io, compitando e spostando volumi: “Historia anglorum di Beda... E sempre di Beda De aedificatione templi, De tabernaculo, De temporibus et computo et chronica et circuli Dyonisi, Ortographia, De ratione metrorum, Vita Sancti Cuthberti, Ars metrica...”
“E' naturale, tutte le opere del Venerabile... E guarda questi! De rhetorica cognatione, Locorum rhetoricorum distinctio, e qui tanti grammatici, Prisciano, Onorato, Donato, Massimio, Vittorino, Metrorio, Eutiche, Servio, Foca, Asperus...
Strano, pensavo a tutta prima che qui ci fossero autori dell'Anglia... Guardiamo più sotto...”
“Hisperica... famina. Cos'è?”
“Un poema ibernico. Ascolta:
Hoc spumans mundanas obvallat Pelagus oras
terrestres amniosis fluctibus cudit margines.
Saxeas undosis molibus irruit avionias.
Infima bomboso vertice miscet glareas
asprifero spergit spumas sulco,
sonoreis frequenter quatitur flabris...”
Io non capivo il senso, ma Guglielmo leggeva facendo rotolare le parole nella bocca in modo tale che pareva di udire il suono delle onde e della spuma marina.
“E questo? E' Adhelm di Malmesbury, sentite questa pagina: Primitus pantorum procerum poematorum pio potissimum paternoque presertim privilegio panegiricum poemataque passim prosatori sub polo promulgatas... Le parole cominciano tutte con la stessa lettera!”
“Gli uomini delle mie isole sono tutti un poco pazzi,” diceva Guglielmo con orgoglio.”Guardiamo nell'altro armadio.”
“Virgilio.”
“Come mai qui? Virgilio cosa? Le Georgiche?”
“No. Epitomi. Non ne avevo mai sentito parlare.”
“Ma non è il Marone! E' Virgilio di Tolosa, il retore, sei secoli dopo la nascita di Nostro Signore. Fu reputato un gran saggio...”
“Qui dice che le arti sono poema, rethoria, grama, leporia, dialecta, geometria... Ma che lingua parla?”
“Latino, ma un latino di sua invenzione, che egli reputava assai più bello.
Leggi qui: dice che l'astronomia studia i segni dello zodiaco che sono mon, man, tonte, piron, dameth, perfellea, belgalic, margaleth, lutamiron, taminon e raphalut.”
“Era matto?”
“Non lo so, non era delle mie isole. Senti ancora, dice che ci sono dodici modi di designare il fuoco, ignis, coquihabin (quia incocta coquendi habet dictionem), ardo, calax ex calore, fragon ex fragore flammae, rusin de rubore, fumaton, ustrax de urendo, vitius quia pene mortua membra suo vivificat, siluleus, quod de silice siliat, unde et silex non recte dicitur, nisi ex qua scintilla silit. E aeneon, de Aenea deo, qui in eo habitat, sive a quo elementis flatus fertur.”
“Ma non c'è nessuno che parla così!”
“Fortunatamente. Ma erano tempi in cui, per dimenticare un mondo cattivo, i grammatici si dilettavano di astruse questioni. Mi dissero che a quell'epoca per quindici giorni e quindici notti i retori Gabundus e Terentius discussero sul vocativo di ego, e infine vennero alle armi.”
“Ma anche questo, sentite...” avevo afferrato un libro meravigliosamente miniato con labirinti vegetali dai cui viticci si affacciavano scimmie e serpenti.
“Sentite che parole: cantamen, collamen, gongelamen, stemiamen, plasmamen, sonerus, alboreus, gaudifluus, glaucicomus...”
“Le mie isole,” disse di nuovo con tenerezza Guglielmo. “Non essere severo con quei monaci della lontana Hibernia, forse, se esiste questa abbazia, e se parliamo ancora di sacro romano impero, lo dobbiamo a loro. A quel tempo il resto dell'Europa
era ridotto a un ammasso di rovine, un giorno dichiararono invalidi i battesimi impartiti da alcuni preti nelle Gallie perché vi si battezzava in nomine patris et filiae, e non perché praticassero una nuova eresia e considerassero Gesù una donna, ma perché non sapevano più il latino.”
“Come Salvatore?”
“Più o meno. I pirati dell'estremo nord arrivavano lungo i fiumi a saccheggiare Roma. I templi pagani cadevano in rovina e quelli cristiani non esistevano ancora. E
furono solo i monaci dell'Hibernia che nei loro monasteri scrissero e lessero, lessero e scrissero, e miniarono, e poi si gettarono su navicelle fatte di pelle d'animale e navigarono verso queste terre e le evangelizzarono come foste infedeli, capisci? Sei stato a Bobbio, è stato fondato da san Colombano, uno di costoro. E dunque lasciali stare se inventavano un latino nuovo, visto che in Europa non si sapeva più quello vecchio. Furono uomini grandi. San Brandano arrivò sino alle isole Fortunate, e costeggiò le coste dell'inferno dove vide Giuda incatenato su uno scoglio, e un giorno approdò su un'isola e vi scese, ed era un mostro marino. Naturalmente erano pazzi,”
ripeté con soddisfazione.
“Le loro immagini sono... da non credere ai miei occhi! E quanti colori!” dissi, beandomi.
“In una terra che di colori ne ha pochi, un po' di azzurro e tanto verde. Ma non stiamo a discutere dei monaci hiberni. Quello che voglio sapere è perché sono qui con gli angli e con grammatici di altri paesi. Guarda sulla tua mappa, dove dovremmo essere?”
“Nelle stanze del torrione occidentale. Ho trascritto anche i cartigli. Dunque, uscendo dalla stanza cieca si entra nella sala eptagonale e c'è un solo passaggio a una sola stanza del torrione, la lettera in rosso è H. Poi si passa di stanza in stanza facendo il giro del torrione e si torna alla stanza cieca. La sequenza delle lettere dà...
avete ragione! HIBERNI!”
“HIBERNIA, se dalla stanza cieca torni nella eptagonale, che ha come tutte le altre tre la A di Apocalypsis. Perciò vi sono le opere degli autori dell'ultima Thule, e anche i grammatici e i retori, perché gli ordinatori della biblioteca han pensato che un grammatico deve stare coi grammatici hiberni, anche se è di Tolosa. E' un criterio.
Vedi che cominciamo a capire qualcosa?”
“Ma nelle stanze del torrione orientale da cui siamo entrati abbiamo letto FONS... Cosa significa?”
“Leggi bene la tua mappa, continua a leggere le lettere delle sale che seguono per ordine di accesso.”
“FONS ADAEU...”
“No, Fons Adae, la U è la seconda stanza cieca orientale, la ricordo, forse si inserisce in un'altra sequenza. E cosa abbiamo trovato al Fons Adae, e cioè nel paradiso terrestre (ricordati che ivi è la stanza con l'altare che dà verso il levar del sole)?”
“C'erano tante bibbie, e commenti alla bibbia, solo libri di scritture sacre.”
“E dunque vedi, la parola di Dio in corrispondenza al paradiso terrestre, che come tutti dicono è lontano verso oriente. E qui a occidente l'Hibernia.”
“Dunque il tracciato della biblioteca riproduce la mappa dell'universo mondo?”
“E' probabile. E i libri vi sono collocati secondo i paesi di provenienza, o il luogo dove nacquero i loro autori o, come in questo caso, il luogo dove avrebbero dovuto nascere. I bibliotecari si son detti che Virgilio il grammatico è nato per sbaglio a Tolosa e avrebbe dovuto nascere nelle isole occidentali. Hanno risistemato gli errori della natura.”
Proseguimmo il nostro cammino. Passammo per una sequenza di sale ricche di splendide Apocalissi, e una di queste era la stanza dove avevo avuto le visioni. Anzi, da lontano vedemmo di nuovo il lume, Guglielmo si turò il naso e corse a spegnerlo, sputando sulle ceneri. E ad ogni buon conto traversammo la stanza in fretta, ma ricordavo che vi avevo visto la bellissima Apocalisse multicolore con la mulier amicta sole e il drago. Ricostruimmo la sequenza di queste sale a partire dall'ultima a cui accedemmo e che aveva come iniziale in rosso una Y. La lettura all'indietro diede la parola YSPANIA, ma l'ultima A era la stessa su cui terminava HIBERNIA. Segno, disse
Guglielmo, che rimanevano delle stanze in cui si raccoglievano opere di carattere misto.
In ogni caso la zona denominata YSPANIA ci parve popolata di molti codici dell'Apocalisse, tutti di bellissima fattura, che Guglielmo riconobbe come arte ispanica. Rilevammo che la biblioteca aveva forse la più ampia raccolta di copie del libro dell'apostolo che esistesse nella cristianità, e una quantità immensa di commenti su quel testo. Volumi enormi erano dedicati al commentario sull'Apocalisse di Beato di Liébana, e il testo era più o meno sempre lo stesso, ma trovammo una fantastica varietà di variazioni nelle immagini e Guglielmo riconobbe la menzione di alcuni tra coloro che egli riteneva tra i massimi miniatori del regno delle Asturie, Magius, Facundus e altri.
Facendo queste e altre osservazioni pervenimmo al torrione meridionale, nei cui pressi eravamo già passati la sera precedente. La stanza S di YSPANIA - senza finestre - immetteva in una stanza E e via via girando le cinque stanze del torrione arrivammo all'ultima, senza altri varchi, che recava una L in rosso. Rileggemmo al contrario e trovammo LEONES.
“Leones, meridione, nella nostra mappa siamo in Africa, hic sunt leones. E
questo spiega perché vi abbiamo trovato tanti testi di autori infedeli.”
“E altri ve ne sono,” dissi frugando negli armadi.” Canone di Avicenna, e questo bellissimo codice in calligrafia che non conosco...”
“A giudicare dalle decorazioni dovrebbe essere un corano, ma purtroppo non conosco l'arabo.”
“Il corano, la bibbia degli infedeli, un libro perverso...”
“Un libro che contiene una saggezza diversa dalla nostra. Ma comprendi perché lo abbiano posto qui, dove stanno i leoni, i mostri. Ecco perché vi abbiamo visto quel libro sulle bestie mostruose dove hai trovato anche l'unicorno. Questa zona detta LEONES contiene quelli che per i costruttori della biblioteca erano i libri della menzogna. Cosa c'è laggiù?”
“Sono in latino, ma dall'arabo. Ayyub al Ruhawi, un trattato sull'idrofobia canina. E questo è un libro dei tesori. E questo il De aspectibus di Alhazen...”
“Vedi, hanno posto tra i mostri e le menzogne anche opere di scienza da cui i cristiani hanno tanto da imparare. Così si pensava ai tempi in cui la biblioteca fu costituita...”
“Ma perché hanno posto tra le falsità anche un libro con l'unicorno?”
domandai.
“Evidentemente i fondatori della biblioteca avevano strane idee. Avran ritenuto che questo libro che parla di bestie fantastiche e che vivono in paesi lontani facesse parte del repertorio di menzogne diffuso dagli infedeli...”
“Ma l'unicorno è una menzogna? E' un animale dolcissimo e altamente simbolico. Figura di Cristo e della castità, esso può essere catturato solo ponendo una vergine nel bosco, in modo che l'animale sentendone l'odore castissimo vada ad adagiarle il capo in grembo, offrendosi preda ai lacciuoli dei cacciatori.”
“Così si dice, Adso. Ma molti inclinano a ritenere che sia una invenzione favolistica dei pagani.”
“Che delusione,” dissi. “Mi sarebbe piaciuto incontrarne uno attraversando un bosco. Altrimenti che piacere c'è ad attraversare un bosco?”
“Non è detto che non esista. Forse è diverso da come lo rappresentano questi libri. Un viaggiatore veneziano andò in terre molto lontane, assai vicine al fons paradisi di cui dicono le mappe, e vide unicorni. Ma li trovò rozzi e sgraziati, e bruttissimi e neri. Credo abbia visto delle bestie vere con un corno sulla fronte.
Furono probabilmente le stesse che i maestri della sapienza antica, mai del tutto erronea, che ricevettero da Dio l'opportunità di vedere cose che noi non abbiamo visto, ci tramandarono con una prima descrizione fedele. Poi questa descrizione, viaggiando da auctoritas ad auctoritas, si trasformò per successive composizioni della fantasia, e gli unicorni divennero animali leggiadri e bianchi e mansueti. Per cui se saprai che in un bosco vive un unicorno, non andarci con una vergine, perché l'animale potrebbe essere più simile a quello del testimone veneziano che a quello di questo libro.”
“Ma come avvenne che i maestri della sapienza antica ebbero da Dio la rivelazione sulla vera natura dell'unicorno?”
“Non la rivelazione, ma l'esperienza. Ebbero la ventura di nascere in terre in cui vivevano unicorni o in tempi in cui gli unicorni vivevano in queste stesse terre.”
“Ma allora come possiamo fidarci della sapienza antica, di cui voi ricercate sempre la traccia, se essa ci è trasmessa da libri mendaci che la hanno interpretata con tanta licenza?”
“I libri non sono fatti per crederci, ma per essere sottoposti a indagine. Di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica ma cosa vuole dire, idea che i vecchi commentatori dei libri sacri ebbero chiarissima. L'unicorno così come ne parlano questi libri cela una verità morale, o allegorica, o anagogica, che rimane vera, come rimane vera l'idea che la castità sia una nobile virtù. Ma quanto alla verità letterale che sostiene le altre tre, rimane da vedere da quale dato di esperienza originaria è nata la lettera. La lettera deve essere discussa, anche se il sovrasenso
rimane buono. In un libro sta scritto che il diamante si taglia solo col sangue di capro.
Il mio grande maestro Ruggiero Bacone disse che non era vero, semplicemente perché lui ci aveva provato, e non c'era riuscito. Ma se il rapporto tra diamante e sangue caprino avesse avuto un senso superiore, questo rimarrebbe intatto.”
“Allora si possono dire verità superiori mentendo quanto alla lettera,” dissi. “E
però mi dispiace ancora che l'unicorno così com'è non esista, o non sia esistito, o non possa esistere un giorno.”
“Non ci è lecito porre limiti all'onnipotenza divina, e se Dio volesse potrebbero esistere anche gli unicorni. Ma consolati, essi esistono in questi libri, i quali se non parlano dell'essere reale parlano dell'essere possibile.”
“Ma bisogna dunque leggere i libri senza far ricorso alla fede, che è virtù teologale?”
“Rimangono altre due virtù teologali. La speranza che il possibile sia. E la carità, verso chi ha creduto in buona fede che il possibile fosse.”
“Ma cosa serve a voi l'unicorno se il vostro intelletto non vi crede?”
“Serve come mi è servita la traccia dei piedi di Venanzio sulla neve, trascinato al tino dei maiali. L'unicorno dei libri è come una impronta. Se vi è l'impronta deve esserci stato qualcosa di cui è impronta.”
“Ma diverso dall'impronta, mi dite.”
“Certo. Non sempre un'impronta ha la stessa forma del corpo che l'ha impressa e non sempre nasce dalla pressione di un corpo. Talora riproduce l'impressione che un corpo ha lasciato nella nostra mente, è impronta di una idea. L'idea è segno delle cose, e l'immagine è segno dell'idea, segno di un segno. Ma dall'immagine ricostruisco, se non il corpo, l'idea che altri ne aveva.”
“E questo vi basta?”
“No, perché la vera scienza non deve accontentarsi delle idee, che sono appunto segni, ma deve ritrovare le cose nella loro verità singolare. E dunque mi piacerebbe risalire da questa impronta di una impronta all'unicorno individuo che sta all'inizio della catena. Così come mi piacerebbe risalire dai segni vaghi lasciati dall'assassino di Venanzio (segni che potrebbero rimandare a molti) a un individuo unico, l'assassino stesso. Ma non sempre è possibile in breve tempo, e senza la mediazione di altri segni.”
“Ma allora posso sempre e solo parlare di qualcosa che mi parla di qualcosa d'altro e via di seguito, ma il qualcosa finale, quello vero, non c'è mai?”
“Forse c'è, è l'unicorno individuo. E non preoccuparti, un giorno o l'altro lo incontrerai, per nero e brutto che sia.”
“Unicorni, leoni, autori arabi e mori in genere,” dissi a quel punto,”senza dubbio questa è l'Africa di cui parlavano i monaci.”
“Senza dubbio è questa. E se è questa dovremmo trovare i poeti africani a cui accennava Pacifico da Tivoli.”
E infatti, rifacendo il cammino a ritroso e tornando nella stanza L, trovai in un armadio una raccolta di libri di Floro, Frontone, Apuleio, Marziano Capella e Fulgenzio.
“Quindi è qui che Berengario diceva che avrebbe dovuto esserci la spiegazione di un certo segreto,” dissi.
“Quasi qui. Egli usò l'espressione «finis Africae», ed è a questa espressione che Malachia si adontò tanto. Il finis potrebbe essere quest'ultima stanza, oppure...”
ebbe una esclamazione: “ Per le sette chiese di Clonmacnois! Non hai notato nulla?”
“Cosa?”
“Torniamo indietro, alla stanza S da cui siamo partiti!”
Tornammo alla prima stanza cieca dove il versetto diceva: Super thronos viginti quatuor. Essa aveva quattro aperture. Una dava sulla stanza Y, con finestra sull'ottagono. L'altra dava sulla stanza P che continuava, lungo la facciata esterna, la sequenza YSPANIA. Quella verso il torrione immetteva nella stanza E che avevamo appena percorso. Poi c'era una parete piena e infine un'apertura che immetteva in una seconda stanza cieca con l'iniziale U. La stanza S era quella dello specchio, e fortuna che esso si trovava sulla parete immediatamente alla mia destra, altrimenti di nuovo sarei stato preso da paura.
Guardando bene la mappa mi resi conto della singolarità di quella stanza.
Come tutte le altre stanze cieche degli altri tre torrioni avrebbe dovuto immettere alla stanza eptagonale centrale. Se non lo faceva, l'ingresso all'eptagono avrebbe dovuto aprirsi nella stanza cieca adiacente, la U. Invece questa, che immetteva per un'apertura a una stanza T con finestra sull'ottagono interno, e per l'altra si collegava alla stanza S, aveva le altre tre pareti piene e occupate da armadi. Guardandoci intorno rilevammo quello che ormai era evidente anche dalla mappa: per ragioni di logica oltre che di rigorosa simmetria, quel torrione doveva avere la sua stanza eptagonale, ma essa non c'era.
“Non c'è,” dissi.
“Non è che non ci sia. Se non ci fosse, le altre stanze sarebbero più grandi, mentre sono più o meno del formato di quelle degli altri lati. C'è, ma non ci si arriva.”
“E' murata?”
“Probabilmente. Ed ecco il finis Africae, ecco il luogo intorno a cui si aggiravano quei curiosi che sono morti. E' murata, ma non è detto che non vi sia un passaggio. Anzi, sicuramente c'è, e Venanzio lo aveva trovato, o ne aveva avuto la descrizione da Adelmo, e questi da Berengario. Rileggiamo i suoi appunti.”
Trasse dal saio la carta di Venanzio e rilesse: “La mano sopra l'idolo opera sul primo e sul settimo dei quattro.” Si guardò intorno: “Ma certo! L'idolum è l'immagine dello specchio! Venanzio pensava in greco e in quella lingua, più ancora che nella nostra, eidolon è sia immagine che spettro, e lo specchio ci rinvia la nostra immagine deformata che noi stessi, l'altra notte, abbiamo scambiato con uno spettro!
Ma cosa saranno allora i quattro supra speculum? Qualcosa sopra la superficie riflettente? Ma allora dovremmo porci da un certo punto di vista in modo da poter scorgere qualcosa che si riflette nello specchio e che corrisponde alla descrizione data da Venanzio...”
Ci muovemmo in tutte le direzioni, ma senza risultato. Al di là delle nostre immagini, lo specchio rinviava confusi contorni del resto della sala, a mala pena illuminata dalla lampada.
“Allora,” meditava Guglielmo,”per supra speculum potrebbe voler intendere al di là dello specchio... Il che imporrebbe che prima andassimo al di là, perché certamente questo specchio è una porta...”
Lo specchio era alto più di un uomo normale, incassato nel muro da una robusta cornice di quercia. Lo toccammo in tutte le guise, cercammo di insinuare le nostre dita, le nostre unghie tra la cornice e il muro, ma lo specchio stava saldo come se del muro fosse parte, pietra nella pietra.
“E se non è al di là, potrebbe essere super speculum,” mormorava Guglielmo, e intanto alzava il braccio e si levava in punta di piedi, e faceva scorrere la mano sul bordo superiore della cornice, senza trovar altro che polvere.
“D'altra parte,” rifletteva melanconicamente Guglielmo,”se pure lì dietro ci fosse una stanza, il libro che cerchiamo e che altri cercarono, in quella stanza non c'è più, perché lo hanno portato via, prima Venanzio e poi, chissà dove, Berengario.”
“Ma forse Berengario lo ha riportato qui.”
“No, quella sera noi eravamo in biblioteca, e tutto ci fa credere che egli sia morto non molto tempo dopo il furto, quella notte stessa nei balnea. Altrimenti lo avremmo rivisto il mattino successivo. Non importa... Per ora abbiamo appurato dove stia il finis Africae e abbiamo quasi tutti gli elementi per perfezionare meglio la mappa della biblioteca. Devi ammettere che molti dei misteri del labirinto si sono ormai chiariti. Tutti, direi, meno uno. Credo che trarrò più partito da una rilettura attenta del manoscritto di Venanzio che da altre ispezioni. Hai visto che il mistero del labirinto lo abbiamo scoperto meglio da fuori che da dentro. Questa sera, di fronte alle nostre immagini distorte, non verremo a capo del problema. E infine, il lume sta indebolendosi. Vieni, mettiamo a punto le altre indicazioni che ci servono per definire la mappa.”
Percorremmo altre sale, sempre registrando le nostre scoperte sulla mia mappa.
Incontrammo stanze dedicate soltanto a scritti di matematica e astronomia, altre con opere in caratteri aramaici che nessuno di noi due conosceva, altre in caratteri più ignoti ancora, forse testi dell'India. Ci muovevamo entro due sequenze imbricate che dicevano IUDAEA e AEGYPTUS. Insomma, per non attediare il lettore con la cronaca della nostra decifrazione, quando più tardi mettemmo definitivamente a punto la mappa, ci convincemmo che la biblioteca era davvero costituita e distribuita secondo l'immagine dell'orbe terraqueo. A settentrione trovammo ANGLIA e GERMANI, che lungo la parete occidentale si legavano a GALLIA, per poi generare all'estremo occidente HIBERNIA e verso la parete meridionale ROMA (paradiso di classici latini!) e YSPANIA. Venivano poi a meridione i LEONES, l'AEGYPTUS
che verso oriente diventavano IUDAEA e FONS ADAE. Tra oriente e settentrione, lungo la parete, ACAIA, una buona sineddoche, come si espresse Guglielmo, per indicare la Grecia, e infatti in quelle quattro stanze vi era gran dovizia di poeti e filosofi dell'antichità pagana.
Il modo di lettura era bizzarro, talora si procedeva in un'unica direzione, talora si andava a ritroso, talora in circolo, spesso come ho detto una lettera serviva a comporre due parole diverse (e in quei casi la stanza aveva un armadio dedicato a un argomento e uno a un altro). Ma non c'era evidentemente da cercare una regola aurea in quella disposizione. Si trattava di mero artifizio mnemonico per permettere al bibliotecario di ritrovare un'opera. Dire di un libro che si trovava in quarta Acaiae significava che era nella quarta stanza a contare da quella in cui appariva la A iniziale, e quanto al modo di individuarla, si supponeva che il bibliotecario sapesse a memoria il percorso, o retto o circolare, da fare. Per esempio ACAIA era distribuito su quattro stanze disposte a quadrato, il che vuol dire che la prima A era anche l'ultima, cosa che peraltro anche noi avevamo appreso in poco tempo. Così come avevamo subito appreso il gioco degli sbarramenti. Per esempio, venendo da oriente, nessuna delle stanze di ACAIA immetteva nelle stanze seguenti: il labirinto a quel punto terminava e per raggiungere il torrione settentrionale occorreva passare dagli altri tre. Ma naturalmente i bibliotecari, entrando dal FONS, sapevano bene che per andare, poniamo, in ANGLIA, dovevano attraversare AEGYPTUS, YSPANIA, GALLIA e GERMANI.
Con queste e altre belle scoperte terminò la nostra fruttuosa esplorazione alla biblioteca. Ma prima di dire che, soddisfatti, ci accingemmo a uscirne (per diventar partecipi di altri eventi di cui tra poco racconterò), devo fare una confessione al mio lettore. Ho detto che la nostra esplorazione fu condotta da un lato cercando la chiave del misterioso luogo e dall'altro intrattenendoci via via, nelle sale che individuavamo quanto a collocazione e argomento, a sfogliate libri di vario genere, come se esplorassimo un continente misterioso o una terra incognita. E di solito questa esplorazione avvenne di comune accordo, io e Guglielmo intrattenendoci sugli stessi libri, io indicandogli i più curiosi, lui spiegandomi molte cose che non riuscivo a capire.
Ma a un certo punto, e proprio mentre ci aggiravamo per le sale del torrione meridionale, dette Leones, accadde che il mio maestro si soffermasse in una stanza ricca di opere arabe con curiosi disegni di ottica; e poiché quella sera disponevamo non di uno ma di due lumi, io mi spostai per curiosità nella stanza accanto, avvedendomi che la sagacia e la prudenza dei legislatori della biblioteca avevano radunato lungo una delle sue pareti libri che certo non potevano essere dati in lettura a chiunque, perché in modi diversi trattavano di svariate malattie del corpo e dello spirito, quasi sempre a opera di sapienti infedeli. E mi cadde l'occhio su di un libro non grande, adorno di miniature molto difformi (per fortuna!) dal tema, fiori, viticci, animali a coppia, qualche erba medicinale: il titolo era Speculum amoris, di fra Massimo da Bologna, e riportava citazioni di molte altre opere, tutte sulla malattia d'amore. Come il lettore capirà non ci voleva di più a risvegliate la mia curiosità malata. Anzi, proprio quel titolo bastò a riaccendere la mia mente, che dal mattino si era sopita, eccitandola di nuovo con l'immagine della fanciulla.
Poiché per tutto il giorno avevo ricacciato da me i pensieri mattinali, dicendomi che non erano da novizio sano ed equilibrato, e poiché d'altra parte gli eventi della giornata erano stati abbastanza ricchi e intensi da distrarmi, i miei appetiti si erano sopiti, sì che ormai credevo di essermi liberato da ciò che altro non era stata che una inquietudine passeggera. Invece bastò la vista di quel libro a farmi dire”de te fabula narratur” e a scoprirmi più malato d'amore di quanto non credessi.
Imparai dopo che, a leggere libri di medicina, ci si convince sempre di provare i dolori di cui essi parlano. Fu così che proprio la lettura di quelle pagine, sbirciate in fretta per timore che Guglielmo entrasse nella stanza e mi chiedesse su che cosa mi stavo dottamente intrattenendo, mi convinse che io soffrivo proprio di quella malattia, i cui sintomi erano così splendidamente descritti che, se da un lato mi preoccupavo nel trovarmi malato (e sulla scorta infallibile di tante auctoritates), dall'altro mi rallegravo nel veder dipinta con tanta vivacità la mia situazione; convincendomi che, se pur ero malato, la mia malattia era per così dire normale, dato che tanti altri ne avevano sofferto nello stesso modo, e gli autori citati sembravano aver preso proprio me a modello delle loro descrizioni.
Mi commossi così sulle pagine di Ibn Hazm, che definisce l'amore come una malattia ribelle, che ha la sua cura in se stessa, in cui chi è malato non vuole guarirne e chi ne è infermo non desidera riaversi (e Dio sa se non fosse vero!). Mi resi conto perché al mattino fossi così eccitato da tutto quel che vedevo, perché pare che
l'amore entri attraverso gli occhi come dice anche Basilio d'Ancira, e - sintomo inconfondibile - chi è preso da tale male manifesta una eccessiva gaiezza, mentre desidera al contempo starsene in disparte e predilige la solitudine (come io avevo fatto quel mattino), mentre altri fenomeni che lo accompagnano sono l'inquietudine violenta e lo sbalordimento che toglie le parole... Mi spaventai leggendo che al sincero amante, cui sia sottratta la vista dell'oggetto amato, non può che sopravvenire uno stato di consunzione che spesso arriva sino a fargli prendere il letto, e talora il male sopraffà il cervello, si perde il senno e si vaneggia (evidentemente non ero ancor giunto in quello stato, perché avevo lavorato assai bene nell'esplorare la biblioteca). Ma lessi con apprensione che se il male peggiora, può sopravvenirne la morte e mi chiesi se la gioia che la fanciulla mi dava a pensarla valesse questo sacrificio supremo del corpo, a parte ogni retta considerazione sulla salute dell'anima.
Anche perché trovai un'altra citazione di Basilio secondo il quale”qui animam corpori per vitia conturbationesque commiscent, utrinque quod habet utile ad vitam necessarium demoliuntur, animamque lucidam ac nitidam carnalium voluptatum limo perturbant, et corporis munditiam atque nitorem hac ratione miscentes, inutile hoc ad vitae officia ostendunt”. Situazione estrema in cui proprio non volevo trovarmi.
Appresi altresì da una frase di santa Hildegarda che quell'umor melanconico che in giornata avevo provato, e che attribuivo a dolce sentimento di pena per l'assenza della fanciulla, pericolosamente assomiglia al sentimento che prova chi devia dallo stato armonico e perfetto che l'uomo prova in paradiso, e che questa melanconia”nigra et amara” è prodotta dal soffio del serpente e dalla suggestione del diavolo. Idea condivisa anche da infedeli di pari saggezza, perché mi caddero sotto gli occhi le linee attribuite a Abu Bakr-Muhammad Ibn Zaka-riyya ar-Razi, che in un Liber continens identifica la melanconia amorosa con la licantropia, che spinge chi ne è colpito a comportarsi come un lupo. La sua descrizione mi serrò la gola: dapprima gli amanti appaiono mutati nel loro aspetto esteriore, la loro vista si indebolisce, gli occhi diventano cavi e senza lacrime, la lingua lentamente si essicca e su di essa appaiono delle pustole, tutto il corpo è secco e soffrono continuamente la sete; a questo punto trascorrono la loro giornata sdraiati a faccia in giù, sul viso e sulle tibie appaiono segni simili a morsi di cane, e infine di notte vagano per i cimiteri come lupi.
Non ebbi infine più dubbi sulla gravità del mio stato quando lessi citazioni dal grandissimo Avicenna, dove l'amore viene definito come un pensiero assiduo di natura melanconica, che nasce a causa del pensare e ripensare le fattezze, i gesti o i costumi di una persona di sesso opposto (come Avicenna aveva rappresentato con fedele vivacità il caso mio!): esso non nasce come malattia ma malattia diviene quando non essendo soddisfatto diventa pensiero ossessivo (e perché mai mi sentivo ossessionato io che pure, Dio mi perdoni, mi ero ben soddisfatto? o forse ciò che era avvenuto la notte precedente non era soddisfazione d'amore? ma come si soddisfa allora questo male?), e come conseguenza si ha un moto continuo delle palpebre, un respiro irregolare, ora si ride e ora si piange, e il polso batte (e invero il mio batteva, e il respiro si spezzava mentre leggevo quelle righe!). Avicenna consigliava un
metodo infallibile già proposto da Galeno per scoprire di chi qualcuno sia innamorato: tenere il polso del dolente e pronunciare molti nomi di persone d'altro sesso, sino a che si avverta a quale nome il ritmo del polso si accelera: e io temevo che di colpo entrasse il mio maestro e mi afferrasse il braccio e spiasse nella pulsazione delle mie vene il mio segreto, del che molto mi sarei vergognato... Ahimè, Avicenna suggeriva, come rimedio, di unire i due amanti in matrimonio, e il male sarebbe guarito. Proprio vero che era un infedele, se pure avveduto, perché non teneva conto della condizione di un novizio benedettino, condannato dunque a non guarire mai - o meglio consacratosi, per sua scelta, o per oculata scelta dei suoi parenti, a mai ammalarsi. Per fortuna Avicenna, sia pure non pensando all'ordine cluniacense, considerava il caso di amanti non ricongiungibili, e consigliava come cura radicale i bagni caldi (che Berengario volesse guarire del suo mal d'amore per lo scomparso Adelmo? ma si poteva soffrire mal d'amore per un essere del proprio sesso, o quella non era che bestiale lussuria? e forse non era bestiale la lussuria della mia notte passata? no certo, mi dicevo subito, era dolcissima - e subito dopo: sbagli Adso, quella fu illusione del diavolo, bestialissima era, e se hai peccato a essere bestia pecchi ancora più ora a non volertene rendere conto!). Ma poi lessi anche che, sempre secondo Avicenna, vi erano pure altri mezzi: per esempio, ricorrere all'assistenza di donne vecchie ed esperte che passino il tempo a denigrare l'amata - e pare che le donne vecchie siano più esperte degli uomini in questa bisogna. Forse questa era la soluzione, ma donne vecchie all'abbazia non ne potevo trovare (né giovani, invero) e dunque avrei dovuto chiedere a qualche monaco di parlarmi male della ragazza, ma a chi? E poi, poteva un monaco conoscere bene le donne come le conosceva una donna vecchia e pettegola? L'ultima soluzione suggerita dal saraceno era addirittura invereconda perché postulava che si facesse congiungere l'amante infelice con molte schiave, cosa assai inconveniente per un monaco. Infine, mi dicevo, come può guarire di mal d'amore un giovane monaco, non c'è proprio salvezza per lui? Forse dovevo ricorrere a Severino e alle sue erbe? Infatti trovai un brano di Arnaldo da Villanova, autore che già avevo sentito citare con molta considerazione da Guglielmo, il quale faceva nascere il mal d'amore da una abbondanza di umori e di pneuma, quando cioè l'organismo umano si trova in eccesso di umidità e calore, dato che il sangue (che produce il seme generativo) crescendo per eccesso provoca eccesso di seme, una”complexio venerea”, e un desiderio intenso di unione tra uomo e donna. C'è una virtù estimativa situata nella parte dorsale del ventricolo medio dell'encefalo (cos'è, mi chiesi?) il cui scopo è percepire le intentiones non sensibili che sono negli oggetti sensibili captati dai sensi, e quando il desiderio per l'oggetto percepito dai sensi si fa troppo forte ecco che la facoltà estimativa ne è sconvolta, e si pasce solo del fantasma della persona amata; allora si verifica una infiammazione di tutta l'anima e il corpo, con la tristezza alternata alla gioia, perché il calore (che nei momenti di disperazione scende nelle parti più profonde del corpo e raggela la cute) nei momenti di gioia sale alla superficie infiammando il volto. La cura suggerita da Arnaldo consisteva nel cercare di perdere la confidenza e la speranza di raggiungere l'oggetto amato, in modo che il pensiero se ne allontanasse.
Ma allora sono guarito, o in via di guarigione, mi dissi, perché ho poca o nessuna speranza di rivedere l'oggetto dei miei pensieri, e se lo vedessi di raggiungerlo, e se lo raggiungessi di possederlo di nuovo, e se lo ripossedessi di trattenerlo presso di me, sia a cagione del mio stato monacale che dei doveri che mi sono imposti dal rango della mia famiglia... Sono salvo, mi dissi, chiusi il fascicolo e mi ricomposi, proprio mentre Guglielmo entrava nella stanza. Ripresi con lui il viaggio attraverso il labirinto ormai svelato (come ho già raccontato) e per il momento scordai la mia ossessione.
Come si vedrà l'avrei ritrovata entro breve tempo, ma in circostanze (ahimè!) ben diverse.
Quarto giorno
Notte
Dove Salvatore si fa miseramente scoprire da Bernardo Gui, la ragazza amata da Adso viene presa come strega e tutti
vanno a letto più infelici e preoccupati di prima
Stavamo infatti ridiscendendo nel refettorio quando udimmo dei clamori, e delle luci fievoli balenarono dalla parte della cucina. Guglielmo spense di colpo il lume. Seguendo i muri ci avvicinammo alla porta che dava sulla cucina, e sentimmo che il rumore proveniva dall'esterno, salvo che la porta era aperta. Poi le voci e le luci si allontanarono, e qualcuno chiuse con violenza la porta. Era un tumulto grande che preludeva a qualcosa di sgradevole. Velocemente ripassammo per l'ossario, riapparimmo nella chiesa, deserta, uscimmo dal portale meridionale, e scorgemmo un baluginare di fiaccole nel chiostro.
Ci appressammo, e nella confusione pareva che fossimo accorsi anche noi insieme ai molti che già erano sul luogo, usciti vuoi dal dormitorio vuoi dalla casa dei pellegrini. Vedemmo che gli arcieri stavano tenendo saldamente Salvatore, bianco come il bianco dei suoi occhi, e una donna che piangeva. Provai una stretta al cuore: era lei, la ragazza dei miei pensieri. Come mi vide mi riconobbe e mi lanciò uno sguardo implorante e disperato. Ebbi l'impulso di lanciarmi a liberarla, ma Guglielmo mi trattenne sussurrandomi alcuni improperi per nulla affettuosi. I monaci e gli ospiti ora accorrevano da ogni parte.
Arrivò l'Abate, arrivò Bernardo Gui, a cui il capitano degli arcieri fece un breve rapporto. Ecco cos'era accaduto.
Per ordine dell'inquisitore essi pattugliavano nottetempo l'intera spianata, con particolare attenzione per il viale che andava dal portale d'ingresso alla chiesa, la zona degli orti, e la facciata dell'Edificio (perché? mi chiesi, e capii: evidentemente perché Bernardo aveva raccolto dai famigli o dai cucinieri voci su alcuni traffici notturni, magari senza sapere chi esattamente ne fossero i responsabili, che avvenivano tra l'esterno della cinta e le cucine, e chissà che lo stolido Salvatore, come aveva detto a me dei suoi propositi, non ne avesse già parlato in cucina o nelle stalle a qualche sciagurato che, intimorito dall'interrogatorio del pomeriggio, aveva gettato in pasto a Bernardo questa mormorazione). Nel girare circospetti e al buio tra la nebbia, gli arcieri avevano finalmente sorpreso Salvatore, in compagnia della donna, mentre armeggiava davanti alla porta della cucina.
“Una donna in questo luogo santo! E con un monaco!” disse severamente Bernardo rivolgendosi all'Abate. “Signore magnificentissimo,” proseguì, “se si trattasse solo della violazione del voto di castità, la punizione di quest'uomo sarebbe cosa di vostra giurisdizione. Ma poiché non sappiamo ancora se i maneggi di questi due sciagurati abbiano qualcosa a che vedere con la salute di tutti gli ospiti,
dobbiamo prima far luce su questo mistero. Orsù, dico a te, miserabile,” e strappava dal petto di Salvatore l'evidente involto che quello credeva di celare,”cos'hai lì dentro?”
Io già lo sapevo: un coltello, un gatto nero che, aperto che fu l'involto, fuggì miagolando infuriato, e due uova, ormai rotte e viscide, che a tutti parvero sangue, o bile gialla, o altra sostanza immonda. Salvatore stava per entrare in cucina, ammazzare il gatto e cavargli gli occhi, e chissà con quali promesse aveva indotto la ragazza a seguirlo. Con quali promesse, lo seppi subito. Gli arcieri frugarono la ragazza, tra risate maliziose e mezze parole lascive, e le trovarono addosso un galletto morto, ancora da spennare. Sfortuna volle che nella notte, in cui tutti i gatti sono grigi, il gallo apparisse nero anch'esso come il gatto. Io pensai, invece, che non ci voleva di più per attrarla, la povera affamata che già la notte scorsa aveva abbandonato (e per amor mio!) il suo prezioso cuore di bue...
“Ah ah!” esclamò Bernardo con tono di gran preoccupazione,”gatto e gallo nero... Ma io li conosco questi parafernali...” Scorse Guglielmo tra gli astanti: “Non li conoscete anche voi, frate Guglielmo? Non foste inquisitore a Kilkenny, tre anni fa, dove quella ragazza aveva commercio con un demone che le appariva sotto le specie di un gatto nero?”
Mi parve che il mio maestro tacesse per viltà. Gli afferrai la manica, lo scossi, gli sussurrai disperato: “Ma ditegli che era per mangiare...”
Egli si liberò dalla mia presa e si rivolse educatamente a Bernardo: “Non credo voi abbiate bisogno delle mie antiche esperienze per arrivare alle vostre conclusioni,”
disse.
“Oh no, ci sono testimonianze ben più autorevoli,” sorrise Bernardo.”Stefano di Borbone racconta nel suo trattato sui sette doni dello spirito santo come san Domenico, dopo aver predicato a Fanjeaux contro gli eretici, annunciò a certe donne che esse avrebbero visto chi avevano servito sino ad allora. E di colpo balzò in mezzo a loro un gatto spaventoso dalle dimensioni di un grosso cane, con gli occhi grandi e infocati, la lingua sanguinolenta che arrivava sino all'ombelico, la coda corta e ritta in aria in modo che comunque l'animale si girasse mostrava la turpitudine del suo di dietro, fetido quanti altri mai, come si conviene a quell'ano che molti devoti di Satana, non ultimi i cavalieri templari, hanno sempre usato baciare nel corso delle loro riunioni. E dopo aver girato intorno alle donne per un'ora, il gatto balzò sulla corda della campana e vi si arrampicò, lasciando indietro i suoi resti puteolenti. E
non è il gatto l'animale amato dai catari, che secondo Alano delle Isole si chiamano così proprio da catus, perché di questa bestia baciano le terga ritenendole incarnazione di Lucifero? E non conferma questa disgustosa pratica anche Guglielmo d'Alvernia nel De legibus? E non dice Alberto Magno che i gatti sono demoni in potenza? E non riporta il mio venerabile confratello Jacques Fournier che sul letto di morte dell'inquisitore Gaufrido da Carcassonne apparvero due gatti neri, che altro non erano che demoni che volevano dileggiare quelle spoglie?”
Un mormorio di orrore percorse il gruppo dei monaci, molti dei quali si fecero il segno della santa croce.
“Signor Abate, signor Abate,” diceva frattanto Bernardo con aria virtuosa,”forse la magnificenza vostra non sa cosa sono usi fare i peccatori con questi strumenti! Ma lo so ben io, Dio non volesse! Ho visto donne scelleratissime, nelle ore più buie della notte, insieme con altre della loro risma, usare di gatti neri per ottenere prodigi che non poterono mai negare: così da andare a cavalcioni di certi animali, e percorrere col favore notturno spazi immensi, trascinando i loro schiavi, trasformati in incubi vogliosissimi... E il diavolo stesso si mostra loro, o almeno loro lo credono fortemente, sotto forma di gallo, o di altro animale nerissimo, e con quello persino, non domandatemi come, congiacciono. E so di certo che con negromanzie del genere, non è molto, proprio in Avignone, si prepararono filtri e unguenti per attentare alla vita dello stesso signor papa, avvelenandogli i cibi. Il papa poté difendersene e individuare il tossico solo perché era munito di prodigiosi gioielli in forma di lingua di serpente, fortificati da mirabili smeraldi e rubini che per virtù divina servivano a rivelare la presenza di veleno nei cibi! Undici gliene aveva regalate il re di Francia, di queste lingue preziosissime, grazie al cielo, e solo così il nostro signor papa poté scampare alla morte! E' vero che i nemici del pontefice fecero anche di più, e tutti sanno cosa si scoprì dell'eretico Bernard Délicieux arrestato dieci anni fa: gli furono trovati in casa libri di magìa nera annotati proprio alle pagine più scellerate, con tutte le istruzioni per costruire figure di cera onde recar danno ai suoi nemici. E ci credereste, in casa gli furono pure trovate figure che riproducevano, con arte certo ammirevole, l'immagine stessa del papa, con circoletti rossi sulle parti vitali del corpo: e tutti sanno che tali figure, tenute appese per una corda, le si pone davanti a uno specchio e poi si colpiscono i circoli vitali con degli spilli e... Oh, ma perché mi attardo in queste miserie disgustose? Il papa stesso ne ha parlato e le ha descritte, condannandole, proprio l'anno scorso, nella sua costituzione Super illius specula! E spero proprio che ne abbiate copia in questa vostra ricca biblioteca, per meditarvi come si deve...”
“L'abbiamo, l'abbiamo,” confermò fervidamente l'Abate, turbatissimo.
“Va bene,” concluse Bernardo.”Ormai il fatto mi pare chiaro. Un monaco sedotto, una strega, e qualche rito che per fortuna non ha avuto luogo. A quali fini? E'
quel che sapremo, e voglio sottrarre alcune ore al sonno per saperlo. La vostra magnificenza voglia mettermi a disposizione un luogo dove quest'uomo possa essere custodito...”
“Abbiamo delle celle nel sottosuolo del laboratorio dei fabbri,” disse l'Abate,”che per fortuna si usano assai poco e sono vuote da anni...”
“Per fortuna o per sfortuna,” osservò Bernardo. E ordinò agli arcieri di farsi mostrare la strada e condurre in due celle diverse i due catturati; e di legare bene l'uomo a qualche anello infisso nel muro, in modo che egli potesse fra breve scendere a interrogarlo guardandolo bene in viso. Quanto alla ragazza, aggiunse, chi fosse era chiaro, e non valeva la pena di interrogarla quella notte. Altre prove l'avrebbero attesa prima di bruciarla come strega. E se strega era, non avrebbe facilmente parlato.
Ma il monaco forse, si poteva ancora pentire (e fissava Salvatore tremante, come a fargli intendere che gli offriva ancora una possibilità), raccontando la verità e, aggiunse, denunciando i suoi complici.