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Mar 29, 2019

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Ultima settimana del novembre 1327. Ludovico il Bavaro assedia Pisa e si dispone a scendere verso Roma, il papa è ad Avignone e insiste per avere al suo cospetto Michele da Cesena, generale dei francescani, i quali qualche anno prima hanno proclamato a Perugia che Cristo non ha avuto proprietà alcuna. Dottrina eretica, come eretici sono i fraticelli, i cui roghi illuminano l'Italia e la Francia, come eretiche erano le bande armate di fra Dolcino, debellato e bruciato da due decenni. Su questo sfondo storico si svolge la vicenda di questo romanzo, ovvero del manoscritto misterioso di Adso da Melk, un novizio benedettino che ha accompagnato in una abbazia dell'alta Italia frate Guglielmo da Baskerville, incaricato di una sottile e imprecisa missione diplomatica. Ex inquisitore, amico di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova, frate Guglielmo si trova a dover dipanare una serie di misteriosi delitti (sette in sette giorni, perpetrati nel chiuso della cinta abbaziale) che insanguinano una biblioteca labirintica e inaccessibile. Guglielmo risolverà il caso, forse troppo tardi, in termini di giorni, forse troppo presto, in termini di secoli. E per farlo dovrà decifrare indizi di ogni genere, dal comportamento dei santi a quello degli eretici, dalle scritture negromantiche al linguaggio delle erbe, da manoscritti in lingue ignote alle mosse diplomatiche degli uomini del potere. Difficile da definire (gothic novel, cronaca medievale, romanzo poliziesco, racconto ideologico a chiave, allegoria) questo romanzo (la cui storia si intreccia con la Storia - perché l'autore, forse mendacemente, asserisce che di suo non vi è una sola parola) può forse essere letto in tre modi. La prima categoria di lettori sarà avvinta dalla trama e dai colpi di scena, e accetterà anche le lunghe discussioni libresche, e i dialoghi filosofici, perché avvertirà che proprio in quelle pagine svagate si annidano i segni, le tracce, i sintomi rivelatori. La seconda categoria si appassionerà al dibattito di idee, e tenterà connessioni (che l'autore si rifiuta di autorizzare) con la nostra attualità. La terza si renderà conto che questo testo è un tessuto di altri testi, un «giallo» di citazioni, un libro fatto di libri. A ciascuna delle tre categorie l'autore comunque rifiuta di rivelare che cosa il libro voglia dire. Se avesse voluto sostenere una tesi, avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto). Se ha scritto un romanzo è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare. Umberto Eco è nato ad Alessandria (Piemonte) nel 1932. Ordinario di semiotica all'università di Bologna, è autore di molte opere saggistiche. Ha esordito nel 1956 con uno studio sull'estetica medievale. Il suo ultimo libro, del 1979, riguarda la situazione del lettore nei labirinti della narratività. Naturalmente, un manoscritto Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d'après l'édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l'Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato da indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell'ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio. In un clima mentale di grande eccitazione leggevo, affascinato, la terribile storia di Adso da Melk, e tanto me ne lasciai assorbire che quasi di getto ne stesi una traduzione, su alcuni grandi quaderni della Papéterie Joseph Gibert, su cui è tanto piacevole scrivere se la penna è morbida. E così facendo arrivammo nei pressi di Melk, dove ancora, a picco su un'ansa del fiume, si erge il bellissimo Stift più volte restaurato nei secoli. Come il lettore avrà immaginato, nella biblioteca del monastero non trovai traccia del manoscritto di Adso. Prima di arrivare a Salisburgo, una tragica notte in un piccolo albergo sulle rive del Mondsee, il mio sodalizio di viaggio bruscamente si interruppe e la persona con cui viaggiavo scomparve portando seco il libro dell'abate Vallet, non per malizia, ma a causa del modo disordinato e abrupto con cui aveva avuto fine il nostro rapporto. Mi rimase così una serie di quaderni manoscritti di mio pugno, e un gran vuoto nel cuore. Alcuni mesi dopo a Parigi decisi di andare a fondo nella mia ricerca. Delle poche notizie che avevo tratto dal libro francese, mi rimaneva il riferimento alla fonte, eccezionalmente minuto e preciso: «Vetera analecta, sive collectio veterum aliquot opera et opusculorum omnis generis, carminum, epistolarum, diplomaton, epitaphiorum, et, cum itinere germanico, adaptationibus aliquot disquisitionibus R.P.D. Joannis Mabillon, Presbiteri ac Monachi Ord. Sancti Benedicti e Congregatione S. Mauri. - Nova Editio cui accessere Mabilonii vita et aliquot opuscula, scilicet Dissertatio de Pane Eucharistico, Azymo et Fermentatio, ad Eminentiss . Cardinalem Bona. Subjungitur opusculum Eldefonsi Hispaniensis Episcopi de eodem argumentum Et Eusebii Romani ad Theophilum Gallum epistola , De cultu sanctorum ignotorum, Parisiis, apud Levesque, ad Pontem S. Michaelis, MDCCXXI, cum privilegio Regis .» Trovai subito i Vetera Analecta alla biblioteca Sainte Geneviève, ma con mia grande sorpresa l'edizione reperita discordava per due particolari: anzitutto l'editore, che era Montalant, ad Ripam P.P. Augustinianorum (prope Pontem S. Michaelis) e poi la data, di due anni posteriore. Inutile dire che questi analecta non contenevano alcun manoscritto di Adso o Adson da Melk - e si tratta anzi, come ciascuno può controllare, di una raccolta di testi di media e breve lunghezza, mentre la storia trascritta dal Vallet si estendeva per alcune centinaia di pagine. Consultai all'epoca medievalisti illustri come il caro e indimenticabile Etienne Gilson, ma fu chiaro che gli unici Vetera Analecta erano quelli che avevo visto a Sainte Geneviève. Una puntata all'Abbaye de la Source, che sorge nei dintorni di Passy, e una conversazione con l'amico Dom Arne Lahnestedt mi convinsero altresì che nessun abate Vallet aveva pubblicato libri coi torchi (peraltro inesistenti) dell'abbazia. E' nota la trascuratezza degli eruditi francesi nel dare indicazioni bibliografiche di qualche attendibilità, ma il caso superava ogni ragionevole pessimismo. Incominciai a ritenere che mi fosse capitato tra le mani un falso. Ormai lo stesso libro del Vallet era irrecuperabile (o almeno non ardivo andarlo a richiedere a chi me lo aveva sottratto). E non mi rimanevano che le mie note, delle quali cominciavo ormai a dubitare. Vi sono momenti magici, di grande stanchezza fisica e intensa eccitazione motoria, in cui si danno visioni di persone conosciute in passato (“en me retraçant ces details, j'en suis à me demander s'ils sont réels, ou bien si je les ai rêvés”). Come appresi più tardi dal bel libretto dell'Abbé de Bucquoy, si danno altresì visioni di libri non ancora scritti. Se non fosse successo qualcosa di nuovo sarei ancora qui a domandarmi da dove venga la storia di Adso da Melk, senonché nel 1970, a Buenos Aires, curiosando sui banchi di un piccolo libraio antiquario in Corrientes, non lontano dal più insigne Patio del Tango di quella grande strada, mi capitò tra le mani la versione castigliana di un libretto di Milo Temesvar, Dell'uso degli specchi nel gioco degli scacchi , che già avevo avuto occasione di citare (di seconda mano) nel mio Apocalittici e integrati , recensendo il suo più recente I venditori di Apocalisse . Si trattava della traduzione dell'ormai introvabile originale in lingua georgiana (Tibilisi, 1934) e quivi, con mia grande sorpresa, lessi copiose citazioni dal manoscritto di Adso, salvo che la fonte non era né il Vallet né il Mabillon, bensì padre Athanasius Kircher (ma quale opera?). Un dotto - che non ritengo opportuno nominare - mi ha poi assicurato che (e citava indici a memoria) il grande gesuita non ha mai parlato di Adso da Melk. Ma le pagine di Temesvar erano sotto i miei occhi e gli episodi a cui si riferiva erano assolutamente analoghi a quelli del manoscritto tradotto dal Vallet (in particolare, la descrizione del labirinto non lasciava luogo ad alcun dubbio). Checché ne abbia poi scritto Beniamino Placid1 o, l'abate Vallet era esistito e così certamente Adso da Melk. Ne conclusi che le memorie di Adso sembravano giustamente partecipare alla natura degli eventi di cui egli narra: avvolte da molti e imprecisi misteri, a cominciare dall'autore, per finire alla collocazione dell'abbazia di cui Adso tace con tenace puntigliosità, così che le congetture permettono di disegnare una zona imprecisa tra Pomposa e Conques, con ragionevoli probabilità che il luogo sorgesse lungo il dorsale appenninico, tra Piemonte, Liguria e Francia (come dire tra Lerici e Turbia). Quanto all'epoca in cui si svolgono gli eventi descritti, siamo alla fine del novembre 1327; quando invece scriva l'autore è incerto. Calcolando che si dice novizio nel '27 e ormai vicino alla morte quando stende le sue memorie, possiamo 1 La Repubblica, 22 settembre 1977. congetturare che il manoscritto sia stato stilato negli ultimi dieci o vent'anni del XIV secolo. A ben riflettere, assai scarse erano le ragioni che potessero inclinarmi a dare alle stampe la mia versione italiana di una oscura versione neogotica francese di una edizione latina secentesca di un'opera scritta in latino da un monaco tedesco sul finire del trecento. Anzitutto, quale stile adottare? La tentazione di rifarmi a modelli italiani dell'epoca andava respinta come del tutto ingiustificata: non solo Adso scrive in latino, ma è chiaro da tutto l'andamento del testo che la sua cultura (o la cultura dell'abbazia che così chiaramente lo influenza) è molto più datata; si tratta chiaramente di una somma plurisecolare di conoscenze e di vezzi stilistici che si collegano alla tradizione basso medievale latina. Adso pensa e scrive come un monaco rimasto impermeabile alla rivoluzione del volgare, legato alle pagine ospitate nella biblioteca di cui narra, formatosi su testi patristico-scolastici, e la sua storia (al di là dei riferimenti ed avvenimenti del XIV secolo, che pure Adso registra tra mille perplessità, e sempre per sentito dire) avrebbe potuto essere scritta, quanto a lingua e a citazioni erudite, nel XII o nel XIII secolo. D'altra parte è indubbio che nel tradurre nel suo francese neogotico il latino di Adso, il Vallet abbia introdotto di suo varie licenze, e non sempre soltanto stilistiche. Per esempio i personaggi parlano talora delle virtù delle erbe rifacendosi chiaramente a quel libro dei segreti attribuito ad Alberto Magno che ebbe nei secoli infiniti rifacimenti. E' certo che Adso lo conoscesse, ma rimane il fatto che egli ne cita dei brani che riecheggiano troppo letteralmente vuoi ricette di Paracelso vuoi chiare interpolazioni di un'edizione dell'Alberto di sicura epoca Tudor. 2 D'altra parte ho appurato in seguito che ai tempi in cui il Vallet trascriveva (?) il manoscritto di Adso, circolava a Parigi un'edizione settecentesca del Grand e del Petit Albert 3 ormai irrimediabilmente inquinata. Tuttavia, come essere sicuri che il testo a cui si rifacevano Adso o i monaci di cui egli annotava i discorsi, non contenesse, tra glosse, scolii e appendici varie, anche annotazioni che poi avrebbero nutrito a cultura posteriore? Infine, dovevo conservare in latino i passaggi che lo stesso abate Vallet non ritenne opportuno tradurre, forse per conservare l'aria del tempo? Non v'erano giustificazioni precise per farlo, se non un senso, forse malinteso, di fedeltà alla mia fonte... Ho eliminato il soverchio, ma qualcosa ho lasciato. E temo di aver fatto come i cattivi romanzieri che, mettendo in scena un personaggio francese, gli fanno dire “parbleu!” e “la femme, ah! la femme!”. In conclusione, sono pieno di dubbi. Proprio non so perché mi sia deciso a prendere il coraggio a due mani e a presentare come se fosse autentico il 2 Liber aggregationis seu liber secretorum Alberti Magni, Londinium, juxta pontem qui vulgariter dicitur Flete brigge, MCCCCLXXXV. 3 Les admirables secrets d'Albert le Grand, A Lyon, Chez les Héritiers Beringos, Fratres, à l'Enseigne d'Agrippa, MDCCLXXV; Secrets merveilleux de la Magie Naturelle et Cabalistique du Petit Albert, A Lyon, ibidem, MDCCXXIX. manoscritto di Adso da Melk. Diciamo: un gesto di innamoramento. O, se si vuole, un modo per liberarmi da numerose e antiche ossessioni. Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell'abate Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo. A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell'uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amor di scrittura. E così ora mi sento libero di raccontare, per semplice gusto fabulatorio, la storia di Adso da Melk, e provo conforto e consolazione nel ritrovarla così incommensurabilmente lontana nel tempo (ora che la veglia della ragione ha fugato tutti i mostri che il suo sonno aveva generato), così gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze. Perché essa è storia di libri, non di miserie quotidiane, e la sua lettura può inclinarci a recitare, col grande imitatore da Kempis: “In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro.” 5 gennaio 1980 Nota Il manoscritto di Adso è diviso in sette giornate e ciascuna giornata in periodi corrispondenti alle ore liturgiche. I sottotitoli, in terza persona, sono stati probabilmente aggiunti dal Vallet. Ma poiché sono utili a orientare il lettore, né quest'uso si discosta da quello di molta letteratura in volgare di quel tempo, non ho ritenuto opportuno eliminarli. Una certa perplessità mi hanno dato i riferimenti di Adso alle ore canoniche, perché non solo la loro individuazione varia a seconda delle località e delle stagioni, ma con ogni probabilità nel XIV secolo non ci si atteneva con assoluta precisione alle indicazioni fissate da san Benedetto nella regola. Tuttavia, a orientamento del lettore, deducendo in parte dal testo e in parte confrontando la regola originaria con la descrizione della vita monastica data da Edouard Schneider in Les heures bénédictines (Paris, Grasset, 1925), credo ci si possa attenere alla seguente valutazione: Mattutino (che talora Adso chiama anche con l'antica espressione di Vigiliae). Tra le 2.30 e le 3 di notte. Laudi (che nella tradizione più antica erano dette Matutini). Tra le 5 e le 6 di mattina, in modo da terminare quando albeggia. Prima Verso le 7.30, poco prima dell'aurora. Terza Verso le 9. Sesta Mezzogiorno (in un monastero dove i monaci non lavoravano nei campi, d'inverno, era anche l'ora del pasto). Nona Tra le 2 e le 3 pomeridiane. Vespro. Verso le 4.30, al tramonto (la regola prescrive di far cena quando ancora non è scesa la tenebra). Compieta Verso le 6 (entro le 7 i monaci vanno a coricarsi). Il computo si basa sul fatto che nell'Italia settentrionale, alla fine di novembre, il sole si leva intorno alle 7.30 e tramonta intorno alle 4.40 pomeridiane. Prologo In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l'unico immodificabile evento di cui si possa asserire l'incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell'errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male. Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell'attesa di perdermi nell'abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l'Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione. Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo all'abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell'anno del Signore 1327 in cui l'imperatore Ludovico scese in Italia per ricostituire la dignità del sacro romano impero, giusta i disegni dell'Altissimo e a confusione dell'infame usurpatore simoniaco ed eresiarca che in Avignone recò vergogna al nome santo dell'apostolo (dico l'anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorarono come Giovanni XXII). Forse, per comprendere meglio gli avvenimenti in cui mi trovai coinvolto, è bene che io ricordi quanto stava avvenendo in quello scorcio di secolo, così come lo compresi allora, vivendolo, e così come lo rammemoro ora, arricchito di altri racconti che ho udito dopo - se pure la mia memoria sarà in grado di riannodare le fila di tanti e confusissimi eventi. Sin dai primi anni di quel secolo il papa Clemente V aveva trasferito la sede apostolica ad Avignone lasciando Roma in preda alle ambizioni dei signori locali: e gradatamente la città santissima della cristianità si era trasformata in un circo, o in un lupanare, dilaniata dalle lotte tra i suoi maggiori; si diceva repubblica, e non lo era, battuta da bande armate, sottoposta a violenze e saccheggi. Ecclesiastici sottrattisi alla giurisdizione secolare comandavano gruppi di facinorosi e rapinavano con la spada in pugno, prevaricavano e organizzavano turpi traffici. Come impedire che il Caput Mundi ridiventasse, e giustamente, la meta di chi volesse indossare la corona del sacro romano impero e restaurare la dignità di quel dominio temporale che già era stato dei cesari? Ecco dunque che nel 1314 cinque principi tedeschi avevano eletto a Francoforte Ludovico di Baviera come supremo reggitore dell'impero. Ma il giorno stesso, sull'opposta riva del Meno, il conte palatino del Reno e l'arcivescovo di Colonia avevano eletto alla stessa dignità Federico d'Austria. Due imperatori per una sola sede e un solo papa per due: situazione che divenne, invero, fomite di grande disordine... Due anni dopo veniva eletto ad Avignone il nuovo papa, Giacomo di Cahors, vecchio di settantadue anni, col nome appunto di Giovanni XXII, e voglia il cielo che mai più alcun pontefice assuma un nome ormai così inviso ai buoni. Francese e devoto al re di Francia (gli uomini di quella terra corrotta sono sempre inclini a favorire gli interessi dei loro, e sono incapaci di guardare al mondo intero come alla loro patria spirituale), egli aveva sostenuto Filippo il Bello contro i cavalieri templari, che il re aveva accusato (credo ingiustamente) di delitti vergognosissimi per impadronirsi dei loro beni, complice quell'ecclesiastico rinnegato. Frattanto si era inserito in tutta quella trama Roberto di Napoli, il quale per mantenere il controllo della penisola italiana aveva convinto il papa a non riconoscere nessuno dei due imperatori tedeschi, e così era rimasto capitano generale dello stato della chiesa. Nel 1322 Ludovico il Bavaro batteva il suo rivale Federico. Ancor più timoroso di un solo imperatore, come lo era stato di due, Giovanni scomunicò il vincitore, e questi di rimando denunciò il papa come eretico. Occorre dire che, proprio in quell'anno, aveva avuto luogo a Perugia il capitolo dei frati francescani, e il loro generale, Michele da Cesena, accogliendo le istanze degli “spirituali” (di cui avrò ancora occasione di parlare) aveva proclamato come verità di fede la povertà di Cristo, che se aveva posseduto qualcosa coi suoi apostoli l'aveva avuto solo come usus facti. Degna risoluzione, intesa a salvaguardare la virtù e la purezza dell'ordine, ma essa spiacque assai al papa, che forse vi intravvedeva un principio che avrebbe messo a repentaglio le stesse pretese che egli, come capo della chiesa, aveva, di contestare all'impero il diritto di eleggere vescovi, accampando di converso per il sacro soglio quello di investire l'imperatore. Fossero queste o altre le ragioni che lo muovevano, Giovanni condannò nel 1323 le proposizioni dei francescani con la decretale Cum inter nonnullos. Fu a quel punto, immagino, che Ludovico vide nei francescani, nemici ormai al papa, dei potenti alleati. Affermando la povertà di Cristo essi in qualche modo rinvigorivano le idee dei teologi imperiali, e cioè di Marsilio da Padova e Giovanni di Gianduno. E infine, non molti mesi prima degli eventi di cui sto narrando, Ludovico, che aveva raggiunto un accordo con lo sconfitto Federico, scendeva in Italia, veniva incoronato a Milano, entrava in conflitto coi Visconti, che pure lo avevano accolto con favore, poneva Pisa sotto assedio, nominava vicario imperiale Castruccio, duca di Lucca e Pistoia (e credo facesse male perché non conobbi mai uomo più crudele, tranne forse Uguccione della Faggiola), e ormai si apprestava a scendere a Roma, chiamato da Sciarra Colonna signore del luogo. Ecco com'era la situazione quando io - già novizio benedettino nel monastero di Melk - fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d'Italia e fossi presente quando l'imperatore fosse stato incoronato in Roma. Ma l'assedio di Pisa lo assorbì nelle cure militari. Io ne trassi vantaggio aggirandomi, un poco per ozio e un poco per desiderio di apprendere, per le città della Toscana, ma questa vita libera e senza regola non si addiceva, pensarono i miei genitori, a un adolescente votato alla vita contemplativa. E per consiglio di Marsilio, che aveva preso a benvolermi, decisero di pormi accanto a un dotto francescano, frate Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione che lo avrebbe portato a toccare città famose e abbazie antichissime. Divenni così suo scrivano e discepolo al tempo stesso, né ebbi a pentirmene, perché fui con lui testimone di avvenimenti degni di essere consegnati, come ora sto facendo, alla memoria di coloro che verranno. Io non sapevo allora cosa frate Guglielmo cercasse, e a dire il vero non lo so ancor oggi, e presumo non lo sapesse neppure lui, mosso com'era dall'unico desiderio della verità, e dal sospetto - che sempre gli vidi nutrire - che la verità non fosse quella che gli appariva nel momento presente. E forse in quegli anni egli era distratto dai suoi studi prediletti da incombenze del secolo. La missione di cui Guglielmo era incaricato mi rimase ignota lungo tutto il viaggio, ovvero egli non me ne parlò. Fu piuttosto ascoltando brani di conversazioni, che egli ebbe con gli abati dei monasteri in cui ci arrestammo via via, che mi feci qualche idea sulla natura del suo compito. Ma non lo capii appieno sino a che non pervenimmo alla nostra meta, come poi dirò. Eravamo diretti verso settentrione, ma il nostro viaggio non procedette in linea retta e ci arrestammo in varie abbazie. Accadde così che piegammo verso occidente mentre la nostra meta ultima stava a oriente, quasi seguendo la linea montana che da Pisa porta in direzione dei cammini di San Giacomo, soffermandoci in una terra che i terribili avvenimenti che poi vi avvennero mi sconsigliano di identificare meglio, ma i cui signori erano fedeli all'impero e dove gli abati del nostro ordine di comune accordo si opponevano al papa eretico e corrotto. Il viaggio durò due settimane tra varie vicende e in quel tempo ebbi modo di conoscere (non mai abbastanza, come sempre mi convinco) il mio nuovo maestro. Nelle pagine che seguono non vorrò indulgere a descrizioni di persone - se non quando l'espressione di un volto, o un gesto, non appariranno come segni di un muto ma eloquente linguaggio - perché, come dice Boezio, nulla è più fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo all'apparire dell'autunno, e che senso avrebbe oggi dire dell'abate Abbone che ebbe l'occhio severo e le guance pallide, quando ormai lui e coloro che lo attorniavano sono polvere e della polvere il loro corpo ha ormai il grigiore mortifero (solo l'animo, lo voglia Iddio, risplendendo di una luce che non si spegnerà mai più)? Ma di Guglielmo vorrei dire, e una volta per tutte, perché di lui mi colpirono anche le singolari fattezze, ed è proprio dei giovani legarsi a un uomo più anziano e più saggio non solo per il fascino della parola e l'acutezza della mente, ma pur anche per la forma superficiale del corpo, che ne risulta carissima, come accade per la figura di un padre, di cui si studiano i gesti, e i corrucci, e se ne spia il sorriso - senza che ombra di lussuria inquini questo modo (forse l'unico purissimo) di amore corporale. Gli uomini di una volta erano belli e grandi (ora sono dei bambini e dei nani), ma questo fatto è solo uno dei tanti che testimoni la sventura di un mondo che incanutisce. La gioventù non vuole apprendere più nulla, la scienza è in decadenza, il mondo intero cammina sulla testa, dei ciechi conducono altri ciechi e li fan precipitare negli abissi, gli uccelli si lanciano prima di aver preso il volo, l'asino suona la lira, i buoi danzano, Maria non ama più la vita contemplativa e Marta non ama più la vita attiva, Lea è sterile, Rachele ha l'occhio carnale, Catone frequenta i lupanari, Lucrezio diventa femmina. Tutto è sviato dal proprio cammino. Siano rese grazie a Dio che io a quei tempi acquisii dal mio maestro la voglia di apprendere e il senso della retta via, che si conserva anche quando il sentiero è tortuoso. Era dunque l'apparenza fisica di frate Guglielmo tale da attirare l'attenzione dell'osservatore più distratto. La sua statura superava quella di un uomo normale ed era tanto magro che sembrava più alto. Aveva gli occhi acuti e penetranti; il naso affilato e un po' adunco conferiva al suo volto l'espressione di uno che vigili, salvo nei momenti di torpore di cui dirò. Anche il mento denunciava in lui una salda volontà, pur se il viso allungato e coperto di efelidi - come sovente vidi di coloro nati tra Hibernia e Northumbria - poteva talora esprimere incertezza e perplessità. Mi accorsi col tempo che quella che pareva insicurezza era invece e solo curiosità, ma all'inizio poco sapevo di questa virtù, che credevo piuttosto una passione dell'animo concupiscibile, ritenendo che l'animo razionale non se ne dovesse nutrire, pascendosi solo del vero, di cui (pensavo) si sa già sin dall'inizio. Fanciullo com'ero, la cosa che di lui subito mi aveva colpito, erano certi ciuffi di peli giallastri che gli uscivano dalle orecchie, e le sopracciglia folte e bionde. Poteva egli avere cinquanta primavere ed era dunque già molto vecchio, ma muoveva il suo corpo instancabile con una agilità che a me sovente faceva difetto. La sua energia pareva inesauribile, quando lo coglieva un eccesso di attività. Ma di tanto in tanto, quasi il suo spirito vitale partecipasse del gambero, recedeva in momenti di inerzia e lo vidi per ore stare sul suo giaciglio in cella, pronunciando a malapena qualche monosillabo, senza contrarre un solo muscolo del viso. In quelle occasioni appariva nei suoi occhi un'espressione vacua e assente, e avrei sospettato che fosse sotto l'impero di qualche sostanza vegetale capace di dar visioni, se la palese temperanza che regolava la sua vita non mi avesse indotto a respingere questo pensiero. Non nascondo tuttavia che, nel corso del viaggio, si era fermato talora sul ciglio di un prato, ai bordi di una foresta, a raccogliere qualche erba (credo sempre la stessa): e si poneva a masticarla con volto assorto. Parte ne teneva con sé, e la mangiava nei momenti di maggior tensione (e sovente ne avemmo all'abbazia!). Quando una volta gli chiesi di che si trattasse, disse sorridendo che un buon cristiano può imparare talora anche dagli infedeli; e quando gli domandai di assaggiarne, mi rispose che, come per i discorsi, anche per i semplici ve ne sono di paidikoi, di ephebikoi e di gynaikoi e via dicendo, così che le erbe che sono buone per un vecchio francescano non son buone per un giovane benedettino. Nel tempo che stemmo insieme non avemmo occasione di far vita molto regolare: anche all'abbazia vegliammo di notte e cademmo stanchi di giorno, né partecipammo regolarmente gli uffici sacri. Di rado tuttavia, in viaggio, vegliava oltre compieta, e aveva abitudini parche. Qualche volta, come accadde all'abbazia passava tutta la giornata muovendosi per l'orto, esaminando le piante come fossero crisopazi o smeraldi, e lo vidi aggirarsi per la cripta del tesoro guardando uno scrigno tempestato di smeraldi e crisopazi come fosse un cespuglio di stramonio. Altre volte stava un giorno intero nella sala grande della biblioteca sfogliando manoscritti come a cercarvi null'altro che il suo piacere (quando intorno a noi si moltiplicavano i cadaveri di monaci orrendamente uccisi). Un giorno lo trovai che passeggiava nel giardino senza alcun fine apparente, come se non dovesse render conto a Dio delle sue opere. Nell'ordine mi avevano insegnato ben altro modo di dividere il mio tempo, e glielo dissi. Ed egli rispose che la bellezza del cosmo è data non solo dall'unità nella varietà, ma anche dalla varietà nell'unità. Mi parve una risposta dettata da ineducata empiria, ma appresi in seguito che gli uomini della sua terra definiscono spesso le cose in modi in cui pare che la forza illuminante della ragione abbia pochissimo ufficio. Durante il periodo che trascorremmo all'abbazia gli vidi sempre le mani coperte dalla polvere dei libri, dall'oro delle miniature ancora fresche, da sostanze giallastre che aveva toccato nell'ospedale di Severino. Pareva non potesse pensare se non con le mani, cosa che allora mi pareva più degna di un meccanico (e mi era stato insegnato che il meccanico è moechus, e commette adulterio nei confronti della vita intellettuale a cui dovrebbe essere unito in castissimo sponsale): ma anche quando le sue mani toccavano cose fragilissime, come certi codici dalle miniature ancor fresche, o pagine corrose dal tempo e friabili come pane azzimo, egli possedeva, mi parve, una straordinaria delicatezza di tatto, la stessa che egli usava nel toccare le sue macchine. Dirò infatti che quest'uomo curioso portava seco, nella sua sacca da viaggio, strumenti che mai avevo visto prima di allora, e che egli definiva come le sue meravigliose macchine. Le macchine, diceva, sono effetto dell'arte, che è scimmia della natura, e di essa riproducono non le forme ma la stessa operazione. Egli mi spiegò così i portenti dell'orologio, dell'astrolabio e del magnete. Ma all'inizio temetti che si trattasse di stregoneria, e finsi di dormire certe notti serene in cui egli si poneva (in mano uno strano triangolo) a osservare le stelle. I francescani che avevo conosciuto in Italia e nella mia terra erano uomini semplici, sovente illetterati, e mi stupii con lui della sua sapienza. Ma egli mi disse sorridendo che i francescani delle sue isole erano di stampo diverso: «Ruggiero Bacone, che io venero quale maestro, ci ha insegnato che il piano divino passerà un giorno per la scienza delle macchine, che è magìa naturale e santa. E un giorno per forza di natura si potranno fare strumenti di navigazione per cui le navi vadano unico homine regente, e ben più rapide di quelle spinte da vela o da remi; e vi saranno carri «ut sine animale moveantur cum impetu inaestimabili, et instrumenta volandi et homo sedens in medio instrumentis revolvens aliquod ingenium per quod alae artificialiter composita aerem verberent, ad modum avis volantis». E strumenti piccolissimi che sollevino pesi infiniti e veicoli che permettano di viaggiare sul fondo del mare.» Quando gli chiesi dove fossero queste macchine, mi disse che erano già state fatte nell'antichità, e alcune persino ai tempi nostri: “Eccetto lo strumento per volare, che non vidi, né conobbi chi lo avesse visto, ma conosco un sapiente che lo ha pensato. E si possono fare ponti che valichino i fiumi senza colonne o altro sostentamento e altre macchine inaudite. Ma non devi preoccuparti se non ci sono ancora, perché non vuol dire che non ci saranno. E io ti dico che Dio vuole che ci siano, e certo son già nella sua mente, anche se il mio amico di Occam nega che le idee esistano in tal modo, e non perché possiamo decidere della natura divina, ma proprio perché non possiamo porle alcun limite.” Né fu questa l'unica proposizione contraddittoria che gli sentii enunciare: ma anche ora che sono vecchio e più saggio di allora non ho definitivamente compreso come egli potesse aver tanta fiducia nel suo amico di Occam e giurare al tempo stesso sulle parole di Bacone, come era solito fare. E' pur vero che quelli erano tempi oscuri in cui un uomo saggio doveva pensare cose in contraddizione tra loro. Ecco, ho detto di frate Guglielmo cose forse insensate, quasi a raccogliere sin dall'inizio le impressioni sconnesse che ne ebbi allora. Chi egli fu, e cosa facesse, mio buon lettore, potrai forse meglio dedurre dalle azioni che operò nei giorni che trascorremmo all'abbazia. Né ti ho promesso un disegno compiuto, bensì un elenco di fatti (questi sì) mirabili e terribili. Così conoscendo giorno per giorno il mio maestro, e trascorrendo le lunghe ore di marcia in lunghissimi conversari di cui, se il caso, dirò a poco a poco, giungemmo alle falde del monte su cui si ergeva l'abbazia. Ed è ora che, come noi allora facemmo, a essa si approssimi il mio racconto, e possa la mia mano non tremare nell'accingermi a dire quanto poi accadde. Primo giorno Primo giorno Prima Dove si arriva ai piedi dell'abbazia e Guglielmo dà prova di grande acume Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole. Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l'abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere l'Edificio. Era questa una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono (figura perfettissima che esprime la saldezza e l'imprendibilità della Città di Dio), i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell'abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s'innervavano a strapiombo. Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità e con la terra e col cielo). Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua sopraelevazione, così che ciò che era fisicamente quadrato sulla terra, era spiritualmente triangolare nel cielo. Nell'appressarvici maggiormente, si capiva che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei suoi angoli, un torrione eptagonale, di cui cinque lati si protendevano all'esterno - quattro dunque degli otto lati dell'ottagono maggiore generando quattro eptagoni minori, che all'esterno si manifestavano come pentagoni. E non è chi non veda l'ammirevole concordia di tanti numeri santi, ciascuno rivelante un sottilissimo senso spirituale. Otto il numero della perfezione d'ogni tetragono, quattro il numero dei vangeli, cinque il numero delle zone del mondo, sette il numero dei doni dello Spirito Santo. Per la mole, e per la forma, l'Edificio mi apparve come più tardi avrei visto nel sud della penisola italiana Castel Ursino o Castel dal Monte, ma per la posizione inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco. E fortuna che, essendo una limpidissima mattinata invernale, la costruzione non mi apparve quale la si vede nei giorni di tempesta. Non dirò comunque che essa suggerisse sentimenti di giocondità. Io ne trassi spavento, e una inquietudine sottile. Dio sa che non erano fantasmi dell'animo mio immaturo, e che rettamente interpretavo indubitabili presagi iscritti nella pietra, sin dal giorno che i giganti vi posero mano, e prima che la illusa volontà dei monaci ardisse consacrarla alla custodia della parola divina. Mentre i nostri muletti arrancavano per l'ultimo tornante della montagna, là dove il cammino principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio maestro si arrestò per qualche tempo, guardandosi intorno ai lati della strada, e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava per un breve tratto un tetto naturale, canuto di neve. “Abbazia ricca,” disse. “All'Abate piace apparire bene nelle pubbliche occasioni.” Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli. Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità: “Benvenuto signore,” disse, “e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. Io sono Remigio da Varagine, il cellario del monastero. E se voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l'Abate dovrà esserne avvisato. Tu,” ordinò rivolto a uno del seguito, “risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!” “Vi ringrazio, signor cellario,” rispose cordialmente il mio maestro, “e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l'inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arrivato al deposito dello strame, dovrà fermarsi. E' troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso...” “Quando lo avete visto?” domandò il cellario. “Non l'abbiamo visto affatto, non è vero Adso?” disse Guglielmo volgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l'animale non può che essere là dove io ho detto.” Il cellario esitò. Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò: “Brunello? Come sapete?” “Suvvia,” disse Guglielmo, “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dall'Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. E' andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso.” Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso. Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l'abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente. “E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?” “Mio buon Adso,” disse il maestro. “E' tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle Isole diceva che omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est in speculum e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l'universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo. Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere. Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l'uno dall'altro, quei segni dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità - così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all'altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l'animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi... Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione meridionale, bruttando la neve; e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.” “Sì,” dissi, “ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi...” “Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige «ut sit exiguum caput et siccum prope pelle ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas». Se il cavallo di cui ho inferito il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates glielo hanno descritto, specie se,» e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, «è un dotto benedettino...»”. “Va bene,” dissi, “ma perché Brunello?” “Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!” esclamò il maestro. “Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non trovò nome più naturale?” Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva tornar assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre mi parve a quel punto tanto ovvia che l'umiliazione per non averla trovata da solo fu sopraffatta dall'orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi congratulai con me stesso per la mia acutezza. Tale è la forza del vero che, come il bene, è diffusivo di sé. E sia lodato il nome santo del nostro signore Gesù Cristo per questa bella rivelazione che ebbi. Ma riprendi le fila, o mio racconto, ché questo monaco senescente si attarda troppo nei marginalia. Di' piuttosto che arrivammo al grande portale dell'abbazia, e sulla soglia stava l'Abate a cui due novizi sorreggevano una bacinella d'oro colma d'acqua. E come fummo discesi dai nostri animali, egli lavò le mani a Guglielmo, poi lo abbracciò baciandolo sulla bocca e dandogli il suo santo benvenuto, mentre il cellario si occupava di me. “Grazie Abbone,” disse Guglielmo, “è per me una gioia grande mettere piede nel monastero della magnificenza vostra, la cui fama ha valicato queste montagne. Io vengo come pellegrino nel nome di Nostro Signore e come tale voi mi avete reso onore. Ma vengo anche a nome del nostro signore su questa terra, come vi dirà la lettera che vi consegno, e anche a suo nome vi ringrazio per la vostra accoglienza.” L'Abate prese la lettera coi sigilli imperiali e disse che in ogni caso la venuta di Guglielmo era stata preceduta da altre missive di suoi confratelli (dappoiché, mi dissi io con un certo orgoglio, è difficile cogliere un abate benedettino di sorpresa), poi pregò il cellario di condurci ai nostri alloggiamenti, mentre gli stallieri ci prendevano le cavalcature. L'Abate si ripromise di visitarci più tardi quando ci fossimo rifocillati, ed entrammo nella grande corte dove gli edifici dell'abbazia si estendevano lungo tutto il dolce pianoro che smussava in una morbida conca - o alpe - la sommità del monte. Della disposizione dell'abbazia avrò occasione di dire più volte, e più minutamente. Dopo il portale (che era l'unico varco nelle mura di cinta) si apriva un viale alberato che conduceva alla chiesa abbaziale. A sinistra del viale si stendeva una vasta zona di orti e, come poi seppi, il giardino botanico, intorno ai due edifici dei balnea e dell'ospedale ed erboristeria, che costeggiavano la curva delle mura. Sul fondo, a sinistra della chiesa, si ergeva l'Edificio, separato dalla chiesa da una spianata coperta di tombe. Il portale nord della chiesa guardava il torrione sud dell'Edificio, che offriva frontalmente agli occhi del visitatore il torrione occidentale, quindi a sinistra si legava alle mura e sprofondava turrito verso l'abisso, su cui si protendeva il torrione settentrionale, che si vedeva di sghimbescio. A destra della chiesa si stendevano alcune costruzioni che le stavano a ridosso, e intorno al chiostro: certo il dormitorio, la casa dell'Abate e la casa dei pellegrini a cui eravamo diretti e che raggiungemmo traversando un bel giardino. Sul lato destro, al di là di una vasta spianata, lungo le mura meridionali e continuando a oriente dietro la chiesa, una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine, e quella che mi parve essere la casa dei novizi. La regolarità del terreno, appena ondulato, aveva permesso agli antichi costruttori di quel luogo sacro di rispettare i dettami dell'orientamento, meglio di quanto avrebbero potuto pretendere Onorio Augustoduniense o Guglielmo Durando. Dalla posizione del sole in quell'ora del giorno, mi avvidi che il portale si apriva perfettamente a occidente, così che il coro e l'altare fossero rivolti a oriente; e il sole di buon mattino poteva sorgere risvegliando direttamente i monaci nel dormitorio e gli animali nelle stalle. Non vidi abbazia più bella e mirabilmente orientata, anche se in seguito conobbi San Gallo, e Cluny, e Fontenay, e altre ancora, forse più grandi ma meno proporzionate. Diversamente dalle altre, questa si segnalava però per la mole incommensurabile dell'Edificio. Non avevo l'esperienza di un maestro muratore, ma mi avvidi subito che esso era molto più antico delle costruzioni che lo attorniavano,nato forse per altri scopi, e che l'insieme abbaziale gli si era disposto intorno in tempi posteriori, ma in modo che l'orientamento della grande costruzione si adeguasse a quello della chiesa, o questa a quello. Perché l'architettura è tra tutte le arti quella che più arditamente cerca di riprodurre nel suo ritmo l'ordine dell'universo, che gli antichi chiamavano kosmos, e cioè ornato, in quanto è come un grande animale su cui rifulge la perfezione e la proporzione di tutte le sue membra. E sia lodato il Creatore Nostro che, come dice Agostino, ha stabilito tutte le cose in numero, peso e misura. Primo giorno Terza Dove Guglielmo ha una istruttiva conversazione con l'Abate Il cellario era uomo pingue e di aspetto volgare ma gioviale, canuto ma ancor robusto, piccolo ma veloce. Ci condusse alle nostre celle nella casa dei pellegrini. O meglio, ci condusse alla cella assegnata al mio maestro, promettendomi che per il giorno seguente ne avrebbe liberata una anche per me in quanto, sebbene novizio, ero ospite loro, e dunque dovevo essere trattato con ogni onore. Per quella notte avrei potuto dormire in una vasta e lunga nicchia che si apriva nella parete della cella, su cui aveva fatto disporre della buona paglia fresca. Cosa che, aggiunse, si faceva talora per i servi di qualche signore che desiderava essere vegliato durante il suo sonno. Poi i monaci ci portarono vino, cacio, olive, pane e della buona uva passa, e ci lasciarono a rifocillarci. Mangiammo e bevemmo con molto gusto. Il mio maestro non aveva le abitudini austere dei benedettini e non amava mangiare in silenzio. Peraltro parlava sempre di cose così buone e sagge che era come se un monaco ci leggesse le vite dei santi. Quel giorno non mi trattenni dall'interrogarlo ancora sul fatto del cavallo. “Però,” dissi, “quando voi avete letto le tracce sulla neve e sui rami, non conoscevate ancora Brunello. In un certo modo quelle tracce ci parlavano di tutti i cavalli, o almeno di tutti i cavalli di quella specie. Non dobbiamo dunque dire che il libro della natura ci parla solo per essenze, come insegnano molti insigni teologi?” “Non del tutto caro Adso,” mi rispose il maestro. “Certo quel tipo di impronte mi esprimeva, se vuoi, il cavallo come verbum mentis, e me l'avrebbe espresso ovunque l'avessi trovato. Ma l'impronta in quel luogo e in quell'ora del giorno mi diceva che almeno uno tra tutti i cavalli possibili era passato di lì. Così che io mi trovavo a mezza strada tra l'apprendimento del concetto di cavallo e la conoscenza di un cavallo individuale. E in ogni caso quel che io conoscevo del cavallo universale mi era dato dalla traccia, che era singolare. Potrei dire che in quel momento io ero prigioniero tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale. Se tu vedi qualcosa da lontano, e non capisci cosa sia, ti accontenterai di definirlo come un corpo esteso. Quando ti si sarà avvicinato lo definirai allora come un animale, anche se non saprai ancora se sia un cavallo o un asino. E infine, quando esso sarà più vicino, potrai dire che è un cavallo anche se non saprai ancora se Brunello o Favello. E solo quando sarai alla giusta distanza tu vedrai che è Brunello (ovvero quel cavallo e non un altro, comunque tu decida di chiamarlo). E quella sarà la conoscenza piena, l'intuizione del singolare. Così io un'ora fa ero pronto ad attendermi tutti i cavalli, ma non per la vastità del mio intelletto, bensì per la pochezza della mia intuizione. E la fame del mio intelletto è stata saziata solo quando ho visto il cavallo singolo, che i monaci portavano per il morso. Solo allora ho veramente saputo che il mio ragionare di prima mi aveva condotto vicino alla verità. Così le idee, che io usavo prima per figurarmi un cavallo che non avevo ancora visto, erano puri segni, come erano segni dell'idea di cavallo le impronte sulla neve: e si usano segni e segni di segni solo quando ci fanno difetto le cose.” Altre volte lo avevo udito parlare con molto scetticismo delle idee universali e gran rispetto delle cose individuali: e anche in seguito mi parve che questa tendenza gli provenisse sia dall'essere britannico che dall'essere francescano. Ma quel giorno non aveva forze sufficienti per affrontare dispute teologiche: sì che mi rannicchiai nello spazio che mi era stato concesso, mi avvolsi in una coperta e caddi in un sonno profondo. Chi fosse entrato avrebbe potuto scambiarmi per un fagotto. E così fece certamente l'Abate quando venne a visitare Guglielmo verso l'ora terza. Fu così che io potei ascoltare inosservato il loro primo colloquio. E senza malizia, perché il manifestarmi di colpo al visitatore sarebbe stato più scortese che il celarmi, come feci, con umiltà. Giunse pertanto Abbone. Si scusò per l'intrusione, rinnovò il suo benvenuto e disse che doveva parlare a Guglielmo, in privato, di cosa assai grave. Cominciò a congratularsi con lui per l'abilità con cui si era condotto nella storia del cavallo, e chiese come mai egli aveva saputo dar notizie tanto sicure di una bestia che non aveva mai vista. Guglielmo gli spiegò succintamente e con distacco la via che aveva seguito, e l'Abate molto si rallegrò per il suo acume. Disse che non si sarebbe atteso di meno da un uomo che era stato preceduto da una fama di grande sagacia. Gli disse che aveva ricevuto una lettera dall'Abate di Farfa che non solo gli parlava della missione affidata a Guglielmo dall'imperatore (della quale avrebbero poi discusso nei giorni seguenti) ma anche gli diceva che in Inghilterra e in Italia il mio maestro era stato inquisitore in alcuni processi, dove si era distinto per la sua perspicacia, non disgiunta da grande umanità. “Molto mi è piaciuto sapere,” aggiunse l'Abate, “che in numerosi casi voi avete deciso per l'innocenza dell'accusato. Credo, e mai come in questi giorni tristissimi, alla presenza costante del maligno nelle cose umane,” e si guardò intorno, impercettibilmente, come se il nemico si aggirasse tra quelle mura, “ma credo anche che molte volte il maligno operi per cause seconde. E so che può spingere le sue vittime a fare il male in modo tale che la colpa ricada su di un giusto, godendo del fatto che il giusto venga bruciato in luogo del suo succubo. Spesso gli inquisitori, per dar prova di solerzia, strappano a ogni costo una confessione all'accusato, pensando che sia buon inquisitore solo colui che conclude il processo trovando un capro espiatorio...” “Anche un inquisitore può essere mosso dal diavolo,” disse Guglielmo. “E' possibile” ammise l'Abate con molta cautela, “perché i disegni dell'Altissimo sono imperscrutabili, ma non sarò io a gettare l'ombra del sospetto su uomini così benemeriti. E' anzi di voi, come uno di coloro, che io ho oggi bisogno. E' accaduto in questa abbazia qualcosa, che richiede l'attenzione e il consiglio di un uomo acuto e prudente come voi siete. Acuto per scoprire e prudente (se il caso) per coprire. Spesso infatti è indispensabile provare la colpa di uomini che dovrebbero eccellere per la loro santità, ma in modo da poter eliminare la causa del male senza che il colpevole venga additato al pubblico disprezzo. Se un pastore falla deve essere isolato dagli altri pastori, ma guai se le pecore cominciassero a diffidare dei pastori.” “Capisco,” disse Guglielmo. Avevo già avuto modo di notare che, quando si esprimeva in quel modo così sollecito ed educato, di solito celava, in modo onesto, il suo dissenso o la sua perplessità. “Per questo,” continuò l'Abate, “ritengo che ogni caso che riguardi il fallo di un pastore non possa essere affidato che a uomini come voi, che non solo sanno distinguere il bene dal male, ma anche ciò che è opportuno da ciò che non lo è. Mi piace pensare che voi abbiate condannato solo quando...” “...gli accusati erano colpevoli di atti delittuosi, di venefici, di corruzione di fanciulli innocenti e di altre nefandezze che la mia bocca non osa pronunziare...” “...che abbiate condannato solo quando,” continuò l'Abate senza tener conto dell'interruzione, “la presenza del demonio fosse così evidente agli occhi di tutti da non potersi procedere diversamente senza che l'indulgenza fosse più scandalosa dello stesso delitto.” “Quando ho riconosciuto qualcuno colpevole,” precisò Guglielmo, “costui aveva realmente commesso crimini di tal fatta che potevo consegnarlo con buona coscienza al braccio secolare.” L'Abate ebbe un attimo di incertezza: “Perché,” chiese, “insistete nel parlare di azioni delittuose senza pronunciarvi sulla loro causa diabolica?” “Perché ragionare sulle cause e sugli effetti è cosa assai difficile, di cui credo che l'unico giudice possa essere Dio. Noi già fatichiamo molto a porre un rapporto tra un effetto così evidente come un albero bruciato e la folgore che lo ha incendiato, che il risalire catene talora lunghissime di cause ed effetti mi pare altrettanto folle che cercare di costruire una torre che arrivi sino al cielo.” “Il dottore d'Aquino,” suggerì l'Abate, “non ha temuto di dimostrare con la forza della sola ragione l'esistenza dell'Altissimo risalendo di causa in causa alla causa prima non causata.” “Chi sono io,” disse con umiltà Guglielmo, “per oppormi al dottore d'Aquino? Anche perché la sua prova dell'esistenza di Dio è suffragata da tante altre testimonianze che le sue vie ne risultano fortificate. Dio ci parla nell'interno dell'anima nostra, come già sapeva Agostino, e voi Abbone avreste cantato le lodi del Signore e l'evidenza della sua presenza anche se Tommaso non avesse...” Si arrestò, e soggiunse: “Immagino.” “Oh, certo,” si affrettò ad assicurare l'Abate, e il mio maestro troncò in questo modo bellissimo una discussione di scuola che evidentemente gli piaceva poco. Poi riprese a parlare. “Torniamo ai processi. Vedete, un uomo, poniamo, è stato ucciso per veneficio. Questo è un dato di esperienza. E' possibile che io immagini, di fronte a certi segni inconfutabili, che l'autore del veneficio sia un altro uomo. Su catene di cause così semplici la mia mente può intervenire con una certa fiducia nel suo potere. Ma come posso complicare la catena immaginando che, a causare l'azione malvagia, ci sia un altro intervento, questa volta non umano ma diabolico? Non dico che non sia possibile, anche il diavolo denuncia il suo passaggio per chiari segni, come il vostro cavallo Brunello. Ma perché devo cercare queste prove? Non è già sufficiente che io sappia che il colpevole è quell'uomo e lo consegni al braccio secolare? In ogni caso la sua pena sarà la morte, che Dio lo perdoni.” “Ma mi risulta che in un processo svoltosi a Kilkenny tre anni fa, in cui alcune persone furono accusate di aver commesso turpi delitti, voi non abbiate negato l'intervento diabolico, una volta individuati i colpevoli.” “Ma nemmeno lo ho mai affermato con parole aperte. Non l'ho neppure negato, è vero. Chi sono io per esprimere giudizi sulle trame del maligno, specie,” aggiunse, e parve voler insistere su questa ragione, “in casi in cui coloro che avevano dato inizio all'inquisizione, il vescovo, i magistrati cittadini e il popolo tutto, forse gli stessi accusati, desideravano veramente avvertire la presenza del demonio? Ecco, forse l'unica vera prova della presenza del diavolo è l'intensità con cui tutti in quel momento ambiscono saperlo all'opera...” “Voi quindi,” disse l'Abate con tono preoccupato, “mi dite che in molti processi il diavolo non agisce solo nel colpevole ma forse e soprattutto nei giudici?” “Potrei forse fate un'affermazione del genere?” chiese Guglielmo, e mi avvidi che la domanda era formulata in modo che l'Abate non potesse affermare che lui poteva; così Guglielmo approfittò del suo silenzio per deviare il corso del loro dialogo. “Ma in fondo si tratta di cose lontane. Ho abbandonato quella nobile attività e se l'ho fatto è perché il Signore così ha voluto...” “Senza dubbio,” ammise l'Abate. “...e ora,” continuò Guglielmo, “mi occupo di altre delicate questioni. E vorrei occuparmi di quella che vi travaglia, se voi me ne parlaste.” Mi parve che l'Abate fosse soddisfatto di poter terminare quella conversazione tornando al suo problema. Prese dunque a raccontare, con molta prudenza nella scelta delle parole e lunghe perifrasi, di un fatto singolare che era accaduto pochi giorni prima e che aveva lasciato molto turbamento tra i monaci. E disse che ne parlava a Guglielmo perché, sapendolo gran conoscitore e dell'animo umano e delle trame del maligno, sperava che potesse dedicare parte del suo tempo prezioso a far luce su un dolorosissimo enigma. Si era dunque dato il caso che Adelmo da Otranto, un monaco ancor giovane eppure già famoso come grande maestro miniatore, e che stava adornando i manoscritti della biblioteca di immagini bellissime, era stato trovato una mattina da un capraio in fondo alla scarpata dominata dal torrione est dell'Edificio. Poiché era stato visto dagli altri monaci in coro durante compieta ma non era ricomparso a mattutino, era probabilmente precipitato durante le ore più buie della notte. Notte di grande tempesta di neve, in cui cadevano fiocchi taglienti come lame, che quasi sembravano grandine, spinti da un austro che soffiava impetuoso. Fatto molle da quella neve che si era dapprima sciolta e poi indurita in lamine di ghiaccio, il suo corpo era stato trovato ai piedi dello strapiombo, dilaniato dalle rocce contro cui aveva rimbalzato. Povera e fragile cosa mortale, che Dio avesse misericordia di lui. A causa dei molti rimbalzi che il corpo aveva subito precipitando, non era facile dire da qual punto esatto fosse caduto: certamente da una delle finestre che si aprivano per tre ordini di piani sui quattro lati del torrione esposti verso l'abisso. “Dove avete sepolto il povero corpo?” domandò Guglielmo. “Nel cimitero, naturalmente,” rispose l'Abate. “Forse lo avrete notato, si stende tra il lato settentrionale della chiesa, l'Edificio e l'orto.” “Vedo,” disse Guglielmo, “e vedo che il vostro problema è il seguente. Se quell'infelice si fosse, Dio non voglia, suicidato (poiché non si poteva pensare che fosse caduto accidentalmente) il giorno dopo avreste trovato una di quelle finestre aperte, mentre le avete ritrovate tutte chiuse, e senza che ai piedi di alcuna apparissero tracce d'acqua.” L'Abate era uomo, lo dissi, di grande e diplomatica compostezza, ma questa volta ebbe un movimento di sorpresa che gli tolse ogni traccia di quel decoro che si addice alla persona grave e magnanima, come vuole Aristotele: “Chi ve lo ha detto?” “Me lo avete detto voi,” disse Guglielmo. “Se la finestra fosse stata aperta, avreste subito pensato che egli vi si era gettato. Da come ho potuto giudicare dall'esterno, si tratta di grandi finestre a vetrate opache e finestre di quel tipo non si aprono di solito, in edifici di questa mole, ad altezza d'uomo. Dunque se fosse stata aperta, essendo impossibile che lo sciagurato vi si fosse affacciato e avesse perduto l'equilibrio, non sarebbe restato che pensare a un suicidio. Nel qual caso non lo avreste lasciato seppellire in terra consacrata. Ma poiché lo avete seppellito cristianamente, le finestre dovevano essere chiuse. Perché se erano chiuse, non avendo io incontrato neppure nei processi di stregoneria un morto impenitente a cui Dio o il diavolo abbiano concesso di risalire dall'abisso per cancellar le tracce del suo misfatto, è evidente che il presunto suicida è stato piuttosto spinto, vuoi da mano umana vuoi da forza diabolica. E voi vi chiedete chi possa averlo, non dico spinto nell'abisso, ma issato nolente sino al davanzale, e siete turbato perché una forza malefica, naturale o soprannaturale che sia, si aggira ora per l'abbazia.” “E' così...” disse l'Abate, e non era chiaro se confermasse le parole di Guglielmo o rendesse ragione a se stesso delle ragioni che Guglielmo aveva così ammirevolmente prodotto. “Ma come fate a sapere che non vi era acqua ai piedi di alcuna vetrata?” “Poiché mi avete detto che soffiava l'austro e l'acqua non poteva essere spinta contro finestre che si aprono a oriente.” “Non mi avevano detto abbastanza delle vostre virtù,” disse l'Abate. “E avete ragione, non c'era acqua, e ora so perché. Le cose sono andate come dite. E ora capite la mia angoscia. Già sarebbe stato grave se uno dei miei monaci si fosse macchiato dell'abominevole peccato di suicidio. Ma ho ragioni di ritenere che un altro di loro si sia macchiato di un peccato altrettanto terribile. E fosse solo quello...” “Anzitutto, perché uno dei monaci? Nell'abbazia vi sono molte altre persone, stallieri, caprai, servitori...” “Certo, è un'abbazia piccola ma ricca,” ammise con sussiego l'Abate. “Centocinquanta famigli per sessanta monaci. Ma tutto è avvenuto nell'Edificio. Quivi, come forse già sapete, anche se al primo piano vi sono e le cucine e il refettorio, ai due piani superiori vi sono lo scriptorium e la biblioteca. Dopo la cena l'Edificio viene chiuso e vi è una regola rigidissima che proibisce a chiunque di accedervi,” indovinò la domanda di Guglielmo e aggiunse subito, ma chiaramente a malincuore, “compresi i monaci naturalmente, ma...” “Ma?” “Ma escludo assolutamente, assolutamente capite, che un famiglio abbia avuto il coraggio di penetrarvi di notte.” Nei suoi occhi passò come un sorriso di sfida, ma fu rapido come il baleno, o una stella cadente. “Diciamo che avrebbero paura, sapete... talora gli ordini dati ai semplici vanno rinforzati con qualche minaccia, come il presagio che a chi disubbidisce possa accadere qualcosa di terribile, e per forza soprannaturale. Un monaco invece...” “Capisco.” “Non solo, ma un monaco potrebbe avere altre ragioni per avventurarsi in un luogo interdetto, voglio dire ragioni... come dire? Ragionevoli, anche se contrarie alla regola...” Guglielmo si accorse del disagio dell'Abate e fece una domanda che forse mirava a sviare il discorso, ma che produsse un disagio altrettanto grande. «Parlando di un possibile omicidio avete detto «e fosse solo quello». Che volevate dire?» “Ho detto così? Ebbene, non si uccide senza ragione, per quanto perversa. E tremo al pensiero della perversità delle ragioni che possono aver spinto un monaco a uccidere un confratello. Ecco. E' così.” “Non c'è altro?” “Non c'è altro che io possa dirvi.” “Volete dire che non c'è altro che voi abbiate potere di dire?” “Vi prego frate Guglielmo, fratello Guglielmo,” e l'Abate accentuò sia frate che fratello. Guglielmo arrossì vivamente e commentò: “Eris sacerdos in aeternum.” “Grazie,” disse l'Abate. O Signore Iddio, quale mistero terribile sfiorarono in quel momento i miei imprudenti superiori, spinto l'uno dall'angoscia e l'altro dalla curiosità. Perché, novizio che si avviava ai misteri del santo sacerdozio di Dio, anch'io umile fanciullo compresi che l'Abate sapeva qualcosa ma lo aveva appreso sotto il sigillo della confessione. Egli doveva aver saputo dalle labbra di qualcuno qualche particolare peccaminoso che poteva avere relazione con la tragica fine di Adelmo. Per questo forse pregava frate Guglielmo di scoprire un segreto di cui egli sospettava senza poterlo palesare a nessuno, e sperava che il mio maestro facesse luce con le forze dell'intelletto su quanto egli doveva avvolgere d'ombra in forza del sublime imperio della carità. “Bene,” disse allora Guglielmo, “potrò porre domande ai monaci?” “Potrete.” “Potrò aggirarmi liberamente per l'abbazia?” “Ve ne conferisco facoltà.” “Mi investirete di questa missione coram monachos?” “Questa sera stessa.” “Comincerò però oggi, prima che i monaci sappiano di cosa mi avete incaricato. E inoltre desideravo molto, non ultima ragione del mio passaggio qui, visitare la vostra biblioteca, di cui si parla con ammirazione in tutte le abbazie della cristianità.” L'Abate si alzò quasi di scatto, col viso molto teso. “Potrete aggirarvi per tutta l'abbazia, ho detto. Non certo per l'ultimo piano dell'Edificio, nella biblioteca.” “Perché?” “Avrei dovuto spiegarvelo prima, e credevo che lo sapeste. Voi sapete che la nostra biblioteca non è come le altre...” “So che ha più libri di ogni altra biblioteca cristiana. So che a petto dei vostri armaria quelli di Bobbio o di Pomposa, di Cluny o di Fleury sembrano la stanza di un fanciullo che appena si inizi all'abaco. So che i seimila codici che vantava Novalesa cento e più anni fa sono poco a petto dei vostri, e forse molti di quelli sono ora qui. So che la vostra abbazia è l'unica luce che la cristianità possa opporre alle trentasei biblioteche di Bagdad, ai diecimila codici del visir Ibn al-Alkami, che il numero delle vostre bibbie eguaglia i duemilaquattrocento corani che vanta il Cairo, e che la realtà dei vostri armaria è luminosa evidenza contro la superba leggenda degli infedeli che anni fa volevano (intimi come sono del principe della menzogna) la biblioteca di Tripoli ricca di sei milioni di volumi e abitata da ottantamila commentatori e duecento scribi.” “Così è, siano rese lodi al cielo.” “So che tra i monaci che vivono tra voi molti vengono da altre abbazie sparse in tutto il mondo: chi per poco tempo, onde copiare manoscritti introvabili altrove e portarli poi alla propria sede, non senza avervi portato in cambio qualche altro manoscritto introvabile che voi copierete e inserirete nel vostro tesoro; e chi per lunghissimo tempo, per restarvi talora sino alla morte, perché solo qui può trovare le opere che illuminino la sua ricerca. E dunque avete tra voi germani, daci, ispani, francesi e greci. So che l'imperatore Federico, molti e molti anni fa, chiese a voi di compilargli un libro sulle profezie di Merlino e di tradurlo poi in arabo, per inviarlo in dono al soldano d'Egitto. So infine che un'abbazia gloriosa come Murbach, in questi tempi tristissimi, non ha più un solo scriba, che a San Gallo sono rimasti pochi monaci che sappiano scrivere, che ormai è nelle città che sorgono corporazioni e gilde composte di secolari che lavorano per le università e che solo la vostra abbazia rinnova di giorno in giorno, che dico?, porta a fastigi sempre più alti le glorie del vostro ordine...” “Monasterium sine libris,” citò assorto l'Abate, “est sicut civitas sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine suppellectili, mensa sine cibis, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor sine foliis... E il nostro ordine, crescendo intorno al doppio comandamento del lavoro e della preghiera, fu luce per tutto il mondo conosciuto, riserva di sapere, salvezza di una dottrina antica che minacciava di scomparire in incendi, saccheggi e terremoti, fucina di nuova scrittura e incremento dell'antica... Oh, voi sapete bene, viviamo ora in tempi molto oscuri, e arrossisco dirvi che non molti anni fa il concilio di Vienne ha dovuto ribadire che ogni monaco ha il dovere di prendere gli ordini... Quante nostre abbazie, che duecento anni fa erano centro splendente di grandezza e santità, sono ora rifugio di infingardi. L'ordine è ancora potente, ma il fetore delle città cinge dappresso i nostri luoghi santi, il popolo di Dio è ora incline ai commerci e alle guerre di fazione, giù nei grandi centri abitati, dove non può avere albergo lo spirito della santità, non solo si parla (che ai laici altro non potresti chiedere) ma già si scrive in volgare, e che mai nessuno di questi volumi possa entrare nelle nostre mura - fomite di eresia quale fatalmente diviene! Per i peccati degli uomini il mondo sta sospeso sul ciglio dell'abisso, penetrato dell'abisso stesso che l'abisso invoca. E domani, come voleva Onorio, i corpi degli uomini saranno più piccoli dei nostri, così come i nostri sono più piccoli di quelli degli antichi. Mundus senescit. Se ora Dio ha affidato al nostro ordine una missione, essa è quella di opporsi a questa corsa verso l'abisso, e conservando, ripetendo e difendendo il tesoro di saggezza che i nostri padri ci hanno affidato. La divina provvidenza ha ordinato che il governo universale, che all'inizio del mondo era in oriente, man mano che il tempo si avvicina si spostasse verso occidente, per avvertirci che la fine del mondo si approssima, perché il corso degli avvenimenti ha già raggiunto il limite dell'universo. Ma sino a che non scada definitivamente il millennio, fino a che non trionfi, sia pure per poco, la bestia immonda che è l'Anticristo, sta a noi difendere il tesoro del mondo cristiano, e la parola stessa di Dio, quale egli la dettò ai profeti e agli apostoli, quale i padri la ripeterono senza cambiarvi verbo, quale le scuole hanno cercato di chiosare, anche se oggi nelle scuole stesse si annida il serpe della superbia, dell'invidia, della dissennatezza. In questo tramonto noi siamo ancora fiaccole e luce alta sull'orizzonte. E finché queste mura resisteranno, noi saremo i custodi della Parola divina.” “E così sia,” disse Guglielmo in tono devoto. “Ma cosa c'entra questo con il fatto che non si può visitare la biblioteca?” “Vedete frate Guglielmo,” disse l'Abate, “per poter realizzare l'opera immensa e santa che arricchisce quelle mura,” e accennò alla mole dell'Edificio, che si intravvedeva dalle finestre della cella, troneggiante al di sopra della stessa chiesa abbaziale, “uomini devoti hanno lavorato per secoli, seguendo regole di ferro. La biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha ricevuto il segreto dal bibliotecario che lo precedette, e lo comunica, ancora in vita, all'aiuto bibliotecario, in modo che la morte non lo sorprenda privando la comunità di quel sapere. E le labbra di entrambi sono suggellate dal segreto. Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove riporli, egli solo è responsabile della loro conservazione. Gli altri monaci lavorano nello scriptorium e possono conoscere l'elenco dei volumi che la biblioteca rinserra. Ma un elenco di titoli spesso dice assai poco, solo il bibliotecario sa, dalla collocazione del volume, dal grado della sua inaccessibilità, quale tipo di segreti, di verità o di menzogne il volume custodisca. Solo egli decide come, quando, e se fornirlo al monaco che ne fa richiesta, talora dopo essersi consultato con me. Perché non tutte le verità sono per tutte le orecchie, non tutte le menzogne possono essere riconosciute come tali da un animo pio, e i monaci, infine, stanno nello scriptorium per porre capo a un'opera precisa, per la quale debbono leggere certi e non altri volumi, e non per seguire ogni dissennata curiosità che li colga, vuoi per debolezza della mente, vuoi per superbia, vuoi per suggestione diabolica.” “Ci sono dunque in biblioteca anche libri che contengono menzogne...” “I mostri esistono perché fanno parte del disegno divino e nelle stesse orribili fattezze dei mostri si rivela la potenza del Creatore. Così esistono per disegno divino anche i libri dei maghi, le kabbale dei giudei, le favole dei poeti pagani, le menzogne degli infedeli. E' stata ferma e santa convinzione di coloro che hanno voluto e sostenuto questa abbazia nei secoli, che anche nei libri menzogneri possa trasparire, agli occhi del lettore sagace, una pallida luce della sapienza divina. E perciò anche di essi la biblioteca è scrigno. Ma proprio per questo, capite, essa non può essere penetrata da chiunque. E inoltre,” aggiunse l'Abate quasi a scusarsi della pochezza di quest'ultimo argomento, “il libro è creatura fragile, soffre l'usura del tempo, teme i roditori, le intemperie, le mani inabili. Se per cento e cento anni ciascuno avesse potuto liberamente toccare i nostri codici, la maggior parte di essi non esisterebbe più. Il bibliotecario li difende dunque non solo dagli uomini ma anche dalla natura, e dedica la sua vita a questa guerra contro le forze dell'oblio, nemico della verità.” “Così nessuno, salvo due persone, entra all'ultimo piano dell'Edificio...” L'Abate sorrise: “Nessuno deve. Nessuno può. Nessuno, volendolo, vi riuscirebbe. La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno. Potreste entrare e potreste non uscire. E ciò detto, vorrei che voi vi adeguaste alle regole dell'abbazia.” “Ma voi non avete escluso che Adelmo possa essere precipitato da una delle finestre della biblioteca. E come posso ragionare sulla sua morte se non vedo il luogo in cui potrebbe aver avuto inizio la storia della sua morte?” “Frate Guglielmo,” disse l'Abate in tono conciliante, “un uomo che ha descritto il mio cavallo Brunello senza vederlo e la morte di Adelmo senza saperne quasi nulla, non avrà difficoltà a ragionare su luoghi a cui non ha accesso.” Guglielmo si piegò in un inchino: “Siete saggio anche quando siete severo. Come volete.” “Se mai fossi saggio, lo sarei perché so essere severo,” rispose l'Abate. “Un'ultima cosa,” chiese Guglielmo. “Ubertino?” “E' qui. Vi attende. Lo troverete in chiesa.” “Quando?” “Sempre,” sorrise l'Abate. “Sapete che, benché molto dotto, non è uomo da apprezzare la biblioteca. La ritiene una lusinga del secolo... Sta per lo più in chiesa a meditare, a pregare...” “E' vecchio?” chiese Guglielmo esitando. “Da quando non lo vedete?” “Da molti anni.” “E' stanco. Molto distaccato dalle cose di questo mondo. Ha sessantotto anni. Ma credo abbia ancora l'animo della sua gioventù.” “Lo cercherò subito, vi ringrazio.” L'Abate gli chiese se non voleva unirsi alla comunità per il desinare, dopo sesta. Guglielmo disse che aveva appena mangiato, e molto confortevolmente, e che avrebbe preferito vedere subito Ubertino. L'Abate salutò. Stava uscendo dalla cella quando si levò dalla corte un urlo straziante, come di persona ferita a morte, cui seguirono altri lamenti altrettanto atroci. “Cos'è?!” chiese Guglielmo, sconcertato. “Nulla,” rispose l'Abate sorridendo. “In questa stagione si stanno uccidendo i maiali. Un lavoro per i porcai. Non è di questo sangue che dovrete occuparvi.” Uscì, e fece torto alla sua fama di uomo accorto. Perché il mattino seguente... Ma frena la tua impazienza, lingua mia petulante. Ché nel giorno di cui dico, e prima di notte, avvennero ancora molte cose di cui sarà bene riferire. Primo giorno Sesta Dove Adso ammira il portale della chiesa e Guglielmo ritrova Ubertino da Casale La chiesa non era maestosa come altre che vidi in seguito a Strasburgo, a Chartres, a Bamberga e a Parigi. Assomigliava piuttosto a quelle che già avevo visto in Italia, poco inclini a elevarsi vertiginosamente verso il cielo e saldamente posate a terra, spesso più larghe che alte; se non che a un primo livello essa era sormontata, come una rocca, da una serie di merli quadrati, e sopra a questo piano si elevava una seconda costruzione, più che una torre, una solida seconda chiesa, sovrastata da un tetto a punta e traforata di severe finestre. Robusta chiesa abbaziale come ne costruivano i nostri antichi in Provenza e Linguadoca, lontana dalle arditezze e dall'eccesso di ricami propri dello stile moderno, che solo in tempi più recenti, credo, si era arricchita, sopra il coro, di una guglia arditamente puntata verso la volta celeste. Due colonne diritte e pulite antistavano l'ingresso, che appariva a prima vista come un solo grande arco: ma dalle colonne si dipartivano due contrafforti che, sormontati da altri e molteplici archi, conducevano lo sguardo, come nel cuore di un abisso, verso il portale vero e proprio, che si intravvedeva nell'ombra, sovrastato da un gran timpano, retto ai lati da due piedritti e al centro da un pilastro scolpito, che suddivideva l'entrata in due aperture, difese da porte di quercia rinforzate di metallo. In quell'ora del giorno il sole pallido batteva quasi a picco sul tetto e la luce cadeva di sghimbescio sulla facciata senza illuminare il timpano: così che, superate le due colonne, ci trovammo di colpo sotto la volta quasi silvestre delle arcate che si dipartivano dalla sequenza di colonne minori che proporzionalmente rinforzavano i contrafforti. Abituati finalmente gli occhi alla penombra, di colpo il muto discorso della pietra istoriata, accessibile com'era immediatamente alla vista e alla fantasia di chiunque (perché pictura est laicorum literatura), folgorò il mio sguardo e mi immerse in una visione di cui ancor oggi a stento la mia lingua riesce a dire. Vidi un trono posto nel cielo e uno assiso sul trono. Il volto dell'Assiso era severo e impassibile, gli occhi spalancati e dardeggianti su di una umanità terrestre giunta alla fine della sua vicenda, i capelli e la barba maestosi che ricadevano sul volto e sul petto come le acque di un fiume, in rivoli tutti uguali e simmetricamente bipartiti. La corona che portava sul capo era ricca di smalti e di gemme, la tunica imperiale color porpora gli si disponeva in ampie volute sulle ginocchia, intessuta di ricami e merletti in fili d'oro e d'argento. La mano sinistra, ferma sulle ginocchia, teneva un libro sigillato, la destra si levava in attitudine non so se benedicente o minacciosa. Il volto era illuminato dalla tremenda bellezza di un nimbo cruciforme e fiorito, e vidi brillare intorno al trono e sopra il capo dell'Assiso un arcobaleno di smeraldo. Davanti al trono, sotto i piedi dell'Assiso, scorreva un mare di cristallo e intorno all'Assiso, intorno al trono e sopra il trono, quattro animali terribili - vidi - terribili per me che li guardavo rapito, ma docili e dolcissimi per l'Assiso, di cui cantavano le lodi senza riposo. Ovvero, non tutti potevano dirsi terribili, perché bello e gentile mi apparve l'uomo che alla mia sinistra (e alla destra dell'Assiso) porgeva un libro. Ma orrenda mi parve dal lato opposto un'aquila, il becco dilatato, le piume irte disposte a lorìca, gli artigli possenti, le grandi ali aperte. E ai piedi dell'Assiso, sotto alle due prime figure, altre due, un toro e un leone, ciascuno dei due mostri serrando tra gli artigli e gli zoccoli un libro, il corpo volto all'esterno del trono ma il capo verso il trono, come torcendo le spalle e il collo in un impeto feroce, i fianchi palpitanti, gli arti di bestia che agonizzi, le fauci spalancate, le code avvolte e ritorte come serpenti e terminanti all'apice in lingue di fiamma. Entrambi alati, entrambi coronati da un nimbo, malgrado l'apparenza formidabile non erano creature dell'inferno, ma del cielo, e se tremendi apparivano era perché ruggivano in adorazione di un Venturo che avrebbe giudicato i vivi e i morti. Attorno al trono, a fianco dei quattro animali e sotto i piedi dell'Assiso, come visti in trasparenza sotto le acque del mare di cristallo, quasi a riempire tutto lo spazio della visione, composti secondo la struttura triangolare del timpano, elevandosi da una base di sette più sette, poi a tre più tre e quindi a due più due, a lato del trono, stavano ventiquattro vegliardi, su ventiquattro piccoli troni, rivestiti di vesti bianche e coronati d'oro. Chi aveva in mano una viola, chi una coppa di profumi, e uno solo suonava, tutti gli altri rapiti in estasi, il volto rivolto all'Assiso di cui cantavano le lodi, le membra anch'esse contorte come quelle degli animali, in modo da poter tutti vedere l'Assiso, ma non in modo belluino, bensì con movenze di danza estatica - come dovette danzare Davide intorno all'arca - in modo che dovunque essi fossero le loro pupille, contro la legge che governava la statura dei corpi, convergessero nello stesso fulgidissimo punto. Oh, quale concento di abbandoni e di slanci, di posture innaturali eppure aggraziate, in quel mistico linguaggio di membra miracolosamente liberate dal peso della materia corporale, signata quantità infusa di nuova forma sostanziale, come se il sacro stuolo fosse battuto da un vento impetuoso, soffio di vita, frenesia di dilettazione, giubilo allelujatico divenuto prodigiosamente, da suono che era, immagine. Corpi e membra abitati dallo Spirito, illuminati dalla rivelazione, sconvolti i volti dallo stupore, esaltati gli sguardi dall'entusiasmo, infiammate le gote dall'amore, dilatate le pupille dalla beatitudine, folgorato l'uno da una dilettosa costernazione, trafitto l'altro da un costernato diletto, chi trasfigurato dalla meraviglia, chi ringiovanito dal gaudio, eccoli tutti cantare con l'espressione dei visi, col panneggio delle tuniche, col piglio e la tensione degli arti, un cantico nuovo, le labbra semiaperte in un sorriso di lode perenne. E sotto i piedi dei vegliardi, e inarcati sopra di essi e sopra il trono e sopra il gruppo tetramorfo, disposti in bande simmetriche, a fatica distinguibili l'uno dall'altro tanto la sapienza dell'arte li aveva resi tutti mutuamente proporzionati, uguali nella varietà e variegati nell'unità, unici nella diversità e diversi nella loro atta coadunazione, in mirabile congruenza delle parti con dilettevole soavità di tinte, miracolo di consonanza e concordia di voci tra sé dissimili, compagine disposta a modo delle corde della cetra, consenziente e cospirante continuata cognazione per profonda e interna forza atta a operare l'univoco nel gioco stesso alterno degli equivoci, ornato e collazione di creature irreducibili a vicenda e a vicenda ridotte, opera di amorosa connessione retta da una regola celeste e mondana a un tempo (vincolo e stabile nesso di pace, amore, virtù, regime, potestà, ordine, origine, vita, luce, splendore, specie e figura), equalità numerosa risplendente per il rilucere della forma sopra le parti proporzionate della materia - ecco che si intrecciavano tutti i fiori e le foglie e i viticci e i cespi e i corimbi di tutte le erbe di cui si adornano i giardini della terra e del cielo, la viola, il citiso, la serpilla, il giglio, il ligustro, il narciso, la colocasia, l'acanto, il malobatro, la mirra e gli opobalsami. Ma, mentre l'anima mia, rapita da quel concerto di bellezze terrene e di maestosi segnali soprannaturali, stava per esplodere in un cantico di gioia, l'occhio, accompagnando il ritmo proporzionato dei rosoni fioriti ai piedi dei vegliardi, cadde sulle figure che, intrecciate, facevano tutt'uno con il pilastro centrale che sosteneva il timpano. Cos'erano e che simbolico messaggio comunicavano quelle tre coppie di leoni intrecciati a croce trasversalmente disposta, rampanti come archi, puntando le zampe posteriori sul terreno e poggiando le anteriori sul dorso del proprio compagno, la criniera arruffata in volute anguiformi, la bocca aperta in un ringhio minaccioso, legati al corpo stesso del pilastro da una pasta, o un nido, di viticci? A calmare il mio spirito, come erano forse posti ad ammaestrare la natura diabolica dei leoni e a trasformarla in simbolica allusione alle cose superiori, sui lati del pilastro, erano due figure umane, innaturalmente lunghe quanto la stessa colonna e gemelle di altre due che simmetricamente da ambo i lati le fronteggiavano sui piedritti istoriati ai lati esterni, ove ciascuna delle porte di quercia aveva i propri stipiti: erano dunque quattro figure di vegliardi, dai cui parafernali riconobbi Pietro e Paolo, Geremia e Isaia, contorti anch'essi come in un passo di danza, le lunghe mani ossute levate a dita tese come ali, e come ali le barbe e i capelli mossi da un vento profetico, le pieghe delle vesti lunghissime agitate dalle lunghissime gambe dando vita a onde e volute, opposti ai leoni ma della stessa materia dei leoni. E mentre ritraevo l'occhio affascinato da quella enigmatica polifonia di membra sante e di lacerti infernali, vidi a lato del portale, e sotto le arcate profonde, talora istoriati sui contrafforti nello spazio tra le esili colonne che li sostenevano e adornavano, e ancora sulla folta vegetazione dei capitelli di ciascuna colonna, e di lì ramificandosi verso la volta silvestre delle multiple arcate, altre visioni orribili a vedersi, e giustificate in quel luogo solo per la loro forza parabolica e allegorica o per l'insegnamento morale che trasmettevano: e vidi una femmina lussuriosa nuda e scarnificata, rosa da rospi immondi, succhiata da serpenti, accoppiata a un satiro dal ventre rigonfio e dalle gambe di grifo coperte di ispidi peli, la gola oscena, che urlava la propria dannazione, e vidi un avaro, rigido della rigidità della morte sul suo letto sontuosamente colonnato, ormai preda imbelle di una coorte di demoni di cui uno gli strappava dalla bocca rantolante l'anima in forma di infante (ahimè mai più nascituro alla vita eterna), e vidi un orgoglioso cui un demone s'installava sulle spalle ficcandogli gli artigli negli occhi, mentre altri due golosi si straziavano in un corpo a corpo ripugnante, e altre creature ancora, testa di capro, pelo di leone, fauci di pantera, prigionieri in una selva di fiamme di cui quasi potevi sentire l'alito ardente. E intorno a loro, frammisti a loro, sopra di loro e sotto ai loro piedi, altri volti e altre membra, un uomo e una donna che si afferravano per i capelli, due aspidi che risucchiavano gli occhi di un dannato, un uomo ghignante che dilatava con le mani adunche le fauci di un'idra, e tutti gli animali del bestiario di Satana, riuniti a concistoro e posti a guardia e corona del trono che li fronteggiava, a cantarne la gloria con la loro sconfitta, fauni, esseri dal doppio sesso, bruti dalle mani con sei dita, sirene, ippocentauri, gorgoni, arpie, incubi, dracontopodi, minotauri, linci, pardi, chimere, cenoperi dal muso di cane che lanciavano fuoco dalle narici, dentetiranni, policaudati, serpenti pelosi, salamandre, ceraste, chelidri, colubri, bicipiti dalla schiena armata di denti, iene, lontre, cornacchie, coccodrilli, idropi dalle corna a sega, rane, grifoni, scimmie, cinocefali, leucroti, manticore, avvoltoi, parandri, donnole, draghi, upupe, civette, basilischi, ypnali, presteri, spectafichi, scorpioni, sauri, cetacei, scitali, anfisbene, jaculi, dipsadi, ramarri, remore, polipi, murene e testuggini. L'intera popolazione degli inferi pareva essersi data convegno per far da vestibolo, selva oscura, landa disperata dell'esclusione, all'apparizione dell'Assiso del timpano, al suo volto promettente e minaccioso, essi, gli sconfitti dell'Armageddon, di fronte a chi verrà a separare definitivamente i vivi dai morti. E tramortito (quasi) da quella visione, incerto ormai se mi trovassi in un luogo amico o nella valle del giudizio finale, sbigottii, e a stento trattenni il pianto, e mi parve di udire (o udii davvero?) quella voce e vidi quelle visioni che avevano accompagnato la mia fanciullezza di novizio, le mie prime letture dei libri sacri e le notti di meditazione nel coro di Melk, e nel deliquio dei miei sensi debolissimi e indeboliti udii una voce potente come di tromba che diceva “quello che vedi scrivilo in un libro” (e questo ora sto facendo), e vidi sette lampade d'oro e in mezzo alle lampade Uno simile a figlio d'uomo, cinto al petto con una fascia d'oro, candidi la testa e i capelli come lana candida, gli occhi come fiamma di fuoco, i piedi come bronzo ardente nella fornace, la voce come il fragore di molte acque, teneva nella destra sette stelle e dalla bocca gli usciva una spada a doppio taglio. E vidi una porta aperta nel cielo e Colui che era assiso mi parve come diaspro e sardonio e un'iride avvolgeva il trono e dal trono uscivano lampi e tuoni. E l'Assiso prese nelle mani una falce affilata e gridò: “Vibra la tua falce e mieti, è giunta l'ora di mietere perché è matura la messe della terra”; e Colui che era assiso vibrò la sua falce e la terra fu mietuta. Fu allora che compresi che d'altro non parlava la visione, se non di quanto stava avvenendo nell'abbazia e avevamo colto dalle labbra reticenti dell'Abate - e quante volte nei giorni seguenti non tornai a contemplare il portale, sicuro di vivere la vicenda stessa che esso raccontava. E compresi che ivi eravamo saliti per essere testimoni di una grande e celeste carneficina. Tremai, come fossi bagnato dalla pioggia gelida d'inverno. E udii un'altra voce ancora, ma questa volta essa veniva dalle mie spalle ed era una voce diversa, perché partiva dalla terra e non dal centro sfolgorante della mia visione; e anzi spezzava la visione perché anche Guglielmo (a quel punto mi riavvidi della sua presenza), sino ad allora perduto anch'egli nella contemplazione, si volgeva come me. L'essere alle nostre spalle pareva un monaco, anche se la tonaca sudicia e lacera lo faceva assomigliare piuttosto a un vagabondo, e il suo volto non era dissimile da quello dei mostri che avevo appena visto sui capitelli. Non mi è mai accaduto in vita, come invece accadde a molti miei confratelli, di essere visitato dal diavolo, ma credo che se esso dovesse apparirmi un giorno, incapace per decreto divino di celare appieno la sua natura anche quando volesse farsi simile all'uomo, esso non avrebbe altre fattezze di quelle che mi presentava in quell'istante il nostro interlocutore. La testa rasata, ma non per penitenza, bensì per l'azione remota di qualche viscido eczema, la fronte bassa, ché se egli avesse avuto capelli sul capo essi si sarebbero confusi con le sopracciglia (che aveva dense e incolte), gli occhi erano rotondi, con le pupille piccole e mobilissime, e lo sguardo non so se innocente o maligno, e forse entrambe le cose, a tratti e in momenti diversi. Il naso non poteva dirsi tale se non perché un osso si dipartiva dalla metà degli occhi, ma come si staccava dal volto subito ne rientrava, trasformandosi in null'altro che due oscure caverne, narici amplissime e folte di peli. La bocca, unita alle narici da una cicatrice, era ampia e sgraziata, più estesa a destra che a sinistra, e tra il labbro superiore, inesistente, e l'inferiore, prominente e carnoso, emergevano con ritmo irregolare denti neri e aguzzi come quelli di un cane. L'uomo sorrise (o almeno così credetti) e levando il dito come per ammonire, disse: “Penitenziagite! Vide quando draco venturus est a rodegarla l'anima tua! La mortz est super nos! Prega che vene lo papa santo a liberar nos a malo de todas le peccata! Ah ah, ve piase ista negromanzia de Domini Nostri Iesu Christi! Et anco jois m'es dols e plazer m'es dolors... Cave el diabolo! Semper m'aguaita in qualche canto per adentarme le carcagna. Ma Salvatore non est insipiens! Bonum monasterium, et aqui se magna et se priega dominum nostrum. Et el resto valet un figo seco. Et amen.No?” Dovrò, nel prosieguo di questa storia, parlare ancora, e molto, di questa creatura e riferirne i discorsi. Confesso che mi riesce molto difficile farlo perché non saprei dire ora, come non compresi mai allora, che genere di lingua egli parlasse. Non era il latino, in cui ci esprimevamo tra uomini di lettere all'abbazia, non era il volgare di quelle terre, né altro volgare che mai avessi udito. Credo di avere dato una pallida idea del suo modo di parlare riferendo poco sopra (così come me le ricordo) le prime parole che udii da lui. Quando più tardi appresi della sua vita avventurosa e dei vari luoghi in cui era vissuto, senza trovar radici in alcuno, mi resi conto che Salvatore parlava tutte le lingue, e nessuna. Ovvero si era inventata una lingua propria che usava i lacerti delle lingue con cui era entrato in contatto - e una volta pensai che la sua fosse, non la lingua adamica che l'umanità felice aveva parlato, tutti uniti da una sola favella, dalle origini del mondo sino alla Torre di Babele, e nemmeno una delle lingue sorte dopo il funesto evento della loro divisione, ma proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva. Né d'altra parte potrei chiamare lingua la favella di Salvatore, perché in ogni lingua umana vi sono delle regole e ogni termine significa ad placitum una cosa, secondo una legge che non muta, perché l'uomo non può chiamare il cane una volta cane e una volta gatto, né pronunciare suoni a cui il consenso delle genti non abbia assegnato un senso definito, come accadrebbe a chi dicesse la parola “blitiri”. E tuttavia, bene o male, io capivo cosa Salvatore volesse intendere, e così gli altri. Segno che egli parlava non una, ma tutte le lingue, nessuna nel modo giusto, prendendo le sue parole ora dall'una ora dall'altra. Mi avvidi pure in seguito che egli poteva nominare una cosa ora in latino ora in provenzale, e mi resi conto che, più che inventare le proprie frasi, egli usava disiecta membra di altre frasi, udite un giorno, a seconda della situazione e delle cose che voleva dire, come se riuscisse a parlare di un cibo, intendo, solo con le parole delle genti presso cui aveva mangiato quel cibo, ed esprimere la sua gioia solo con sentenze che aveva udito emettere da gente gioiosa, il giorno che egli aveva provato parimenti gioia. Era come se la sua favella fosse quale la sua faccia, messa insieme con pezzi di facce altrui, o come vidi talora dei preziosi reliquiari (si licet magnis componere parva, o alle cose divine le diaboliche) che nascevano dai detriti di altri oggetti sacri. In quel momento, in cui lo incontrai per la prima volta, Salvatore mi apparve, e per il volto, e per il modo di parlare, un essere non dissimile dagli incroci pelosi e ungulati che avevo appena visto sotto il portale. Più tardi mi accorsi che l'uomo era forse di buon cuore e di umore faceto. Più tardi ancora... Ma andiamo per ordine. Anche perché, non appena egli ebbe parlato, il mio maestro lo interrogò con molta curiosità. “Perché hai detto penitenziagite?” chiese. “Domine frate magnificentisimo,” rispose Salvatore con una sorta di inchino, “Jesus venturus est et li homini debent facere penitentia. No?” Guglielmo lo guardò fissamente: “Sei venuto qui da un convento di minoriti?” “No intendo.” “Chiedo se sei vissuto tra i frati di santo Francesco, chiedo se hai conosciuto i cosiddetti apostoli...” Salvatore impallidì, ovvero il suo volto abbronzato e belluino divenne grigio. Fece un profondo inchino, pronunciò a mezze labbra un “vade retro”, si segnò devotamente e fuggì voltandosi indietro ogni tanto. “Cosa gli avete chiesto?” domandai a Guglielmo. Egli restò un poco soprappensiero. “Non importa, te lo dirò dopo. Ora entriamo. Voglio trovare Ubertino.” Era da poco trascorsa l'ora sesta. Il sole, pallido, penetrava da occidente, e quindi da poche e sottili finestre, nell'interno della chiesa. Una striscia sottile di luce toccava ancora l'altare maggiore, il cui paliotto mi parve rilucere di un fulgore aureo. Le navate laterali erano immerse nella penombra. Presso all'ultima cappella prima dell'altare, nella navata di sinistra, si ergeva una esile colonna su cui stava una Vergine in pietra, scolpita nello stile dei moderni, dal sorriso ineffabile, il ventre prominente, il bambino in braccio, vestita di un abito grazioso, con un sottile corsetto. Ai piedi della Vergine, in preghiera, quasi prostrato, stava un uomo, vestito con gli abiti dell'ordine cluniacense. Ci appressammo. L'uomo, udendo il rumore dei nostri passi, alzò il volto. Era un vegliardo, col volto glabro, il cranio senza capelli, i grandi occhi celesti, una bocca sottile e rossa, la pelle candida, il teschio ossuto a cui la pelle aderiva come fosse una mummia conservata nel latte. Le mani erano bianche, dalle dita lunghe e sottili. Sembrava una fanciulla avvizzita da una morte precoce. Posò su di noi uno sguardo dapprima smarrito, come lo avessimo disturbato in una visione estatica, poi il volto gli si illuminò di gioia. “Guglielmo!” esclamò. “Fratello mio carissimo!” Si alzò a fatica e si fece incontro al mio maestro, abbracciandolo e baciandolo sulla bocca. “Guglielmo!” ripeté, e gli occhi gli si inumidirono di pianto. “Quanto tempo! Ma ti riconosco ancora! Quanto tempo, quante vicende! Quante prove che il Signore ci ha imposto!” Pianse. Guglielmo gli rese l'abbraccio, evidentemente commosso. Ci trovavamo davanti a Ubertino da Casale. Di lui avevo già sentito parlare e a lungo, anche prima di venire in Italia, e ancor più frequentando i francescani della corte imperiale. Qualcuno mi aveva persino detto che il più grande poeta di quei tempi, Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema (che io non potei leggere perché era scritto nel volgare toscano) a cui avevano posto mano e cielo e terra, e di cui molti versi altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo Arbor vitae crucifixae. Né questo era il solo titolo di merito di quell'uomo famoso. Ma per permettere al mio lettore di capire meglio l'importanza di quell'incontro, dovrò cercare di ricostruire le vicende di quegli anni, così come le avevo comprese e durante il mio breve soggiorno nell'Italia centrale, da parole sparse del mio maestro, e ascoltando i molti colloqui che Guglielmo aveva avuto con abati e monaci nel corso del nostro viaggio. Cercherò di dirne cosa avevo capito, anche se non son sicuro di dire bene queste cose. I miei maestri di Melk mi avevano detto sovente che è molto difficile per un nordico farsi idee chiare sulle vicende religiose e politiche d'Italia. La penisola, in cui la potenza del clero era evidente più che in ogni altro paese, e in cui più che in ogni altro paese il clero ostentava potenza e ricchezza, aveva generato da almeno due secoli movimenti di uomini intesi a una vita più povera, in polemica coi preti corrotti, di cui rifiutavano persino i sacramenti, riunendosi in comunità autonome, al tempo stesso invise ai signori, all'impero e alle magistrature cittadine. Infine era venuto santo Francesco, e aveva diffuso un amore di povertà che non contraddiceva ai precetti della chiesa, e per opera sua la chiesa aveva accolto il richiamo alla severità dei costumi di quegli antichi movimenti e li aveva purificati dagli elementi di disordine che si annidavano in essi. Avrebbe dovuto seguirne un'epoca di mitezza e santità, ma, come l'ordine francescano cresceva e attirava a sé gli uomini migliori, esso diveniva troppo potente e legato ad affari terreni, e molti francescani vollero riportarlo alla purezza di un tempo. Cosa assai difficile per un ordine che ai tempi in cui ero all'abbazia già contava più di trentamila membri sparsi in tutto il mondo. Ma così è, e molti di questi frati di san Francesco si opponevano alla regola che l'ordine si era data, dicendo che l'ordine aveva ormai assunto i modi di quelle istituzioni ecclesiastiche per riformare le quali era nato. E che questo era già avvenuto ai tempi in cui Francesco era in vita, e che le sue parole e i suoi propositi erano stati traditi. Molti di essi riscoprirono allora il libro di un monaco cistercense che aveva scritto agli inizi del XII secolo dell'era nostra, chiamato Gioacchino e a cui si attribuiva spirito di profezia. Infatti egli aveva previsto l'avvento di un'era nuova, in cui lo spirito di Cristo, da tempo corrotto a opera dei suoi falsi apostoli, si sarebbe di nuovo realizzato sulla terra. E aveva annunciato tali scadenze che a tutti era parso chiaro che egli parlasse senza saperlo dell'ordine francescano. E di questo molti francescani si erano assai rallegrati, pare sin troppo, tanto che a metà secolo a Parigi i dottori della Sorbona condannarono le proposizioni di quell'abate Gioacchino, ma pare che lo fecero perché i francescani (e i domenicani) stavano diventando troppo potenti, e sapienti, nell'università di Francia, e si voleva eliminarli come eretici. Il che poi non si fece e fu un gran bene per la chiesa, perché ciò permise che fossero divulgate le opere di Tommaso d'Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio, che certo non erano eretici. Dove si vede che anche a Parigi le idee erano confuse, o qualcuno voleva confonderle per fini suoi. E questo è il male che l'eresia fa al popolo cristiano, che rende oscure le idee e spinge tutti a diventare inquisitori per il proprio bene personale. Che poi quanto vidi all'abbazia (e di cui dirò dopo) mi ha fatto pensare che spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici. E non solo nel senso che se li figurano quando non ci sono, ma che reprimono con tanta veemenza la tabe eretica da spingere molti a farsene partecipi, in odio a loro. Davvero, un circolo immaginato dal demonio, che Dio ci salvi. Ma dicevo dell'eresia (se pur tale fosse stata) gioachimita. E si vide in Toscana un francescano, Gerardo da Borgo San Donnino, farsi voce delle predizioni di Gioacchino e impressionar molto l'ambiente dei minori. Sorse così tra loro una schiera di sostenitori della regola antica, contro la riorganizzazione dell'ordine tentata dal grande Bonaventura, che ne era poi divenuto generale. Nell'ultimo trentennio del secolo scorso, quando il concilio di Lione, salvando l'ordine francescano contro chi lo voleva abolire, gli concesse la proprietà di tutti i beni che aveva in uso, come già era di legge per gli ordini più antichi, alcuni frati nelle Marche si ribellarono, perché ritenevano che lo spirito della regola fosse stato definitivamente tradito, in quanto un francescano non deve possedere nulla, né personalmente, né come convento, né come ordine. Li misero in prigione a vita. Non mi pare che predicassero cose contrarie al vangelo, ma quando entra in gioco il possesso delle cose terrene è difficile che gli uomini ragionino secondo giustizia. Mi dissero che anni dopo, il nuovo generale dell'ordine, Raimondo Gaufredi, trovasse questi prigionieri ad Ancona e, liberandoli, dicesse: “Volesse Dio che tutti noi e tutto l'ordine fossimo macchiati di tale colpa.” Segno che non è vero quel che dicono gli eretici e nella chiesa abitano ancora uomini di grande virtù. C'era tra questi prigionieri liberati, Angelo Clareno, che si incontrò poi con un frate di Provenza, Pietro di Giovanni Olivi, che predicava le profezie di Gioacchino e poi con Ubertino da Casale, e di lì nacque il movimento degli spirituali. Saliva in quegli anni al soglio pontificio un eremita santissimo, Pietro da Morrone, che regnò come Celestino V, e costui fu accolto con sollievo dagli spirituali: “Apparirà un santo,” era stato detto, “e osserverà gli insegnamenti di Cristo, sarà di angelica vita, tremate prelati corrotti.” Forse Celestino era di troppa angelica vita, o i prelati intorno a lui eran troppo corrotti, o non riusciva a sopportare la tensione di una guerra ormai troppo lunga con l'imperatore e con gli altri re d'Europa; fatto è che Celestino rinunciò alla sua dignità e si ritirò in romitaggio. Ma nel breve periodo del suo regno, meno di un anno, le speranze degli spirituali furono tutte soddisfatte: essi andarono da Celestino che fondò con loro la comunità detta dei fratres et pauperes heremitae domini Celestini. D'altra parte, mentre il papa doveva funger da mediatore tra i più potenti cardinali di Roma, ve ne furono alcuni come un Colonna e un Orsini, che segretamente sostenevano le nuove tendenze di povertà: scelta invero assai curiosa per uomini potentissimi che vivevano tra agi e ricchezze smodate, e non ho mai capito se semplicemente usassero degli spirituali per i loro fini di governo o in qualche modo si ritenessero giustificati nella loro vita carnale dal sostenere le tendenze spirituali; e forse erano vere entrambe le cose, per quel poco che io capisco delle cose italiane. Ma proprio per fare un esempio, Ubertino era stato accolto come cappellano dal cardinale Orsini quando, divenuto il più ascoltato degli spirituali, correva rischio di essere accusato come eretico. E lo stesso cardinale gli aveva fatto scudo ad Avignone. Come avviene però in tali casi, da un lato Angelo e Ubertino predicavano secondo dottrina, dall'altro grandi masse di semplici accettavano questa loro predicazione e si diffondevano per il paese, al di là di ogni controllo. Così l'Italia fu invasa da questi fraticelli o frati dalla povera vita che parvero pericolosi a molti. Ormai era difficile distinguere i maestri spirituali, che tenevano contatto con le autorità ecclesiastiche, e i loro seguaci più semplici, che semplicemente ormai vivevano fuori dell'ordine, chiedendo l'elemosina e vivendo giorno per giorno del lavoro delle loro mani, senza trattenere proprietà alcuna. E questi sono coloro che la voce pubblica ormai chiamava fraticelli, non dissimili dai beghini francesi, che si ispiravano a Pietro di Giovanni Olivi. Celestino V fu sostituito da Bonifacio VIII e questo papa si affrettò a dimostrare scarsissima indulgenza per spirituali e fraticelli in genere: proprio negli ultimi anni del secolo che moriva segnò una bolla, Firma cautela, con cui condannava in un sol colpo bizochi, girovaghi questuanti che si aggiravano al limite estremo dell'ordine francescano, e gli stessi spirituali, ovvero coloro che si sottraevano alla vita dell'ordine per darsi all'eremo. Gli spirituali tentarono poi di ottenere il consenso di altri pontefici, come Clemente V, per potersi staccare dall'ordine in modo non violento. Credo ci sarebbero riusciti, ma l'avvento di Giovanni XXII tolse loro ogni speranza. Come fu eletto nel 1316 egli scrisse al re di Sicilia perché espellesse questi frati dalle sue terre, perché molti si erano rifugiati laggiù: e fece mettere in ceppi Angelo Clareno e gli spirituali di Provenza. Non deve essere stata un'impresa facile e molti nella curia vi resistevano. Il fatto è che Ubertino e Clareno riuscirono a essere lasciati liberi di abbandonare l'ordine e furono accolti l'uno dai benedettini e l'altro dai celestini. Ma per quelli che rimasero a condurre la loro vita libera, Giovanni fu spietato e li fece perseguitare dall'inquisizione e molti furono bruciati. Egli aveva capito però che per distruggere la mala pianta dei fraticelli, che minavano alle basi l'autorità della chiesa, bisognava condannare le proposizioni su cui essi basavano la loro fede. Essi sostenevano che Cristo e gli apostoli non avevano avuto alcuna proprietà né individuale né in comune, e il papa condannò come eretica questa idea. Cosa stupefacente, perché non si vede perché mai un papa debba ritenere perversa l'idea che Cristo fosse povero: ma è che proprio un anno prima si era svolto il capitolo generale dei francescani a Perugia, che aveva sostenuto questa opinione, e condannando gli uni il papa condannava anche l'altro. Come ho già detto, il capitolo arrecava gran pregiudizio alla sua lotta contro l'imperatore, questo è il fatto. Così da allora molti fraticelli, che non sapevano nulla né di impero né di Perugia, morirono bruciati. Queste cose pensavo guardando un personaggio leggendario come Ubertino. Il mio maestro mi aveva presentato e il vecchio mi aveva accarezzato una gota, con una mano calda, quasi ardente. Al tocco di quella mano avevo capito molte delle cose che avevo udito su quel sant'uomo e altre che avevo letto nelle pagine di Arbor Vitae, comprendevo il fuoco mistico che lo aveva divorato sin dalla giovinezza quando, pur studiando a Parigi, si era ritratto dalle speculazioni teologiche e aveva immaginato di essere trasformato nella penitente Maddalena; e i rapporti intensissimi che aveva avuto con la santa Angela da Foligno dalla quale era stato iniziato ai tesori della vita mistica e all'adorazione della croce; e perché i suoi superiori un giorno, preoccupati dall'ardore della sua predicazione, lo avessero inviato in ritiro alla Verna. Scrutavo quel volto, dai tratti dolcissimi come quelli della santa con cui era stato in fraterno commercio di spiritualissimi sensi. Intuivo che doveva aver saputo assumere tratti ben più duri quando nel 1311 il concilio di Vienne, con la decretale Exivi de paradiso aveva eliminato i superiori francescani ostili agli spirituali, ma aveva imposto a questi di vivere in pace in seno all'ordine, e questo campione della rinuncia non aveva accettato quell'accorto compromesso e si era battuto perché fosse costituito un ordine indipendente, ispirato al massimo del rigore. Questo gran combattente aveva allora perduto la sua battaglia, perché in quegli anni Giovanni XXII propugnava una crociata contro i seguaci di Pietro di Giovanni Olivi (tra cui lui stesso era annoverato) e condannava i frati di Narbona e Béziers. Ma Ubertino non aveva esitato a difendere di fronte al papa la memoria dell'amico, e il papa, soggiogato dalla sua santità, non aveva osato condannare lui (anche se aveva poi condannato gli altri). In quell'occasione anzi gli aveva offerto una via di salvezza prima consigliandogli e poi ordinandogli di entrare nell'ordine cluniacense. Ubertino, che doveva essere altresì abile (lui apparentemente così disarmato e fragile) nel conquistarsi protezioni e alleanze nella corte pontificia, aveva sì accettato di entrare nel monastero di Gemblach nelle Fiandre, ma credo non ci fosse mai neppure andato, ed era rimasto ad Avignone, sotto le insegne del cardinale Orsini, a difendere la causa dei francescani. Solo negli ultimi tempi (e le voci che avevo udito erano imprecise) la sua fortuna a corte era tramontata, si era dovuto allontanare da Avignone mentre il papa faceva inseguire quest'uomo indomabile come eretico che per mundum discurrit vagabundus. Di lui, si diceva, non si aveva più traccia. Nel pomeriggio avevo appreso, dal dialogo tra Guglielmo e l'Abate, che egli era ora nascosto in questa abbazia. E ora lo vedevo davanti a me. “Guglielmo,” stava dicendo, “erano sul punto di uccidermi, sai, ho dovuto fuggire nottetempo.” “Chi ti voleva morto? Giovanni?” “No. Giovanni non mi ha mai amato, ma mi ha sempre rispettato. In fondo è lui che mi ha offerto un modo di sfuggire al processo, dieci anni fa, imponendomi di entrare nei benedettini, e con questo metteva a tacere i miei nemici. Hanno mormorato a lungo, ironizzavano sul fatto che un campione della povertà entrasse in un ordine così ricco, e vivesse alla corte del cardinale Orsini... Guglielmo, tu sai quanto tenga alle cose di questa terra! Ma era il modo di restare ad Avignone e difendere i miei confratelli. Il papa ha timore dell'Orsini, non mi avrebbe mai torto un capello. Ancora tre anni fa mi ha mandato messaggero dal re di Aragona.” “E allora chi ti voleva male?” “Tutti. La curia. Hanno tentato di assassinarmi due volte. Hanno tentato di farmi tacere. Tu sai cosa è avvenuto cinque anni fa. Erano stati condannati da due anni i beghini di Narbona e Berengario Talloni, che pure era uno dei giudici, si era appellato al papa. Erano momenti difficili, Giovanni aveva già emesso due bolle contro gli spirituali e lo stesso Michele da Cesena aveva ceduto - a proposito, quando arriva?” “Sarà qui tra due giorni.” “Michele... E' tanto che non lo vedo. Ora si è ravveduto, capisce cosa volevamo, il capitolo di Perugia ci ha dato ragione. Ma allora, ancora nel 1318 ha ceduto al papa e gli ha messo nelle mani cinque spirituali di Provenza che resistevano alla sottomissione. Bruciati, Guglielmo... Oh, è orribile!” Si nascose il capo tra le mani. “Ma cosa è avvenuto esattamente dopo l'appello del Talloni?” chiese Guglielmo. “Giovanni doveva riaprire il dibattito, capisci? Doveva, perché anche in curia c'erano uomini presi dal dubbio, anche i francescani della curia - farisei, sepolcri imbiancati, pronti a vendersi per una prebenda, ma erano presi dal dubbio. Fu allora che Giovanni mi chiese di stendere una memoria sulla povertà. Fu una cosa bella,Guglielmo, Dio mi perdoni la superbia...” “L'ho letta, Michele me l'ha mostrata.” “C'erano i titubanti, anche tra i nostri, il provinciale di Aquitania, il cardinale di San Vitale, il vescovo di Caffa...” “Un imbecille,” disse Guglielmo. “Riposi in pace, è volato a Dio due anni fa.” “Dio non è stato così misericordioso. Fu una falsa notizia arrivata da Costantinopoli. E' ancora tra noi, mi dicono che farà parte della legazione. Dio ci protegga!” “Ma è favorevole al capitolo di Perugia,” disse Ubertino. “Appunto. Appartiene a quella razza di uomini che sono sempre i migliori campioni del loro avversario.” “A dire il vero,” disse Ubertino, “anche allora non giovò molto alla causa. E poi tutto finì in un nulla di fatto, ma almeno non si stabilì che l'idea era eretica, e questo fu importante. Per ciò gli altri non mi hanno mai perdonato. Hanno cercato di nuocermi in tutti i modi, hanno detto che fui a Sachsenhausen quando Ludovico tre anni fa proclamò Giovanni eretico. Eppure tutti sapevano che in luglio ero ad Avignone con l'Orsini... Trovarono che parti della dichiarazione dell'imperatore riflettevano le mie idee, che follia.” “Mica tanto,” disse Guglielmo. “Le idee gliele avevo date io, traendole dalla tua dichiarazione di Avignone, e da alcune pagine dell'Olivi.” “Tu?” esclamò, tra stupefatto e gioioso, Ubertino, “ma allora mi dai ragione!” Guglielmo apparve imbarazzato: “Erano buone idee per l'imperatore, in quel momento,” disse evasivamente. Ubertino lo guardò con diffidenza. “Ah, ma tu non ci credi veramente, vero?” “Racconta ancora,” disse Guglielmo, “racconta come ti sei salvato da quei cani.” “Oh sì, cani, Guglielmo. Cani rabbiosi. Mi trovai a combattere con lo stesso Bonagrazia, sai?” “Ma Bonagrazia da Bergamo è con noi!” “Ora, dopo che io gli ebbi parlato a lungo. Solo a quel punto si convinse e protestò contro la Ad conditorem canonum. E il papa lo ha imprigionato per un anno.” “Ho sentito che ora è vicino a un mio amico che è alla curia, Guglielmo di Occam.” “L'ho conosciuto poco. Non mi piace. Un uomo senza fervore, tutta testa, niente cuore.” “Ma è una bella testa.” “Può darsi, e lo porterà all'inferno.” “Allora lo rivedrò laggiù, e discuteremo di logica.” “Taci Guglielmo,” disse Ubertino sorridendo con intenso affetto, “tu sei migliore dei tuoi filosofi. Se solo avessi voluto...” “Cosa?” “Quando ci vedemmo l'ultima volta in Umbria? Ricordi? Ero stato appena guarito dai miei mali per l'intercessione di quella donna meravigliosa... Chiara da Montefalco...” mormorò col volto radioso, “Chiara... Quando la natura femminile, per sua natura così perversa, si sublima nella santità, allora sa farsi il più alto veicolo della grazia. Sai come la mia vita sia stata ispirata alla castità più pura, Guglielmo,” (lo stava afferrando per un braccio, convulsamente) “sai con quale... feroce - sì, è la parola giusta - con quale feroce sete di penitenza ho tentato di mortificare in me i palpiti della carne, per farmi una sola trasparenza all'amore di Gesù Crocifisso... Eppure tre donne nella mia vita sono state per me tre messaggeri celesti. Angela da Foligno, Margherita da Città di Castello (che mi anticipò la fine del mio libro quando io non ne avevo scritto che un terzo), e infine Chiara da Montefalco. Fu un premio del cielo che io, proprio io, dovessi indagare sui suoi miracoli e proclamarne la santità alle folle, prima che santa madre chiesa si muovesse. E tu eri laggiù Guglielmo, e potevi aiutarmi in quella santa impresa, e non volesti...” “Ma la santa impresa a cui mi invitavi era quella di mandare al rogo Bentivenga, Jacomo e Giovannuccio,” disse piano Guglielmo. “Stavano offuscando la memoria di lei, con le loro perversioni. E tu eri inquisitore!” “E proprio allora chiesi di essere sollevato da quell'incarico. La storia non mi piaceva. Non mi piacque, sarò franco, neppure il modo in cui inducesti Bentivenga a confessare i suoi errori. Hai fatto finta di volere entrare nella sua setta, se setta era, gli hai carpito i suoi segreti e lo hai fatto arrestare.” “Ma così si procede contro i nemici di Cristo! Erano eretici, erano pseudo apostoli, puzzavano dello zolfo di fra Dolcino!” “Erano gli amici di Chiara.” “No Guglielmo, non sfiorare neppure con un'ombra la memoria di Chiara!” “Ma circolavano nel suo gruppo...” “Erano minoriti, si dicevano spirituali, e invece erano frati della comunità! Ma lo sai che fu chiaro, all'inchiesta, che Bentivenga da Gubbio si proclamava apostolo, e poi con Giovannuccio da Bevagna seduceva le monache dicendo loro che l'inferno non esiste, che si possono soddisfare desideri carnali senza offendere Dio, che si può ricevere il corpo di Cristo (Signore perdonami!) dopo aver giaciuto con una monaca, che al Signore fu più accetta Maddalena della vergine Agnese, che ciò che il volgo chiama demonio è Dio stesso, perché il demone è la sapienza e Dio è appunto sapienza! E fu la beata Chiara, dopo aver udito questi discorsi, ad avere quella visione in cui Dio stesso le disse che quelli erano malvagi seguaci dello Spiritus Libertatis!” “Erano minoriti con la mente accesa dalle stesse visioni di Chiara, e spesso il passo tra visione estatica e frenesia di peccato è minimo,” disse Guglielmo. Ubertino gli strinse le mani e gli occhi gli si velarono ancora di pianto: “Non dire questo, Guglielmo. Come puoi confondere il momento dell'amore estatico, che ti brucia le viscere col profumo dell'incenso, e lo sregolamento dei sensi che sa di zolfo? Bentivenga istigava a toccare le nude membra di un corpo, affermava che solo così si ottiene la liberazione dall'impero dei sensi, homo nudus cum nuda iacebat...” “Et non commiscebantur ad invicem...” “Bugie! Cercavano il piacere, se lo stimolo carnale si faceva sentire, essi non reputavano peccato che per quietarlo uomo e donna giacessero insieme, e l'uno toccasse e baciasse l'altro in ogni parte, e quello congiungesse il suo ventre nudo col ventre nudo di questa!” Confesso che il modo con cui Ubertino stigmatizzava il vizio altrui non mi induceva a pensieri virtuosi. Il mio maestro dovette accorgersi che ero turbato, e interruppe il santo uomo. “Sei uno spirito ardente, Ubertino, nell'amore di Dio come nell'odio contro il male. Quello che volevo dire è che c'è poca differenza tra l'ardore dei Serafini e l'ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un'accensione estrema della volontà.” “Oh, la differenza c'è, e io la so!” disse ispirato Ubertino. “Tu vuoi dire che tra volere il bene e volere il male c'è un piccolo passo, perché si tratta sempre di dirigere la stessa volontà. Questo è vero. Ma la differenza è nell'oggetto, e l'oggetto è riconoscibile limpidamente. Di qui Dio, di là il diavolo.” “E io temo di non saper più distinguere, Ubertino. Non fu la tua Angela da Foligno a raccontare di quel giorno che, rapita in ispirito, stette nel sepolcro di Cristo? Non disse come dapprima ne baciò il petto e lo vide giacere con gli occhi chiusi, poi baciò la sua bocca e sentì salire da quelle labbra un inenarrabile odore di dolcezze, e dopo una breve pausa posò la sua gota sulla gota di Cristo e il Cristo avvicinò la sua mano alla gota di lei e la strinse a sé e - essa così disse - la sua letizia diventò altissima?...” “Che c'entra questo con l'impeto dei sensi?” domandò Ubertino. “Fu esperienza mistica, e il corpo era quello di Nostro Signore.” “Forse mi sono abituato a Oxford,” disse Guglielmo, “dove anche l'esperienza mistica era di altro genere...” “Tutta nella testa,” sorrise Ubertino. “O negli occhi. Dio sentito come luce, nei raggi del sole, nelle immagini degli specchi, nel diffondersi dei colori sopra le parti della materia ordinata, nei riflessi del giorno sulle foglie bagnate... Non è questo amore più vicino a quello di Francesco quando loda Dio nelle sue creature, fiori, erbe, acqua, aria? Non credo che da questo tipo di amore possa venire alcuna insidia. Mentre non mi piace un amore che trasferisce nel colloquio con l'Altissimo i brividi che si provano nei contatti della carne...” “Tu bestemmi Guglielmo! Non è la stessa cosa. C'è un salto, immenso, verso il basso, tra l'estasi del cuore amante di Gesù Crocifisso e l'estasi corrotta degli pseudo apostoli di Montefalco...” “Non erano pseudo apostoli, erano fratelli del Libero Spirito, l'hai detto tu stesso.” “E che differenza fa? Tu non hai saputo tutto di quel processo, io stesso non ho ardito mettere agli atti certe confessioni, per non sfiorare neppure per un istante con l'ombra del demonio l'atmosfera di santità che Chiara aveva creato in quel luogo. Ma ho saputo certe cose, certe cose, Guglielmo! Si riunivano nottetempo in una cantina, prendevano un fanciullo appena nato, se lo gettavano l'un l'altro sinché moriva, di percosse... o di altro... E chi lo riceveva vivo per l'ultima volta, e tra le sue mani moriva, diventava il capo della setta... E il corpo del bambino veniva lacerato, e mescolato alla farina, per farne ostie blasfeme!” “Ubertino,” disse fermamente Guglielmo, “queste cose sono state dette, molti secoli fa, dai vescovi armeni, della setta dei pauliciani. E dei bogomili.” “E che conta? Il demonio è ottuso, segue un ritmo nelle sue insidie e nelle sue seduzioni, ripete i propri riti a distanza di millenni, egli è sempre lo stesso, proprio per questo lo si riconosce come il nemico! Ti giuro, accendevano delle candele, la notte di Pasqua, e portavano nella cantina delle fanciulle. Poi spegnevano le candele e si gettavano su di esse, anche se erano legate loro da vincoli di sangue... E se da questo amplesso nasceva un bambino, ricominciava il rito infernale, tutti intorno a un vaso pieno di vino, che chiamavano il barilotto, a inebriarsi, e tagliavano a pezzi il bambino, e ne versavano il sangue in una coppa, e buttavano bambini ancora vivi sul fuoco, e mescevano le ceneri del bambino, il suo sangue, e ne bevevano!” “Ma questo lo scriveva Michele Psello nel libro sulle operazioni dei demoni, trecento anni fa! Chi ti ha raccontato queste cose?” “Essi, Bentivenga e gli altri, e sotto tortura!” “C'è una sola cosa che eccita gli animali più del piacere, ed è il dolore. Sotto tortura vivi come sotto l'impero di erbe che danno visioni. Tutto quello che hai sentito raccontare, tutto quello che hai letto, ti torna alla mente, come se tu fossi rapito, non verso il cielo, ma verso l'inferno. Sotto tortura dici non solo quello che vuole l'inquisitore, ma anche quello che immagini possa dargli piacere, perché si stabilisce un legame (questo sì, veramente diabolico) tra te e lui... Queste cose le so, Ubertino, ho fatto parte anch'io di quei gruppi di uomini che credono di produrre la verità con il ferro incandescente. Ebbene, sappi, l'incandescenza della verità è di altra fiamma. Sotto tortura Bentivenga può avere detto le menzogne più assurde, perché non parlava più lui, ma la sua lussuria, i demoni dell'anima sua.” “Lussuria?” “Sì, c'è una lussuria del dolore, come c'è una lussuria dell'adorazione e persino una lussuria dell'umiltà. Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d'adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? Ecco, ora lo sai, fu questo pensiero che mi colse nel corso delle mie inquisizioni. E fu per questo che rinunciai a quella attività. Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi.” Ubertino aveva ascoltato le ultime parole di Guglielmo come se non comprendesse quello che egli diceva. Dall'espressione del suo volto, sempre più ispirata ad affettuosa commiserazione, capii che egli riteneva Guglielmo preda di sentimenti molto colpevoli, che egli perdonava perché molto lo amava. Lo interruppe, e disse in tono assai amaro: “Non importa. Se sentivi così, hai fatto bene a fermarti. Bisogna combattere le tentazioni. Però mi mancò il tuo appoggio, e avremmo potuto sgominare quella mala banda. E invece sai che accadde, io stesso fui accusato di essere troppo debole con loro, e fui sospettato di eresia. Sei stato troppo debole anche tu, nel combattere il male. Il male, Guglielmo: non cesserà mai questa condanna, quest'ombra, questo fango che ci impedisce di toccare la sorgente?” Si appressò ancora più a Guglielmo, come se fosse timoroso che qualcuno lo udisse: “Anche qui, anche tra queste mura consacrate alla preghiera, lo sai?” “Lo so, l'Abate mi ha parlato, mi ha anzi chiesto di aiutarlo a far luce.” “E allora spia, scava, guarda con occhio di lince in due direzioni, la lussuria e la superbia...” “La lussuria?” “Sì, la lussuria. C'era qualcosa di... di femminile, e dunque di diabolico in quel giovane che è morto. Aveva occhi di fanciulla che cerchi commercio con un incubo. Ma ti ho detto anche la superbia, la superbia della mente, in questo monastero consacrato all'orgoglio della parola, alla illusione della sapienza...” “Se sai qualcosa aiutami.” “Non so nulla. Non c'è nulla che io sappia. Ma certe cose si sentono col cuore. Lascia parlare il tuo cuore, interroga i volti, non ascoltare le lingue... Ma suvvia, perché dobbiamo parlare di queste tristezze e intimorire questo nostro giovane amico?” Mi guardò coi suoi occhi celesti, sfiorando la mia guancia con le sue dita lunghe e bianche, e quasi mi venne l'istinto di ritrarmi; mi trattenni e feci bene, perché l'avrei offeso, e la sua intenzione era pura. “Dimmi piuttosto di te,” disse volgendosi di nuovo a Guglielmo. “Cosa hai fatto dopo di allora? Sono passati...” “Diciotto anni. Sono tornato nelle mie terre. Ho studiato ancora a Oxford. Ho studiato la natura.” “La natura è buona perché è figlia di Dio,” disse Ubertino. “E Dio deve essere buono, se ha generato la natura,” sorrise Guglielmo. “Ho studiato, ho incontrato amici molto saggi. Poi ho conosciuto Marsilio, mi hanno attratto le sue idee sull'impero, sul popolo, su una nuova legge per i regni della terra, e così sono finito in quel gruppo dei nostri confratelli che stanno consigliando l'imperatore. Ma queste cose le sai, ti avevo scritto. Ho esultato quando a Bobbio mi hanno detto che eri qui. Ti credevamo perduto. Ma ora che sei con noi potrai esserci di grande aiuto tra qualche giorno, quando arriverà anche Michele. Sarà uno scontro duro.” “Non avrò molto da dire più di quel che dissi cinque anni fa ad Avignone. Chi verrà con Michele?” “Alcuni che furono al capitolo di Perugia, Arnaldo d'Aquitania, Ugo da Newcastle...” “Chi?” domandò Ubertino. “Ugo da Novocastro, scusami, uso la mia lingua anche quando parlo in buon latino. E poi Guglielmo Alnwick. E da parte dei francescani avignonesi potremo contare su Girolamo, lo sciocco di Caffa, e verranno forse Berengario Talloni e Bonagrazia da Bergamo.” “Speriamo in Dio,” disse Ubertino, “questi ultimi non vorranno inimicarsi troppo il papa. E chi ci sarà a sostenere le posizioni della curia, intendo, tra i duri di cuore?” “Dalle lettere che mi sono pervenute immagino ci saranno Lorenzo Decoalcone...” “Un uomo maligno.” “Jean d'Anneaux...” “Questo è sottile in teologia, guardatene.” “Ce ne guarderemo. E infine Jean de Baune.” “Se la vedrà con Berengario Talloni.” “Sì, credo proprio che ci divertiremo,” disse il mio maestro di ottimo umore. Ubertino lo guardò con un sorriso incerto. “Non capisco mai quando voi inglesi parlate seriamente. Non c'è nulla di divertente in una questione così grave. Ne va della sopravvivenza dell'ordine, che è il tuo e che nel profondo del cuore è ancora il mio. Ma io scongiurerò Michele di non andare ad Avignone. Giovanni lo vuole, lo cerca, lo invita con troppa insistenza. Diffidate di quel vecchio francese. Oh Signore, in quali mani è caduta la tua chiesa!” Volse il capo verso l'altare. “Trasformata in meretrice, ammollita nel lusso, si avvoltola nella lussuria come una serpe in calore! Dalla purezza nuda della stalla di Bethlehem, legno come fu legno il lignum vitae della croce, ai baccanali d'oro e di pietra, guarda, anche qui, hai visto il portale, non ci si sottrae all'orgoglio delle immagini! Sono infine prossimi i giorni dell'Anticristo e io ho paura, Guglielmo!” Si guardò intorno, fissando lo sguardo sbarrato entro le navate oscure, come se l'Anticristo dovesse apparire da un momento all'altro, e io invero mi attendevo di scorgerlo. “I suoi luogotenenti sono già qui, mandati come Cristo mandò gli apostoli per il mondo! Stanno conculcando la Città di Dio, seducono con l'inganno, l'ipocrisia e la violenza. Sarà allora che Dio dovrà mandare i suoi servi, Elia ed Enoch, che egli ha conservato ancora in vita nel paradiso terrestre perché un giorno confondano l'Anticristo, e verranno a profetare vestiti di sacco, e predicheranno la penitenza con l'esempio e con la parola...” “Sono già venuti, Ubertino,” disse Guglielmo, mostrando il suo saio di francescano. “Ma non hanno ancora vinto, è il momento che l'Anticristo, pieno di furore, comanderà di uccidere Enoch ed Elia e i loro corpi perché ognuno possa vederli e tema di volerli imitare. Così come volevano uccidere me...” In quel momento, atterrito, pensavo che Ubertino fosse in preda a una sorta di divina mania, e temetti per la sua ragione. Ora a distanza di tempo, sapendo quel che so, e cioè che qualche anno dopo fu misteriosamente ucciso in una città tedesca, e mai non si seppe da chi, sono più atterrito ancora, perché evidentemente quella sera Ubertino profetava. “Lo sai, l'abate Gioacchino aveva detto la verità. Siamo giunti alla sesta era della storia umana, in cui appariranno due Anticristi, l'Anticristo mistico e l'Anticristo proprio, questo accade ora nella sesta epoca, dopo che è apparso Francesco a configurare nella sua stessa carne le cinque piaghe di Gesù Crocifisso. Bonifacio fu l'Anticristo mistico, e l'abdicazione di Celestino non fu valida, Bonifacio fu la bestia che viene dal mare le cui sette teste rappresentano le offese ai peccati capitali e le dieci corna le offese ai comandamenti, e i cardinali che lo attorniavano erano le locuste, il cui corpo è Appolyon! Ma il numero della bestia, se ne leggi il nome in lettere greche, è Benedicti!” Mi fissò per vedere se avevo capito e alzò un dito ammonendomi. “Benedetto XI fu l'Anticristo proprio, la bestia che ascende dalla terra! Dio ha permesso che tale mostro di vizio e di iniquità governasse la sua chiesa perché le virtù del suo successore sfolgorassero di gloria!” “Ma padre santo,” obbiettai con un filo di voce, facendomi coraggio, “il suo successore è Giovanni!” Ubertino si posò una mano sulla fronte come per cancellare un sogno molesto. Respirava a fatica, era stanco. “Già. I calcoli erano errati, stiamo ancora attendendo il papa angelico... Ma intanto sono apparsi Francesco e Domenico.” Alzò gli occhi al cielo e disse come pregando (ma fui sicuro che stava recitando una pagina del suo grande libro sull'albero della vita): “Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum incendere videbatur. Secundus vero verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit... Sì, se queste sono state le promesse, il papa angelico dovrà venire.” “E così sia Ubertino,” disse Guglielmo. “Intanto io sono qui per impedire che venga cacciato l'imperatore umano. Del tuo papa angelico parlava anche fra Dolcino...” “Non pronunciare più il nome di quella serpe!” urlò Ubertino, e per la prima volta lo vidi trasformarsi, da accorato che era, in adirato. “Egli ha insozzato la parola di Gioacchino di Calabria e ne ha fatto fomite di morte e sporcizia! Messaggero dell'Anticristo, se mai ve ne furono. Ma tu Guglielmo parli così perché in verità non credi all'avvento dell'Anticristo e i tuoi maestri di Oxford ti hanno insegnato a idolatrare la ragione inaridendo le capacità profetiche del tuo cuore!” “Ti sbagli Ubertino,” rispose con molta serietà Guglielmo. “Tu sai che venero più di ogni altro tra i miei maestri Ruggiero Bacone...” “Che vaneggiava di macchine volanti, “ motteggiò amaramente Ubertino. “Che ha parlato chiaramente e limpidamente sull'Anticristo, ne ha avvertito i segni nella corruzione del mondo e nell'indebolimento della sapienza. Ma ha insegnato che vi è un solo modo per prepararci alla sua venuta: studiare i segreti della natura, usare del sapere per migliorare il genere umano. Puoi prepararti a combattere l'Anticristo studiando le virtù curative delle erbe, la natura delle pietre, e persino progettando le macchine volanti di cui sorridi.” “L'Anticristo del tuo Bacone era un pretesto per coltivare l'orgoglio della ragione.” “Santo pretesto.” “Nulla che sia pretestuoso è santo. Guglielmo, sai che ti voglio bene. Sai che confido molto in te. Castiga la tua intelligenza, impara a piangere sulle piaghe del Signore, butta via i tuoi libri.” “Tratterrò soltanto il tuo,” sorrise Guglielmo. Ubertino sorrise anch'egli e lo minacciò col dito: “Sciocco di un inglese. E non ridere troppo dei tuoi simili. Anzi, quelli che non puoi amare, temili. E guardati dall'abbazia. Questo luogo non mi piace.” “Voglio appunto conoscerlo meglio,” disse Guglielmo congedandosi, “andiamo Adso.” “Io ti dico che non è buono, e tu dici che vuoi conoscerlo. Ah!” disse Ubertino scuotendo la testa. “A proposito,” disse ancora Guglielmo già a metà della navata, “chi è quel monaco che sembra un animale e parla la lingua di Babele?” “Salvatore?” si voltò Ubertino che già si era inginocchiato. “Credo di averne fatto dono io a questa abbazia... Insieme al cellario. Quando lasciai il saio francescano tornai per qualche tempo nel mio vecchio convento a Casale, e lì trovai altri frati in angustie, perché la comunità li accusava di essere spirituali della mia setta... così si esprimevano. Mi adoperai in loro favore, ottenendo che potessero seguire il mio esempio. E due, Salvatore e Remigio, ne ho trovati proprio qui, quando vi arrivai l'anno scorso. Salvatore... Davvero, pare una bestia. Ma è servizievole.” Guglielmo esitò un istante. “L'ho sentito dire penitenziagite.” Ubertino tacque. Mosse una mano come per scacciare un pensiero molesto. “No, non credo. Sai come sono questi fratelli laici. Gente di campagna, che hanno udito forse qualche predicatore vagante, e non sanno cosa si dicono. A Salvatore avrei altro da rimproverare, è una bestia ghiotta e lussuriosa. Ma nulla, nulla contro l'ortodossia. No, il male dell'abbazia è un altro, cercalo in chi sa troppo, non in chi non sa nulla. Non costruire un castello di sospetti su una parola.” “Non lo farei mai,” rispose Guglielmo. “Ho smesso di fare l'inquisitore proprio per non fare questo. Però mi piace ascoltare anche le parole, e poi ci penso su.” “Tu pensi troppo. Ragazzo,” disse rivolgendosi a me, “non trarre troppi cattivi esempi dal tuo maestro. L'unica cosa a cui si deve pensare, e me ne rendo conto alla fine della mia vita, è la morte. Mors est quies viatoris - finis est omnis laboris. Lasciatemi pregare.” Primo giorno Verso nona Dove Guglielmo ha un dialogo dottissimo con Severino erborista Ripercorremmo la navata centrale e uscimmo dal portale da cui eravamo entrati. Avevo ancora le parole di Ubertino, tutte, che mi ronzavano nella testa. “E' un uomo... strano,” ardii dire a Guglielmo. “E', o è stato, per molti aspetti, un grande uomo. Ma proprio per questo è strano. Sono solo gli uomini piccoli che sembrano normali. Ubertino avrebbe potuto diventare uno degli eretici che ha contribuito a fare bruciare, o un cardinale di santa romana chiesa. E' andato vicinissimo a entrambe le perversioni. Quando parlo con Ubertino ho l'impressione che l'inferno sia il paradiso guardato dall'altra parte.” Non capii cosa volesse dire: “Da che parte?” domandai. “Eh già,” ammise Guglielmo, “si tratta di sapere se ci sono delle parti e se c'è un tutto. Ma non darmi ascolto. E non guardare più quel portale,” disse colpendomi lievemente sulla nuca mentre mi rigiravo attirato dalle sculture che avevo visto all'entrata. “Per quest'oggi ti hanno spaventato abbastanza. Tutti.” Mentre mi rivoltavo verso l'uscita, vidi davanti a me un altro monaco. Poteva avere la stessa età di Guglielmo. Ci sorrise e ci salutò urbanamente. Disse che era Severino da Sant'Emmerano, ed era il padre erborista, che aveva cura dei balnea, dell'ospedale, e degli orti, e che si metteva al nostro servizio se avessimo voluto orientarci meglio nel recinto dell'abbazia. Guglielmo lo ringraziò e disse che aveva già notato, entrando, il bellissimo orto, che gli pareva contenere non solo erbe commestibili, ma anche piante medicinali, per quanto si poteva vedere attraverso la neve. “D'estate o di primavera, con la varietà delle sue erbe, e ciascuna adornata dei suoi fiori, questo orto canta meglio le lodi del Creatore,” disse Severino a mo' di scusa. “Ma anche in questa stagione l'occhio dell'erborista vede attraverso i rami secchi le piante che verranno e può dirti che quest'orto è più ricco di quanto mai lo fu un erbario, e più variopinto, per quanto bellissime siano le miniature di quello. E poi anche in inverno crescono le erbe buone, e altre ne tengo raccolte e pronte nei vasi che ho in laboratorio. Così con le radici dell'acetosella si curano i catarri, e con decotto di radici di althea si fanno impacchi per le malattie della pelle, con la lappa si cicatrizzano gli eczemi, triturando e macinando il rizoma della bistorta si curano le diarree e alcuni mali delle donne, la lippia è un buon digestivo, la farfara va bene per la tosse, e abbiamo della buona genziana per digerire, e della glycyrrhiza, e del ginepro per farne un buon infuso, il sambuco da farne con la corteccia un decotto per il fegato, la saponaria da macerarne le radici in acqua fredda, per il catarro, e la valeriana di cui certo conoscete le virtù.” “Avete erbe diverse e buone per climi diversi. Come mai?” “Per un lato lo devo alla misericordia del Signore, che ha posto il nostro altopiano a cavallo di una catena che vede a meridione il mare, e ne riceve i venti caldi, e a settentrione la montagna più alta di cui riceve i balsami silvestri. E per un lato lo devo all'abito dell'arte, che ho indegnamente acquisito per volontà dei miei maestri. Certe piante crescono anche in clima avverso se ne curi il terreno circostante, e il nutrimento, e la crescita.” “Ma avete anche piante buone solo per mangiare?” domandai. “Mio giovane puledro affamato, non ci sono piante buone per il cibo che non siano anche per la cura, purché prese in giusta misura. Solo l'eccesso le rende causa di malattia. Prendi la zucca. E' di natura fredda e umida e mitiga la sete, ma a mangiarla guasta ti provoca diarrea e devi restringere le tue viscere con un impasto di salamoia e senape. E le cipolle? Calde e umide, poche potenziano il coito, naturalmente per coloro che non han pronunciato i nostri voti, troppe ti dan pesantezza di capo e van combattute con latte e aceto. Buona ragione,” aggiunse con malizia, “perché un giovane monaco ne mangi sempre con parsimonia. Mangia invece aglio. Caldo e secco, è buono contro i veleni. Ma non esagerare, fa espellere troppi umori dal cervello. I fagioli invece producono urina e ingrassano, due cose molto buone. Ma danno cattivi sogni. Molto meno però di certe altre erbe, perché ve ne sono anche che provocano cattive visioni.” “Quali?” domandai. “Eh, eh, il nostro novizio vuole sapere troppo. Queste sono cose che deve sapere solo l'erborista, se no qualsiasi sconsiderato potrebbe andare in giro a somministrar visioni, ovvero a mentire con le erbe.” “Ma basta un poco d'urtica,” disse allora Guglielmo, “o la roybra, o l'olieribus, e si è protetti contro le visioni. Spero che voi abbiate di queste buone erbe.” Severino guardò il maestro di sottecchi: “Ti interessi di erboristeria?” “Molto poco,” disse modestamente Guglielmo, “una volta ebbi tra le mani il Theatrum Sanitatis di Ububchasym de Baldach...” “Abul Asan al Muchtar ibn Botlan.” “O Ellucasim Elimittar, come vuoi tu. Mi chiedo se se ne potrà trovare una copia qui.” “E delle più belle, con molte immagini di preziosa fattura.” “Sia lode al cielo. E il De virtutibus herbarum del Platearius?” “Anche quello, e il De plantis e il De vegetalibus di Aristotele tradotto da Alfredo di Sareshel.” “Ho sentito dire che non sia veramente di Aristotele,” osservò Guglielmo, “come non era di Aristotele, si scoprì, il De causis.” “In ogni caso è un grande libro,” osservò Severino, e il mio maestro ne convenne con molto fervore senza chiedere se l'erborista parlasse del De vegetalibus o del De causis, due opere che non conoscevo ma che da quella conversazione conclusi essere grandissime entrambe. “Sarò lieto,” concluse Severino, “di avere con te qualche onesta conversazione sulle erbe.” “Io più di te,” disse Guglielmo, “ma non violeremo la regola del silenzio, che mi pare viga nel vostro ordine?” “La regola,” disse Severino, “si è adattata nei secoli alle esigenze delle diverse comunità. La regola prevedeva la lectio divina ma non lo studio: eppure sai quanto il nostro ordine abbia sviluppato la ricerca sulle cose divine e sulle cose umane. Ancora, la regola prevede il dormitorio comune, ma talora è giusto, come da noi, che i monaci abbiano possibilità di riflessione anche durante la notte, e così ciascuno di essi ha la propria cella. La regola è molto severa riguardo al silenzio, e anche da noi non solo il monaco che fa opere manuali ma anche colui che scrive o che legge non deve conversare coi suoi fratelli. Ma l'abbazia è anzitutto una comunità di studiosi e spesso è utile che i monaci si scambino i tesori di dottrina che accumulano. Ogni conversazione che riguardi i nostri studi è ritenuta legittima e profittevole, purché non si svolga in refettorio o durante le ore degli uffici sacri.” “Hai avuto occasione di parlare molto con Adelmo da Otranto?” chiese bruscamente Guglielmo. Severino non parve sorpreso: “Vedo che l'Abate ti ha già parlato,” disse. “No. Con lui non mi intrattenevo sovente. Passava il tempo a miniare. L'ho udito talora discutere con altri monaci, Venanzio da Salvemec, o Jorge da Burgos, sulla natura del suo lavoro. E poi io non passo la giornata nello scriptorium, ma nel mio laboratorio,” e accennò all'edificio dell'ospedale. “Capisco,” disse Guglielmo. “Dunque non sai se Adelmo avesse avuto visioni.” “Visioni?” “Come quelle che procurano le tue erbe, per esempio.” Severino si irrigidì: “Ho detto che custodisco con molta cura le erbe pericolose.” “Non dico questo,” si affrettò a precisare Guglielmo. “Parlavo di visioni in genere.” “Non capisco,” insisté Severino. “Pensavo che un monaco che si aggira di notte per l'Edificio, dove per ammissione dell'Abate possono accadere cose... tremende a chi vi entri in ore proibite, bene, dicevo, pensavo che potesse aver avuto visioni diaboliche che l'avessero spinto nel precipizio.” “Ho detto che non frequento lo scriptorium, salvo quando mi serve qualche libro, ma di solito ho i miei erbari che conservo nell'ospedale. Ti ho detto, Adelmo era molto familiare di Jorge, di Venanzio e... naturalmente, di Berengario.” Avvertii anch'io una lieve esitazione nella voce di Severino. Né sfuggì al mio maestro: “Berengario? E perché naturalmente?” “Berengario da Arundel, l'aiuto bibliotecario. Erano coetanei, sono stati novizi insieme, era normale che avessero cose di cui parlare. Questo volevo dire.” “Questo dunque volevi dire,” commentò Guglielmo. E mi stupii che non insistesse su quel punto. Infatti cambiò subito discorso. “Ma forse è ora che entriamo nell'Edificio. Ci fai da guida?” “Con piacere,” disse Severino con un sollievo sin troppo evidente. Ci fece costeggiare l'orto e ci portò di fronte alla facciata occidentale dell'Edificio. “Dalla parte dell'orto vi è il portale che dà adito alla cucina,” disse, “ma la cucina occupa solo la metà occidentale del primo piano, nella seconda metà vi è il refettorio. E dalla porta meridionale, a cui si arriva passando dietro il coro della chiesa, vi sono due altri portali che recano e alla cucina e al refettorio. Ma entriamo pure di qui, perché dalla cucina potremo poi passare dall'interno al refettorio.” Come entrai nella vasta cucina mi avvidi che l'Edificio generava al suo interno, e per tutta la sua altezza, una corte ottagonale; come compresi dopo si trattava di una sorta di gran pozzo, privo di accessi, su cui si aprivano a ogni piano ampie finestre, come quelle che davano verso l'esterno. La cucina era un immenso androne pieno di fumo, dove già molti famigli si affrettavano a disporre i cibi per la cena. Su un grande tavolo due di essi preparavano un pasticcio di verdura, orzo, avena e segale, tagliuzzando rape, crescione, rapanelli e carote. Accanto, un altro dei cuochi aveva appena finito di cuocere alcuni pesci in una miscela di vino e acqua, e li stava ricoprendo con una salsa composta di salvia, prezzemolo, timo, aglio, pepe e sale. In corrispondenza al torrione occidentale si apriva un enorme forno per il pane che già balenava di fiamme rossastre. Nel torrione meridionale, un immenso camino su cui bollivano dei pentoloni e giravano degli spiedi. Dalla porta che dava sull'aia dietro la chiesa entravano in quel momento i porcai portando le carni dei maiali scannati. Uscimmo anzi da quella porta e ci trovammo sull'aia, nella estremità orientale del pianoro, a ridosso delle mura, dove sorgevano molte costruzioni. Severino mi spiegò che la prima era l'insieme degli stabbi, poi sorgevano le stalle dei cavalli, poi quelle dei buoi, e i pollai, e il recinto coperto delle pecore. Davanti agli stabbi i porcai rimestavano in una gran giara il sangue dei porci appena sgozzati, affinché non si coagulasse. Se veniva rimestato bene e subito avrebbe poi resistito per i prossimi giorni, grazie al clima rigido, e infine se ne sarebbero fatti sanguinacci. Rientrammo nell'Edificio e gettammo appena una occhiata al refettorio, che attraversammo per portarci verso il torrione orientale. Dei due torrioni, in cui si allargava il refettorio, il settentrionale ospitava un camino, l'altro una scala a forma di chiocciola che menava allo scriptorium, e cioè al secondo piano. Di lì i monaci si recavano ogni giorno al lavoro, oppure da due scale, meno agevoli ma ben riscaldate, che salivano a spirale dietro al camino e al forno della cucina. Guglielmo chiese se avremmo trovato qualcuno nello scriptorium anche se era domenica. Severino sorrise e disse che il lavoro, per il monaco benedettino, è preghiera. La domenica gli uffici duravano più a lungo, ma i monaci addetti ai libri passavano ugualmente alcune ore lassù, di solito impiegate in fruttiferi scambi di osservazioni dotte, consigli, riflessioni sulle sacre scritture. Primo giorno Dopo nona Dove si visita lo scriptorium e si conoscono molti studiosi, copisti e rubricatori nonché un vegliardo cieco che attende l'Anticristo Mentre salivamo vidi che il mio maestro osservava le finestre che davano luce alla scala. Stavo probabilmente diventando abile come lui, perché mi avvidi subito che la loro disposizione difficilmente avrebbe consentito a qualcuno di raggiungerle. D'altra parte neppure le finestre che si aprivano nel refettorio (le uniche che dal primo piano dessero sullo strapiombo) parevano facilmente raggiungibili, dato che sotto di esse non vi erano mobili di sorta. Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione settentrionale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala capitolare che mai vidi), sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale interno. L'abbondanza di finestre faceva sì ché la gran sala fosse allietata da una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d'inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo più puro possibile, non modulata dall'arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura. Vidi altre volte e in altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in cui così luminosamente rifulgesse, nelle colate di luce fisica che facevano risplendere l'ambiente, lo stesso principio spirituale che la luce incarna, la claritas, fonte di ogni bellezza e sapienza, attributo inscindibile di quella proporzione che la sala manifestava. Perché tre cose concorrono a creare la bellezza: anzitutto l'integrità o perfezione, e per questo reputiamo brutte le cose incomplete; poi la debita proporzione ovvero la consonanza; e infine la clarità e la luce, e infatti chiamiamo belle le cose di colore nitido. E siccome la visione del bello comporta la pace, e per il nostro appetito è la stessa cosa acquetarsi nella pace, nel bene o nel bello, mi sentii pervaso di grande consolazione e pensai quanto dovesse essere piacevole lavorare in quel luogo. Quale apparve ai miei occhi, in quell'ora meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza. Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili proporzioni, separato dalla biblioteca (in altri luoghi i monaci lavoravano nel luogo stesso dove erano custoditi i libri), ma non come questo bellamente disposto. Antiquarii, librarii, rubricatori e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano quaranta (numero veramente perfetto dovuto alla decuplicazione del quadragono, come se i dieci comandamenti fossero stati magnificati dalle quattro virtù cardinali) quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all'unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto, per vespro. I posti più luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori più esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba, o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggio, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d'oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette. Non ebbi peraltro il tempo di osservare il loro lavoro, perché ci venne incontro il bibliotecario, che già sapevamo essere Malachia da Hildesheim. Il suo volto cercava di atteggiarsi a una espressione di benvenuto, ma non potei trattenermi dal fremere di fronte a una così singolare fisionomia. La sua figura era alta e, benché estremamente magra, le sue membra erano grandi e sgraziate. Come procedeva a grandi passi, avvolto nelle nere vesti dell'ordine, v'era qualcosa di inquietante nel suo aspetto. Il cappuccio, che venendo di fuori aveva ancora levato, gettava un'ombra sul pallore del suo volto e conferiva un non so che di doloroso ai suoi grandi occhi melanconici. Vi erano nella sua fisionomia come le tracce di molte passioni che la volontà aveva disciplinato ma che sembravano aver fissato quei lineamenti che ora avevano cessato di animare. Mestizia e severità predominavano nelle linee del suo volto e i suoi occhi erano così intensi che a un solo sguardo potevano penetrare il cuore di chi gli parlava, e leggergli i segreti pensieri, così che difficilmente si poteva tollerare la loro indagine e si era tentati di non incontrarli una seconda volta. Il bibliotecario ci presentò a molti dei monaci che stavano in quel momento al lavoro. Di ciascuno Malachia ci disse anche il lavoro che stava compiendo e di tutti ammirai la profonda devozione al sapere e allo studio della parola divina. Conobbi così Venanzio da Salvemec, traduttore dal greco e dall'arabo, devoto di quell'Aristotele che certamente fu il più saggio di tutti gli uomini. Bencio da Upsala, un giovane monaco scandinavo che si occupava di retorica. Berengario da Arundel, l'aiuto del bibliotecario. Aymaro da Alessandria, che stava ricopiando opere che solo per pochi mesi sarebbero state in prestito alla biblioteca, e poi un gruppo di miniatori di vari paesi, Patrizio da Clonmacnois, Rabano da Toledo, Magnus da Iona, Waldo da Hereford. L'elenco potrebbe certo continuare e nulla vi è di più meraviglioso dell'elenco, strumento di mirabili ipotiposi. Ma devo venire all'argomento delle nostre discussioni, dal quale emersero molte indicazioni utili per capire la sottile inquietudine che aleggiava tra i monaci, e un non so che di inespresso che gravava su tutti i loro discorsi. Il mio maestro iniziò a discorrere con Malachia lodando la bellezza e l'operosità dello scriptorium e chiedendogli notizie sull'andamento del lavoro che ivi si compiva perché, disse con molta accortezza, aveva udito parlare ovunque di quella biblioteca e avrebbe voluto esaminare molti dei libri. Malachia gli spiegò quello che già l'Abate aveva detto, che il monaco chiedeva al bibliotecario l'opera da consultare e questi sarebbe andato a reperirla nella biblioteca superiore, se la richiesta fosse stata giusta e pia. Guglielmo domandò come poteva conoscere il nome dei libri custoditi negli armaria soprastanti, e Malachia gli mostrò, fissato da una catenella d'oro al suo tavolo, un voluminoso codice coperto di elenchi fittissimi. Guglielmo infilò le mani nel saio, dove esso si apriva sul petto a formare una sacca, e ne trasse un oggetto che già gli avevo visto tra le mani, e sul volto, nel corso del viaggio. Era una forcella, costruita così da potere stare sul naso di un uomo (e meglio ancora sul suo, così prominente e aquilino) come un cavaliere sta in groppa al suo cavallo o come un uccello su un trespolo. E ai due lati della forcella, in modo da corrispondere agli occhi, si espandevano due cerchi ovali di metallo, che rinserravano due mandorle di vetro spesse come fondi di bicchiere. Con quelli sugli occhi Guglielmo, di preferenza, leggeva, e diceva di vedere meglio di quanto natura lo avesse dotato, o di quanto l'età sua avanzata, specie quando declinava la luce del giorno, gli consentisse. Né gli servivano per vedere da lontano, che anzi aveva l'occhio acutissimo, ma per vedere da vicino. Con quelli egli poteva leggere manoscritti vergati in lettere sottilissime, che quasi faticavo anch'io a decifrare. Mi aveva spiegato che, giunto che fosse l'uomo oltre la metà della vita, anche se la sua vista era stata sempre ottima, l'occhio si induriva e riluttava ad adattar la pupilla, così che molti sapienti erano come morti alla lettura e alla scrittura dopo la loro cinquantesima primavera. Grave iattura per uomini che avrebbero potuto dare il meglio della loro intelligenza per molti anni ancora. Per cui si doveva lodare il Signore che qualcuno avesse scoperto e fabbricato quello strumento. E me lo diceva per sostenere le idee del suo Ruggiero Bacone, quando diceva che lo scopo della sapienza era anche prolungare la vita umana. Gli altri monaci guardarono Guglielmo con molta curiosità, ma non ardirono porgli domande. E io mi avvidi che, anche in un luogo così gelosamente e orgogliosamente dedicato alla lettura e alla scrittura, quel mirabile strumento non era ancora penetrato. E mi sentii fiero di essere al seguito di un uomo che aveva qualcosa con cui stupire altri uomini famosi nel mondo per la loro saggezza. Con quegli oggetti sugli occhi, Guglielmo si chinò sugli elenchi stilati nel codice. Guardai anch'io, e scoprimmo titoli di libri mai uditi, e altri di celeberrimi, che la biblioteca possedeva. “De pentagono Salomonis, Ars loquendi et intelligendi in lingua hebraica, De rebus metallicis di Ruggero da Hereford , Algebra di AlKuwarizmi, resa in latino da Roberto Anglico , le Puniche di Silio Italico , i Gesta francorum, De laudibus sanctae crucis di Rabano Mauro , e Flavii Claudii Giordani de aetate mundi et hominis reservatis singulis litteris per singulos libros ab A usque ad Z,” lesse il mio maestro. “Splendide opere. Ma in che ordine sono registrate?” Citò da un testo che non conoscevo ma che era certo familiare a Malachia: ««Habeat Librarius et registrum omnium librorum ordinatum secundum facultates et auctores, reponeatque eos separatim et ordinate cum signaturis per scripturam applicatis.» Come fate a conoscere il luogo di ciascun libro?» Malachia gli mostrò delle annotazioni che fiancheggiavano ciascun titolo. Lessi: iii, IV gradus, V in prima graecorum; ii, V gradus, VII in tertia anglorum, e così via. Capii che il primo numero indicava la posizione del libro nello scaffale o gradus, indicato dal secondo numero, l'armadio essendo indicato dal terzo numero, e capii pure che le altre espressioni designavano una stanza o corridoio della biblioteca, e ardii chiedere maggiori notizie su queste ultime distinctiones. Malachia mi guardò severamente: “Forse non sapete, o avete dimenticato, che l'accesso alla biblioteca è consentito solo al bibliotecario. E dunque è giusto e sufficiente che solo il bibliotecario sappia decifrare queste cose.” “Ma in che ordine sono riportati i libri in questo elenco?” chiese Guglielmo. “Non per argomenti, mi pare.” Non accennò a un ordine per autori che seguisse la stessa sequenza delle lettere dell'alfabeto, perché è accorgimento che ho visto messo in opera solo negli ultimi anni, e allora si usava poco. “La biblioteca affonda la sua origine nel profondo dei tempi,” disse Malachia, “e i libri sono registrati secondo l'ordine delle acquisizioni, delle donazioni, del loro ingresso nelle nostre mura.” “Difficili da trovare,” osservò Guglielmo. “Basta che il bibliotecario li conosca a memoria e sappia per ogni libro il tempo in cui arrivò. Quanto agli altri monaci possono fidarsi della sua memoria,” e pareva parlasse di un altro che non fosse lui stesso; e compresi che egli parlava della funzione che in quel momento indegnamente ricopriva, ma che era stata ricoperta da cento altri, ormai scomparsi, che si erano tramandati l'un l'altro il loro sapere. “Ho capito,” disse Guglielmo. “Se io dunque cercassi qualcosa, senza sapere cosa, sul pentagono di Salomone, voi sapreste indicarmi che esiste il libro di cui ho appena letto il titolo, e potreste individuarne la posizione al piano superiore.” “Se voi doveste veramente apprendere qualcosa sul pentagono di Salomone,” disse Malachia. “Ma ecco un libro per darvi il quale preferirei prima chiedere il consiglio dell'Abate.” “Ho saputo che uno dei vostri miniatori più valenti,” disse allora Guglielmo, “è scomparso di recente. L'Abate mi ha molto parlato della sua arte. Potrei vedere i codici che miniava?” “Adelmo da Otranto,” disse Malachia guardando Guglielmo con diffidenza, “lavorava, a causa della sua giovane età, solo sui marginalia. Aveva una immaginazione molto vivace e da cose note sapeva comporre cose ignote e sorprendenti, come chi unisse un corpo umano a una cervice equina. Ma ecco laggiù i suoi libri. Nessuno ha ancora toccato il suo tavolo.” Ci appressammo a quello che era stato il posto di lavoro di Adelmo, dove giacevano ancora i fogli di un salterio riccamente miniati. Erano folia di vellum finissimo - regina tra le pergamene - e l'ultimo era ancora fissato al tavolo. Appena sfregato con pietrapomice e ammorbidito col gesso, era stato reso liscio con la plana e, dai minuscoli fori prodotti ai lati con uno stilo sottile, erano state tracciate tutte le linee che dovevano guidare la mano dell'artista. La prima metà era stata già ricoperta di scrittura e il monaco aveva iniziato ad abbozzarvi le figure ai margini. Già finiti erano invece gli altri fogli, e guardandoli né io né Guglielmo riuscimmo a trattenere un grido di ammirazione. Si trattava di un salterio ai margini del quale si delineava un mondo rovesciato rispetto a quello cui ci hanno abituati i nostri sensi. Come se al limine di un discorso che per definizione è il discorso della verità, si svolgesse profondamente legato a quello, per mirabili allusioni in aenigmate, un discorso menzognero su un universo posto a testa in giù, dove i cani fuggono davanti alla lepre e i cervi cacciano il leone. Piccole teste a zampa d'uccello, animali con mani umane sulle terga, teste chiomate dalle quali spuntavano piedi, dragoni zebrati, quadrupedi dal collo serpentino che si allacciava in mille nodi inestricabili, scimmie dalle corna cervine, sirene a forma di volatile con ali membranose sul dorso, uomini senza braccia con altri corpi umani che spuntavano loro sulla schiena a mo' di gobba, e figure con la bocca dentata sul ventre, umani con la testa equina ed equini con gambe umane, pesci con ali d'uccello e uccelli con coda di pesce, mostri a corpo unico e doppia testa o testa unica e corpo doppio, vacche a coda di gallo dalle ali di farfalla, donne dal capo squamato come il dorso di un pesce, chimere bicefale interallacciate con libellule dal muso di lucertola, centauri, dragoni, elefanti, manticore, sciapodi sdraiati su rami d'albero, grifoni dalla cui coda si generava un arciere in assetto di guerra, creature diaboliche dal collo senza fine, sequenze di animali antropomorfi e di nani zoomorfi si associavano, talora sulla stessa pagina, a scene di vita campestre dove vedevi rappresentata, con vivacità impressionante, sì che avresti creduto che le figure fossero vive, tutta la vita dei campi, aratori, raccoglitori di frutti, mietitori, filatrici, seminatori accanto a volpi e faine armate di balestre che scalavano una città turrita difesa da scimmie. Qua una lettera iniziale si piegava a L e nella parte inferiore generava un dragone, là una grande V che dava inizio alla parola “verba” produceva come naturale viticchio del suo tronco una serpe dalle mille volute, a sua volta generante altre serpi quali pampini e corimbi. Accanto al salterio v'era, evidentemente terminato da poco, uno squisito libro d'ore, dalle dimensioni incredibilmente piccole, sì che avresti potuto tenerlo nel palmo della mano. Esigua la scrittura, le miniature marginali erano a malapena visibili a prima vista e chiedevano che l'occhio le esaminasse da vicino per apparire in tutta la loro bellezza (e ti chiedevi con quale strumento sovrumano il miniatore le avesse tracciate per ottenere effetti di tanta vivacità in uno spazio così ridotto). Gli interi margini del libro erano invasi da minuscole figure che si generavano, quasi per naturale espansione, dalle volute terminali delle lettere splendidamente tracciate: sirene marine, cervi in fuga, chimere, torsi umani senza braccia che fuoriuscivano come lombrichi dal corpo stesso dei versetti. In un punto, quasi a continuare i tre “Sanctus Sanctus, Sanctus” ripetuti su tre linee diverse, vedevi tre figure belluine dalle teste umane, di cui due si piegavano l'una verso il basso e l'altra verso l'alto per unirsi in un bacio che non avresti esitato a definire inverecondo se non fossi stato persuaso che, anche se non perspicuo, un profondo significato spirituale doveva certamente giustificare quella raffigurazione in quel punto. Io seguivo quelle pagine combattuto tra l'ammirazione muta e il riso, perché le figure inclinavano necessariamente all'ilarità, benché commentassero pagine sante. E frate Guglielmo le esaminava sorridendo, e commentò: “Babewyn, così li chiamano nelle mie isole.” “Babouins, come li chiamano nelle Gallie,” disse Malachia. “E infatti Adelmo ha appreso la sua arte nel vostro paese, benché dopo abbia studiato anche in Francia. Babbuini, ovvero scimmie dell'Africa. Figure di un mondo rovesciato, dove le case sorgono sulla punta di una guglia e la terra sta sopra il cielo.” Io mi ricordai di alcuni versi che avevo udito nel vernacolo delle mie terre e non potei trattenermi dal pronunciarli: Aller Wnder si geswigen, das herde himel hât überstigen, daz sult is vür ein Wunder Wigen. E Malachia continuò, citando dallo stesso testo: Erd ob un himel unter das sult ir hân besunder Vür aller Wunder ein Wunder. “Bravo Adso,” continuò il bibliotecario, “effettivamente queste immagini ci parlano di quella regione dove si arriva cavalcando un'oca blu, dove si trovano sparvieri che pescano dei pesci in un ruscello, orsi che inseguono falconi nel cielo, gamberi che volano con le colombe e tre giganti presi in trappola e morsicati da un gallo.” E un pallido sorriso illuminò le sue labbra. Allora gli altri monaci, che avevano seguito la conversazione con una certa timidezza, si misero a ridere di cuore, come se avessero atteso il consenso del bibliotecario. Il quale si rabbuiò, mentre gli altri seguitavano a ridere, lodando l'abilità del povero Adelmo e indicandosi l'un l'altro le figure più inverosimili. E fu mentre tutti ancora ridevano che udimmo alle nostre spalle una voce, solenne e severa. “Verba vana aut risui apta non loqui.” Ci voltammo. Chi aveva parlato era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era cieco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell'età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possieda solo il dono della profezia. “L'uomo venerando d'età e sapienza che vedete,” disse Malachia a Guglielmo indicandogli il nuovo venuto, “è Jorge da Burgos. Più vecchio di chiunque viva nel monastero, salvo Alinardo da Grottaferrata, egli è colui a cui moltissimi tra i monaci affidano il carico dei loro peccati nel segreto della confessione.” Poi, volgendosi al vegliardo: “Quello che sta davanti a voi è frate Guglielmo da Baskerville, nostro ospite.” “Spero che non vi siate adirato per le mie parole,” disse il vecchio in tono brusco. “Ho udito persone che ridevano su cose risibili e ho ricordato loro uno dei principi della nostra regola. E come dice il salmista, se il monaco si deve astenere dai discorsi buoni per il voto di silenzio, a quanto maggior ragione deve sottrarsi ai discorsi cattivi. E come ci sono discorsi cattivi ci sono immagini cattive. E sono quelle che mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli sino alla consunzione dei tempi. Ma voi venite da altro ordine, dove mi dicono è vista con indulgenza anche la giocondità più inopportuna.” Alludeva a quanto tra i benedettini si diceva delle bizzarrie di santo Francesco di Assisi e forse anche delle bizzarrie attribuite a fraticelli e spirituali d'ogni sorta, che dell'ordine francescano erano i più recenti e imbarazzanti germogli. Ma frate Guglielmo fece mostra di non raccogliere l'insinuazione. “Le immagini marginali inducono sovente al sorriso, ma per fini di edificazione,” rispose. “Come nei sermoni per toccare l'immaginazione delle pie folle occorre inserire exempla, non di rado faceti, così anche il discorso delle immagini deve indulgere a queste nugae. Per ogni virtù e per ogni peccato c'è un esempio tratto dai bestiari, e gli animali si fanno figura del mondo umano.” “Oh sì,” motteggiò il vecchio, ma senza sorridere, “ogni immagine è buona per invogliare alla virtù, perché il capolavoro della creazione, messo a capo in giù, diventi materia di riso. E così la parola di Dio si manifesta attraverso l'asino che suona la lira, l'allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all'aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s'incendia, il lupo che si fa eremita! Cacciate la lepre col bue, fatevi insegnar grammatica dalle civette, che i cani morsichino le pulci, gli orbi guardino i muti e i muti domandino pane, la formica partorisca un vitello, volino i polli arrosto, le focacce crescano sui tetti, i pappagalli tengano lezione di retorica, le galline fecondino i galli, mettete il carro avanti i buoi, fate dormire il cane nel letto e tutti camminino a testa in giù! Cosa vogliono tutte queste nugae? Un mondo inverso e opposto a quello stabilito da Dio, sotto pretesto di insegnare i precetti divini!” “Ma l'Areopagita insegna,” disse umilmente Guglielmo, “che Dio può essere nominato solo attraverso le cose più difformi. E Ugo di San Vittore ci ricordava che quanto più la similitudine si fa dissimile, tanto più la verità ci è rivelata sotto il velame di figure orribili e indecorose, tanto meno l'immaginazione si placa nel godimento carnale ed è obbligata a cogliere i misteri che si celano sotto la turpitudine delle immagini...” “Conosco l'argomento! E ammetto con vergogna che è stato l'argomento principe del nostro ordine, quando gli abati cluniacensi si battevano contro i cistercensi. Ma san Bernardo aveva ragione: a poco a poco l'uomo che rappresenta mostri e portenti di natura per rivelare le cose di Dio per speculum et in aenigmate, prende gusto alla natura stessa delle mostruosità che crea e si diletta di quelle, e per quelle, né vede più che attraverso quelle. Basta che guardiate, voi che avete ancora la vista, ai capitelli del vostro chiostro,” e accennò con la mano fuori dalle finestre, verso la chiesa, “sotto gli occhi dei frati intenti alla meditazione, cosa significano quelle ridicole mostruosità, quelle deformi formosità e formose difformità? Quelle sordide scimmie? Quei leoni, quei centauri, quegli esseri semiumani, con la bocca sul ventre, un piede solo, le orecchie a vela? Quelle tigri maculate, quei guerrieri in lotta, quei cacciatori che soffiano nel corno, e quei molti corpi in una sola testa e molte teste in un solo corpo? Quadrupedi con la coda di serpente, e pesci con la testa di quadrupede, e qui un animale che davanti pare un cavallo e dietro un caprone, e là un equino con le corna e via via, ormai è più piacevole per il monaco leggere i marmi che non i manoscritti, e ammirare le opere dell'uomo anziché meditare sulla legge di Dio. Vergogna, per il desiderio dei vostri occhi e per i vostri sorrisi!” Il gran vecchio si fermò ansimando. E io ammirai la vivida memoria con cui, forse cieco da tanti anni, ancora rimemorava le immagini della cui turpitudine ci parlava. Tanto che sospettai che esse lo avessero molto sedotto quando le aveva viste, se sapeva descriverle ancora con tanta passione. Ma mi è sovente accaduto di trovare le rappresentazioni più seducenti del peccato proprio nelle pagine di quegli uomini di incorruttibile virtù che ne condannavano il fascino e gli effetti. Segno che questi uomini sono mossi da tale ardore di testimonianza della verità che non esitano, per amor di Dio, a conferire al male tutte le seducenze di cui si ammanta, per render meglio gli uomini edotti dei modi con cui il maligno li incanta. E di fatto le parole di Jorge mi stimolarono una gran voglia di vedere le tigri e le scimmie del chiostro, che non avevo ancora ammirato. Ma Jorge interruppe il corso dei miei pensieri perché riprese, con tono meno eccitato, a parlare. “Nostro Signore non ha avuto bisogno di tante stoltezze per indicarci la retta via. Nulla nelle sue parabole muove al riso, o al timore. Adelmo invece, che ora piangete morto, godeva talmente delle mostruosità che miniava, che aveva perduto di vista le cose ultime di cui dovevano essere figura materiale. E ha percorso tutti, tutti dico,” e la sua voce si fece solenne e minacciosa, “i sentieri della mostruosità. Onde Dio sa punire.” Scese un pesante silenzio sui presenti. Ardì di romperlo Venanzio da Salvemec. “Venerabile Jorge,” disse, “la vostra virtù vi rende ingiusto. Due giorni prima che Adelmo morisse voi eravate presente a un dotto dibattito che ebbe luogo proprio qui nello scriptorium. Adelmo si preoccupava che l'arte sua, indulgendo a rappresentazioni bizzarre e fantastiche, fosse tuttavia intesa alla gloria di Dio, strumento di conoscenza delle cose celesti. Frate Guglielmo citava poco fa l'Areopagita, sulla conoscenza per difformità. E Adelmo citò quel giorno un'altra altissima autorità, quella del dottore d'Aquino, quando disse che conviene che le cose divine siano esposte più in figura di corpi vili che in figura di corpi nobili. Prima perché è più facilmente liberato l'animo umano dall'errore; è chiaro infatti che certe proprietà non possono essere attribuite alle cose divine, ciò che sarebbe dubbio se queste fossero indicate con figure di nobili cose corporee. In secondo luogo perché questo modo rappresentativo più si conviene alla conoscenza che di Dio abbiamo su questa terra: egli ci si manifesta infatti più in quello che non è che in quello che è, e perciò le similitudini di quelle cose che più si allontanano da Dio ci portano a una più esatta opinione di lui, perché così sappiamo che egli è al di sopra di ciò che diciamo e pensiamo. E in terzo luogo perché così sono meglio celate le cose di Dio alle persone indegne. Insomma, si trattava quel giorno di capire in che modo si possa scoprire la verità attraverso espressioni sorprendenti, e argute, ed enigmatiche. E io gli ricordai che nell'opera del grande Aristotele avevo trovato parole assai chiare a questo riguardo...” “Non ricordo,” interruppe seccamente Jorge, “sono molto vecchio. Non ricordo. Posso avere ecceduto in severità. Ora è tardi, debbo andare.” “E' strano che non ricordiate,” insistette Venanzio, “fu una dotta e bellissima discussione, in cui intervennero anche Bencio e Berengario. Si trattava di sapere infatti se le metafore, e i giochi di parole, e gli enigmi, che pure paiono immaginati dai poeti per puro diletto, non inducano a speculare sulle cose in modo nuovo e sorprendente, e io dicevo che anche questa è una virtù che si richiede al saggio... E c'era anche Malachia...” “Se il venerabile Jorge non ricorda, abbi rispetto per la sua età e per la stanchezza della sua mente... peraltro sempre così viva,” intervenne qualcuno dei monaci che seguivano la discussione. La frase era stata pronunziata in modo agitato, almeno all'inizio, perché chi aveva parlato, accorgendosi che per invitare al rispetto del vecchio, di fatto ne metteva in luce una debolezza, aveva poi rallentato l'impeto del proprio intervento, finendo quasi in un sussurro di scusa. A parlare era stato Berengario da Arundel, l'aiuto bibliotecario. Era un giovane dal volto pallido, e osservandolo mi ricordai della definizione che Ubertino aveva dato di Adelmo: i suoi occhi parevano quelli di una donna lasciva. Intimidito dagli sguardi di tutti che ora si posavano su di lui, teneva le dita delle mani allacciate come chi voglia reprimere un'interna tensione. Singolare fu la reazione di Venanzio. Guardò Berengario in modo tale che quello abbassò gli occhi: “Va bene fratello,” disse, “se la memoria è un dono di Dio anche la capacità di dimenticare può essere molto buona, e va rispettata. Ma la rispetto nell'anziano confratello a cui parlavo. Da te mi attendevo un ricordo più vivo intorno alle cose accadute quando stavamo qui, insieme con un tuo carissimo amico...” Non potrei dire se Venanzio avesse calcato il tono sulla parola “carissimo”. Sta di fatto che avvertii un'atmosfera di imbarazzo tra gli astanti. Ciascuno volgeva l'occhio da una parte diversa e nessuno lo dirigeva su Berengario, che era arrossito violentemente. Intervenne subito Malachia, con autorità: “Venite, frate Guglielmo,” disse, “vi mostrerò altri libri interessanti.” Il gruppo si sciolse. Scorsi Berengario lanciare a Venanzio uno sguardo carico di rancore, e Venanzio rispondergli del pari, con muta sfida. Io, vedendo che il vecchio Jorge si stava allontanando, mosso da un senso di rispettosa reverenza, mi chinai a baciargli la mano. Il vecchio ricevette il bacio, posò la mano sul mio capo e domandò chi fossi. Quando gli dissi il mio nome il suo volto si rischiarò. “Porti un nome grande e bellissimo,” disse. “Sai chi fu Adso da Montier-enDer?” domandò. Io, lo confesso, non lo sapevo. Così Jorge soggiunse: “Fu l'autore di un libro grande e tremendo, il Libellus de Antichristo, in cui egli vide cose che sarebbero accadute, e non fu ascoltato abbastanza.” “Il libro fu scritto prima del millennio,” disse Guglielmo, “e quelle cose non si sono avverate...” “Per chi non ha occhi per vedere,” disse il cieco. “Le vie dell'Anticristo sono lente e tortuose. Egli arriva quando noi non lo prevediamo, e non perché il calcolo suggerito dall'apostolo fosse errato, ma perché noi non ne abbiamo appreso l'arte.” Poi gridò, ad altissima voce, il volto verso la sala, facendo rimbombare le volte dello scriptorium: “Egli sta venendo! Non perdete gli ultimi giorni ridendo sui mostriciattoli dalla pelle maculata e dalla coda ritorta! Non dissipate gli ultimi sette giorni!” Primo giorno Vespri Dove si visita il resto dell'abbazia, Guglielmo trae alcune conclusioni sulla morte di Adelmo, si parla col fratello vetraio di vetri per leggere e di fantasmi per chi vuol leggere troppo A quel punto sonarono per vespro e i monaci si accinsero a lasciare i loro tavoli. Malachia ci fece capire che anche noi dovevamo andare. Egli sarebbe rimasto con il suo aiutante, Berengario, a riordinare le cose e (così si espresse) a predisporre la biblioteca per la notte. Guglielmo gli chiese se avrebbe poi chiuso le porte. “Non ci sono porte che difendano l'accesso allo scriptorium dalla cucina e dal refettorio, né alla biblioteca dallo scriptorium. Più forte di alcuna porta deve essere l'interdetto dell'Abate. E i monaci debbono avvalersi e della cucina e del refettorio sino a compieta. A quel punto, a impedire che estranei o animali, per i quali l'interdetto non vale, possano entrare nell'Edificio, io stesso chiudo i portali da basso, che conducono e alle cucine e al refettorio, e da quell'ora l'Edificio rimane isolato.” Scendemmo. Mentre i monaci si avviavano verso il coro il mio maestro decise che il Signore ci avrebbe perdonato se non avessimo assistito all'ufficio divino (il Signore ebbe molto a perdonarci nei giorni seguenti!) e mi propose di camminare un poco con lui per il pianoro, affinché ci familiarizzassimo con il luogo. Uscimmo dalle cucine, attraversammo il cimitero: v'erano pietre tombali più recenti, e altre che recavano i segni del tempo, raccontando vite di monaci vissuti nei secoli passati. Le tombe erano senza nome, sormontate da croci di pietra. Il tempo si stava guastando. Si era levato un vento freddo e il cielo si faceva caliginoso. Si indovinava un sole che tramontava dietro gli orti e già si faceva scuro verso oriente, dove ci dirigemmo, costeggiando il coro della chiesa e raggiungendo la parte posteriore del pianoro. Ivi, quasi a ridosso del muro di cinta, dove esso si saldava al torrione orientale dell'Edificio, c'erano gli stabbi e i porcai stavano ricoprendo la giara col sangue dei maiali. Notammo che dietro gli stabbi il muro di cinta era più basso, sì che vi ci si poteva affacciare. Oltre lo strapiombo delle mura, il terreno che digradava vertiginosamente al di sotto era ricoperto di una terraglia che la neve non riusciva completamente a nascondere. Mi resi conto che si trattava del deposito dello strame, che veniva gettato da quel luogo, e discendeva sino al tornante da cui si diramava il sentiero lungo il quale si era avventurato il fuggiasco Brunello. Dico strame, perché si trattava di una gran frana di materia puteolente, il cui odore arrivava sino al parapetto da cui mi affacciavo; evidentemente i contadini venivano ad attingervi dal basso onde usarne per i campi. Ma alle deiezioni degli animali e degli uomini, si mescolavano altri rifiuti solidi, tutto il rifluire di materie morte che l'abbazia espelleva dal proprio corpo, per mantenersi limpida e pura nel suo rapporto con la sommità del monte e col cielo. Nelle stalle accanto i cavallari stavano riconducendo gli animali alla greppia. Percorremmo il cammino lungo il quale si estendevano, dalla parte del muro, le varie stalle, e a sinistra, a ridosso del coro, il dormitorio dei monaci, e poi le latrine. Là dove il muro orientale piegava verso meridione, all'angolo della cinta, v'era l'edificio delle fucine. Gli ultimi fabbri stavano riponendo i loro attrezzi e spegnendo i mantici, per avviarsi all'ufficio divino. Guglielmo si mosse con curiosità verso una parte delle fucine, quasi separata dal resto del laboratorio, dove un monaco stava riponendo le proprie cose. Sul suo tavolo vi era una bellissima collezione di vetri multicolori, di piccole dimensioni, ma lastre più ampie erano addossate al muro. Davanti a lui stava un reliquario ancora incompiuto, di cui esisteva solo la carcassa in argento, ma sulla quale egli stava evidentemente incastonando vetri e altre pietre, che con i suoi strumenti aveva ridotto alle dimensioni di una gemma. Conoscemmo così Nicola da Morimondo, maestro vetraio dell'abbazia. Ci spiegò che nella parte posteriore della fucina si soffiava anche vetro, mentre in quella anteriore, dove stavano i fabbri, si fissavano i vetri ai piombi di riunione per farne vetrate. Ma, aggiunse, la grande opera vetraria, che abbelliva la chiesa e l'Edificio, era già stata compiuta almeno due secoli addietro. Ora ci si limitava a lavori minori, alla riparazione dei guasti del tempo. “E con gran fatica,” aggiunse, “perché non si riesce più a trovare i colori di un tempo, specie il blu che potete ancora ammirare nel coro, di una qualità così limpida, che a sole alto riversa nella navata una luce di paradiso. I vetri della parte occidentale della navata, rifatti non molto tempo fa, non sono della stessa qualità, e lo si vede nei giorni estivi. E' inutile,” soggiunse, “non abbiamo più la saggezza degli antichi, è finita l'epoca dei giganti!” “Siamo nani,” ammise Guglielmo, “ma nani che stanno sulle spalle di quei giganti, e nella nostra pochezza riusciamo talora a vedere più lontano di loro sull'orizzonte.” “Dimmi cosa facciamo meglio che essi non abbiano saputo fare!” esclamò Nicola. “Se scenderai nella cripta della chiesa dove è custodito il tesoro dell'abbazia, troverai reliquiari di una tale squisita fattura che il mostriciattolo che io sto ora miseramente costruendo,” e accennò alla propria opera sul tavolo, “ti parrà scimmia di quelli!” “Non sta scritto che i maestri vetrai debbano continuare a costruire finestre e gli orafi reliquiari, se i maestri del passato han saputo produrne di tanto belli e destinati a durare nei secoli. Altrimenti, la terra si riempirebbe di reliquiari, in un'epoca in cui i santi da cui trar reliquie sono così rari,” motteggiò Guglielmo. “Né si dovranno saldare all'infinito finestre. Ma ho visto in vari paesi opere nuove fatte col vetro che ci fan pensare a un mondo di domani in cui il vetro sia non solo al servizio degli uffici divini ma anche aiuto alla debolezza dell'uomo. Ti voglio mostrare un'opera dei giorni nostri, di cui mi onoro possedere un utilissimo esemplare.” Mise le mani nel saio e ne trasse le sue lenti che lasciarono stupito il nostro interlocutore. Nicola prese la forcella che Guglielmo gli porgeva con grande interesse: “Oculi de vitro cum capsula!” esclamò. “Ne avevo udito parlare da un certo fra Giordano che conobbi a Pisa! Diceva che non erano passati vent'anni da che erano stati inventati. Ma parlai con lui più di vent'anni fa.” “Credo che siano stati inventati molto prima,” disse Guglielmo, “ma sono di difficile fabbricazione, e ci vogliono maestri vetrai molto esperti. Costano tempo e lavoro. Dieci anni fa un paio di questi vitrei ab oculis ad legendum sono stati venduti a Bologna per sei soldi. Io ne ebbi un paio in dono da un grande maestro, Salvino degli Armati, più di dieci anni fa, e li ho conservati gelosamente per tutto questo tempo, come fossero - quali ormai sono - parte del mio stesso corpo.” “Spero me li lascerai esaminare uno di questi giorni, non mi spiacerebbe produrne di simili,” disse emozionato Nicola. “Certo,” acconsentì Guglielmo,”ma bada che lo spessore del vetro deve cambiare a seconda dell'occhio a cui si deve adattare, e bisogna tentare molte di queste lenti per provarle sul paziente, sino a che non si trova lo spessore buono.” “Che meraviglia!” continuava Nicola. “Eppure molti parlerebbero di stregoneria e manipolazione diabolica...” “Puoi certo parlare per queste cose di magìa,” acconsentì Guglielmo. “Ma vi sono due forme di magìa. C'è una magìa che è opera del diavolo e che mira alla rovina dell'uomo attraverso artifici di cui non è lecito parlare. Ma c'è una magìa che è opera divina, là dove la scienza di Dio si manifesta attraverso la scienza dell'uomo, che serve a trasformare la natura, e uno dei cui fini è prolungare la vita stessa dell'uomo. E questa è magìa santa, a cui i sapienti dovranno sempre più dedicarsi, non solo per scoprire cose nuove ma per riscoprire tanti segreti di natura che la sapienza divina aveva rivelato agli ebrei, ai greci, ad altri popoli antichi e persino oggi agli infedeli (e non ti dico quante cose meravigliose di ottica e scienza della visione vi siano nei libri degli infedeli!). E di tutte queste conoscenze una scienza cristiana dovrà reimpossessarsi, e riprenderla ai pagani e agli infedeli tamquam ab iniustis possessoribus.” “Ma perché coloro che posseggono questa scienza non la comunicano a tutto il popolo di Dio?” “Perché non tutto il popolo di Dio è pronto ad accettare tanti segreti, ed è spesso accaduto che i depositari di questa scienza siano stati scambiati per maghi legati da patto col demonio, pagando con la loro vita il desiderio che avevano avuto di rendere gli altri partecipi del loro tesoro di conoscenza. Io stesso, durante processi in cui si sospettava qualcuno di commercio col demonio, ho dovuto guardarmi dall'usare queste lenti, ricorrendo a segretari volonterosi che mi leggessero le scritture di cui abbisognavo, perché altrimenti, in un momento in cui la presenza del diavolo era così invadente, e tutti ne respiravano, per così dire, l'odore di zolfo, io stesso sarei stato visto come amico degli inquisiti. E infine, avvertiva il grande Ruggiero Bacone, non sempre i segreti della scienza debbono andare nelle mani di tutti, ché alcuni potrebbero usarne per cattivi propositi. Spesso il sapiente deve far apparire come magici libri che magici non sono, ma appunto di buona scienza, per proteggerli da occhi indiscreti.” “Tu temi dunque che i semplici possano fare cattivo uso di questi segreti?” chiese Nicola. “Per quanto riguarda i semplici, temo solo che possano esserne terrorizzati, confondendoli con quelle opere del diavolo di cui troppo spesso parlano loro i predicatori. Vedi, mi è accaduto di conoscere medici abilissimi che avevano distillato medicamenti capaci di guarire immantinenti una malattia. Ma costoro davano il loro unguento o infuso ai semplici accompagnandolo con parole sante e salmodiando frasi che parevano preghiere. Non perché queste preghiere avessero potere di guarire, ma perché credendo che la guarigione venisse dalle preghiere i semplici inghiottissero l'infuso o si cospargessero con l'unguento, e così guarissero, senza prestare troppa attenzione alla sua forza effettiva. E poi anche perché l'animo, bene eccitato dalla fiducia nella formula devota, si disponesse meglio all'azione corporale del medicamento. Ma spesso i tesori della scienza vanno difesi non contro i semplici bensì contro altri sapienti. Si fanno oggi macchine prodigiose, di cui un giorno ti parlerò, con cui veramente si può dirigere il corso della natura. Ma guai se esse cadessero nelle mani di uomini che le usassero per estendere il loro potere terreno e saziare la loro brama di possesso. Mi dicono che nel Cataio un saggio ha miscelato una polvere che può produrre a contatto col fuoco, un grande rombo e una gran fiamma, distruggendo tutte le cose per braccia e braccia intorno. Mirabile artificio, se venisse usato per deviare il corso dei fiumi o frantumare la roccia là dove vi sia da dissodare il terreno. Ma se qualcuno la usasse per recar nocumento ai propri nemici?” “Forse sarebbe bene, se fossero nemici del popolo di Dio,” disse devotamente Nicola. “Forse,” ammise Guglielmo. “Ma chi è oggi il nemico del popolo di Dio? Ludovico imperatore o Giovanni papa?” “Oh mio Signore!” disse tutto spaventato Nicola, “non vorrei proprio decidere da solo una cosa tanto dolorosa!” “Vedi?” disse Guglielmo. “Talora è bene che certi segreti restino ancora coperti da discorsi occulti. I segreti della natura non si trasportano in pelli di capra o di pecora. Aristotele dice nel libro dei segreti che a comunicar troppi arcani della natura e dell'arte si infrange un sigillo celeste e che molti mali potrebbero seguirne. Il che non vuol dire che i segreti non debbano essere svelati, ma che compete ai sapienti decidere quando e come.” “Per cui è bene che in luoghi come questo,” disse Nicola, “non tutti i libri siano alla portata di tutti.” “Questa è un'altra storia,” disse Guglielmo. “Si può peccare per eccesso di loquacità e per eccesso di reticenza. Io non volevo dire che occorre nascondere le fonti della scienza. Questo mi pare anzi un gran male. Volevo dire che, trattando di arcani da cui può nascere sia il bene che il male, il sapiente ha diritto e dovere di usare un linguaggio oscuro, comprensibile solo ai suoi simili. La via della scienza è difficile ed è difficile distinguervi il bene dal male. E spesso i sapienti dei tempi nuovi sono solo nani sulle spalle di nani.” L'amabile conversazione col mio maestro doveva aver posto Nicola in vena di confidenze. Pertanto ammiccò a Guglielmo (come a dire: io e te ci intendiamo perché parliamo delle stesse cose) e alluse: “Però laggiù,” e accennò all'Edificio, “i segreti della scienza sono ben difesi da opere di magìa...” “Sì?” disse Guglielmo ostentando indifferenza. “Porte sbarrate, divieti severi, minacce, immagino.” “Oh no, di più...” “Cosa per esempio?” “Ecco, io non so con esattezza, io mi occupo di vetri e non di libri, ma nell'abbazia circolano storie... strane...” “Di che genere?” “Strane. Diciamo, di un monaco che nottetempo ha voluto avventurarsi in biblioteca, per cercare qualcosa che Malachia non aveva voluto dargli, e ha visto serpenti, uomini senza testa, e uomini con due teste. Per poco non usciva pazzo dal labirinto...” “Perché parli di magìa e non di apparizioni diaboliche?” “Perché anche se sono un povero maestro vetraio non sono così sprovveduto. Il diavolo (Dio ci salvi!) non tenta un monaco con serpenti e uomini bicefali. Se mai con visioni lascive, come coi padri del deserto. E poi, se è male mettere mano su certi libri, perché il diavolo dovrebbe distogliere un monaco dal commettere il male?” “Mi sembra un buon entimema,” ammise il mio maestro. “E infine, quando aggiustavo le vetrate nell'ospedale, mi sono divertito a sfogliare alcuni dei libri di Severino. C'era un libro di segreti scritto credo da Alberto Magno; fui attratto da alcune miniature curiose, e lessi delle pagine sul modo in cui puoi ungere lo stoppino di una lampada a olio, e i suffumigi che ne provengono procurano visioni. Avrai notato, o meglio non avrai ancora notato perché non hai ancora passato una notte all'abbazia, che durante le ore buie il piano superiore dell'Edificio è illuminato. Dalle vetrate, in certi punti, traspare una luce fievole. Molti si son chiesti cosa sia, e si è parlato di fuochi fatui, o delle anime dei bibliotecari monaci trapassati che tornano a visitare il loro regno. Molti qui ci credono. Io penso che siano lampade preparate per le visioni. Sai, se prendi il grasso dell'orecchio di un cane e ne ungi uno stoppino, chi respira il fumo di quella lampada crederà di avere una testa di cane, e se avrà qualcuno accanto lo vedrà con testa di cane. E c'è un altro unguento che fa sì che coloro che girano intorno alla lampada si sentano grandi come elefanti. E con gli occhi di un pipistrello e di due pesci di cui non ricordo il nome, e il fiele di un lupo, fai uno stoppino che bruciando ti farà vedere gli animali di cui hai preso il grasso. E con la coda di lucertola fai vedere tutte le cose intorno come d'argento, e con il grasso di un serpente nero e un frammento di lenzuolo funebre, la stanza apparirà piena di serpenti. Io lo so. Qualcuno nella biblioteca è molto astuto...” “Ma non potrebbero essere le anime dei bibliotecari trapassati che fanno queste magie?” Nicola ristette perplesso e inquieto: “A questo non avevo pensato. Può darsi. Dio ci protegga. E' tardi, vespro è già iniziato. Addio.” E si diresse verso la chiesa. Proseguimmo lungo il lato sud: a destra l'albergo dei pellegrini e la sala capitolare col giardino, a sinistra i frantoi, il mulino, i granai, le cantine, la casa dei novizi. E tutti che si affrettavano verso la chiesa. “Cosa pensate di quello che ha detto Nicola?” chiesi. “Non so. Nella biblioteca accade qualcosa, e non credo siano le anime dei bibliotecari trapassati...” “Perché?” “Perché immagino siano stati così virtuosi che oggi se ne stanno nel regno dei cieli a contemplare il volto della divinità, se questa risposta ti può soddisfare. Quanto alle lampade, se ci sono le vedremo. E quanto agli unguenti di cui ci parlava il nostro vetraio, ci sono modi più facili per procurare visioni, e Severino li conosce molto bene, te ne sei accorto oggi. E' certo che nell'abbazia non si vuole che si penetri la notte in biblioteca e che molti invece hanno tentato o tentano di farlo.” “E il nostro delitto ha a che fare con questa storia?” “Delitto? Più ci penso e più mi convinco che Adelmo si è ucciso.” “E perché?” “Ti ricordi stamane quando ho notato il deposito dello strame? Mentre salivamo il tornante dominato dal torrione orientale avevo notato in quel punto i segni lasciati da una frana: ovvero, una parte di terreno, più o meno là dove si ammassa lo strame, era franata rotolando sin sotto il torrione. Ed ecco perché questa sera, quando abbiamo guardato dall'alto, lo strame ci è apparso poco coperto di neve, ovvero appena coperto dall'ultima di ieri, non da quella dei giorni scorsi. Quanto al cadavere di Adelmo, l'Abate ci ha detto che era lacerato dalle rocce, e sotto il torrione orientale, appena la costruzione finisce a strapiombo, crescono pini. Le rocce sono invece proprio nel punto in cui la parete del muro finisce, formando come una sorta di gradino, e dopo inizia la calata dello strame.” “E allora?” “E allora pensa se non sia più... come dire?... meno dispendioso per la nostra mente pensare che Adelmo, per ragioni ancora da appurare, si sia gettato sponte sua dal parapetto del muro, sia rimbalzato sulle rocce e, morto o ferito che fosse, sia precipitato nello strame. Poi la frana, dovuta all'uragano di quella sera, ha fatto scivolare e lo strame e parte del terreno e il corpo del poveretto sotto il torrione orientale.” “Perché dite che è una soluzione meno dispendiosa per la nostra mente?” “Caro Adso, non occorre moltiplicare le spiegazioni e le cause senza che se ne abbia una stretta necessità. Se Adelmo è caduto dal torrione orientale bisogna che sia penetrato in biblioteca, che qualcuno lo abbia colpito prima perché non opponesse resistenza, che abbia trovato il modo di salire con un corpo esanime sulle spalle sino alla finestra, che l'abbia aperta e abbia precipitato giù lo sciagurato. Con la mia ipotesi ci bastano invece Adelmo, la sua volontà, e una frana. Tutto si spiega utilizzando un minor numero di cause.” “Ma perché si sarebbe ucciso?” “Ma perché lo avrebbero ucciso? In ogni caso occorre trovare delle ragioni. E che ce ne siano mi sembra indubbio. Nell'Edificio si respira aria di reticenza, tutti ci tacciono qualcosa. Per intanto abbiamo già raccolto alcune insinuazioni, assai vaghe in verità, su qualche strano rapporto che intercorreva tra Adelmo e Berengario. Vuol dire che terremo d'occhio l'aiuto bibliotecario.” Mentre così si parlava, l'ufficio dei vespri era terminato. I servi tornavano alle loro mansioni prima di ritirarsi per la cena, i monaci si avviavano al refettorio. Il cielo era ormai buio e stava iniziando a nevicare. Una neve leggera, a piccoli fiocchi soffici, che avrebbe continuato, credo, per gran parte della notte, perché il mattino seguente tutto il pianoro sarebbe stato coperto da una coltre candida, come dirò. Io avevo fame e accolsi con sollievo l'idea di andare a mensa. Primo giorno Compieta Dove Guglielmo e Adso godono della lieta ospitalità dell'Abate e della corrucciata conversazione di Jorge Il refettorio era illuminato da grandi torce. I monaci sedevano lungo una fila di tavole, dominata dal tavolo dell'Abate, posto perpendicolarmente a essi su una vasta pedana. Dalla parte opposta un pulpito, su cui aveva già preso posto il monaco che avrebbe fatto la lettura durante la cena. L'Abate ci attendeva presso una fontanella con un panno bianco per asciugarci le mani dopo il lavabo, giusta i consigli antichissimi di san Pacomio. L'Abate invitò Guglielmo alla sua tavola e disse che per quella sera, dato che ero anch'io ospite fresco, avrei goduto dello stesso privilegio, anche se ero un novizio benedettino. I giorni seguenti, mi disse paternamente, avrei potuto sedermi a tavola coi monaci, o se il mio maestro mi avesse affidato qualche incarico, passare prima o dopo i pasti in cucina, dove i cuochi si sarebbero presi cura di me. I monaci stavano ora in piedi ai tavoli, immobili col cappuccio abbassato sul viso e le mani sotto lo scapolare. L'Abate si appressò alla sua tavola e pronunciò il Benedicite. Il cantore dal pulpito intonò Edent pauperes. L'Abate diede la sua benedizione e ciascuno si sedette. La regola del nostro fondatore prevede un desinare assai parco, ma lascia all'Abate decidere di quanto cibo abbiano effettivamente bisogno i monaci. D'altra parte ormai nelle nostre abbazie si indulge maggiormente ai piaceri della tavola. Non parlo di quelle che, purtroppo, si sono trasformate in covi di ghiottoni; ma anche quelle ispirate a criteri di penitenza e di virtù forniscono ai monaci, intenti quasi sempre a gravosi lavori dell'intelletto, un nutrimento non molle ma robusto. D'altro canto la mensa dell'Abate è sempre privilegiata, anche perché non di rado vi seggono degli ospiti di riguardo, e le abbazie sono orgogliose dei prodotti della loro terra e delle loro stalle, e della perizia dei loro cucinieri. Il pasto dei monaci si svolse in silenzio, come di costume, gli uni comunicando agli altri con il nostro consueto alfabeto delle dita. I novizi e i monaci più giovani venivano serviti per primi, subito dopo che i piatti destinati a tutti erano passati dalla mensa dell'Abate. Alla tavola dell'Abate sedevano con noi Malachia, il cellario e i due monaci più anziani, Jorge da Burgos, il vegliardo cieco che avevo già conosciuto nello scriptorium e il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata: quasi centenario, claudicante e d'aspetto fragile, e - mi parve - assente di spirito. Ci disse di lui l'Abate che, novizio già in quella abbazia, sempre vi aveva vissuto e ne ricordava almeno ottant'anni di vicende. L'Abate ci disse queste cose sottovoce all'inizio, perché in seguito ci si attenne all'uso del nostro ordine e si seguì in silenzio la lettura. Ma, come dissi, alla tavola dell'Abate ci si prendevano alcune licenze, e ci avvenne di lodare i piatti che ci furono offerti, mentre l'Abate celebrava le qualità del suo olio, o del suo vino. Anzi una volta, mescendoci da bere, ci ricordò quei brani della regola in cui il santo fondatore aveva osservato che certo il vino non conviene ai monaci, ma poiché non si possono persuadere i monaci dei tempi nostri a non bere, che almeno non bevano sino alla sazietà, perché il vino spinge all'apostasia anche i saggi, come ricorda l'Ecclesiaste. Benedetto diceva “ai tempi nostri” e si riferiva ai suoi, ormai lontanissimi: figuriamoci ai tempi in cui cenavamo all'abbazia, dopo tanto decadimento di costumi (e non parlo dei tempi miei, in cui ora scrivo, se non che qui a Melk si indulge maggiormente alla birra!): insomma, si bevette senza esagerare ma non senza gusto. Mangiammo carni allo spiedo, dei maiali appena uccisi, e mi avvidi che per altri cibi non si usava grasso di animali né olio di ravizzone, ma del buon olio d'oliva, che veniva da terreni che l'abbazia possedeva a piedi del monte verso il mare. L'Abate ci fece gustare (riservato alla sua mensa) quel pollo che avevo visto preparare in cucina. Notai che, cosa assai rara, egli disponeva anche di una forchetta di metallo, che nella forma mi ricordava le lenti del mio maestro: uomo di nobile estrazione il nostro ospite non voleva lordarsi le mani col cibo, e ci offrì anzi il suo strumento almeno per prendete le carni dal piatto grande e porle nelle nostre ciotole. Io rifiutai, ma vidi che Guglielmo accettò di buon grado e si servì con disinvoltura di quell'arnese da signori, forse per non provare all'Abate che i francescani erano persone di scarsa educazione e di estrazione umilissima. Entusiasta com'ero per tutti quei buoni cibi (dopo alcuni giorni di viaggio in cui ci eravamo nutriti come potevamo), mi ero distratto dal corso della lettura che intanto devotamente proseguiva. Vi fui richiamato da un vigoroso grugnito d'assenso di Jorge, e mi avvidi che si era al punto in cui veniva sempre letto un capitolo della Regola. Mi resi conto del perché Jorge fosse tanto soddisfatto, dopo averlo ascoltato nel pomeriggio. Diceva infatti il lettore: “Imitiamo l'esempio del profeta che dice: ho deciso, veglierò sul mio cammino per non peccare con la mia lingua, ho posto un bavaglio alla mia bocca, sono ammutolito umiliandomi, mi sono astenuto dal parlare anche di cose oneste. E se in questo passo il profeta ci insegna che talvolta per amore del silenzio ci si dovrebbe astenere persino dai discorsi leciti, quanto di più dobbiamo astenerci dai discorsi illeciti per evitare la pena di questo peccato!” E poi proseguiva: “Ma le volgarità, le scempiaggini e le buffonerie noi le condanniamo alla reclusione perpetua, in ogni luogo, e non permettiamo che il discepolo apra la bocca per fare discorsi di tal fatta.” “E questo valga per i marginalia di cui si diceva oggi,” non si trattenne dal commentare Jorge a bassa voce. “Giovanni Boccadoro ha detto che Cristo non ha mai riso.” “Nulla nella sua natura umana lo vietava,” osservò Guglielmo, “perché il riso, come insegnano i teologi, è proprio dell'uomo.” “Forte potuit sed non legitur eo usus fuisse,” disse recisamente Jorge, citando Pietro Cantore. “Manduca, jam coctum est,” sussurrò Guglielmo. “Cosa?” chiese Jorge, che credeva che egli alludesse a qualche cibo che gli veniva porto. “Sono le parole che secondo Ambrogio furono pronunziate da san Lorenzo sulla graticola, quando invitò i carnefici a girarlo dall'altra parte, come ricorda anche Prudenzio nel Peristephanon,” disse Guglielmo con l'aria di un santo. “San Lorenzo sapeva dunque ridere e dir cose ridicole, sia pure per umiliare i propri nemici.” “Il che dimostra che il riso è cosa assai vicina alla morte e alla corruzione del corpo,” ribatté in un ringhio Jorge, e devo ammettere che si comportò da buon loico. A quel punto l'Abate ci invitò bonariamente al silenzio. La cena peraltro stava terminando. L'Abate si alzò e presentò Guglielmo ai monaci. Ne lodò la saggezza, ne palesò la fama, e avvertì che era stato pregato di investigare sulla morte di Adelmo, invitando i monaci a rispondere alle sue domande e ad avvertire i loro sottoposti, per tutta l'abbazia, a fare altrettanto. E a facilitargli le ricerche, purché, aggiunse, le sue richieste non contravvenissero alle regole del monastero. Nel qual caso si sarebbe dovuto ricorrere alla sua autorizzazione. Finita la cena i monaci si disposero ad avviarsi al coro per l'ufficio di compieta. Si calarono di nuovo il cappuccio sul viso e si allinearono davanti alla porta, in stazione. Poi si mossero in lunga fila, attraversando il cimitero ed entrando nel coro dal portale settentrionale. Ci avviammo con l'Abate.”A quest'ora si chiudono le porte dell'Edificio?” domandò Guglielmo. “Appena i servi avranno pulito il refettorio e le cucine, il bibliotecario stesso chiuderà tutte le porte, sprangandole dall'interno.” “Dall'interno? E lui da dove esce?” L'Abate fissò Guglielmo per un attimo, serio in volto: “Certo non dorme in cucina,” disse bruscamente. E affrettò il passo. “Bene bene,” mi sussurrò Guglielmo, “dunque esiste un'altra entrata, ma noi non la dobbiamo conoscere.” Io sorrisi tutto fiero della sua deduzione, ed egli mi rimbrottò: “E non ridere. Hai visto che entro queste mura il riso non gode di buona reputazione.” Entrammo nel coro. Una sola lampada ardeva, su un robusto tripode di bronzo, alto come due uomini. I monaci si posero negli stalli in silenzio, mentre il lettore leggeva un passaggio di una omelia di san Gregorio. Poi l'Abate fece un segno e il cantore intonò Tu autem Domine miserere nobis. L'Abate rispose Adjutorium nostrum in nomine Domini e tutti fecero coro con Qui fecit coelum et terram. Quindi iniziò il canto dei salmi: Quando invoco rispondimi o Dio della mia giustizia; Ti ringrazierò Signore con tutto il mio cuore; Su benedite il Signore, servi tutti del Signore. Noi non ci eravamo posti negli stalli, e ci eravamo ritratti nella navata principale. Fu di lì che scorgemmo improvvisamente Malachia emergere dal buio di una cappella laterale. “Tieni d'occhio quel punto,” mi disse Guglielmo. “Potrebbe esserci un passaggio che porta all'Edificio.” “Sotto il cimitero?” “E perché no? Anzi, ripensandoci, ci dovrà essere da qualche parte un ossario, è impossibile che da secoli seppelliscano tutti i monaci in quel lembo di terra.” “Ma volete veramente entrare di notte in biblioteca?” domandai atterrito. “Dove ci sono i monaci defunti e i serpenti e le luci misteriose, mio buon Adso? No, ragazzo. Ci pensavo oggi, e non per curiosità ma perché mi ponevo il problema di come fosse morto Adelmo. Ora, come ti ho detto, propendo per una spiegazione più logica, e tutto sommato vorrei rispettare le usanze di questo luogo.” “Allora perché volete sapere?” “Perché la scienza non consiste solo nel sapere quello che si deve o si può fare, ma anche nel sapere quello che si potrebbe fare e che magari non si deve fare. Ecco perché oggi dicevo al maestro vetraio che il sapiente deve in qualche modo celare i segreti che scopre, perché altri non ne facciano cattivo uso, ma bisogna scoprirli, e questa biblioteca mi pare piuttosto un luogo dove i segreti rimangono coperti.” Con queste parole si avviò fuori della chiesa, perché l'ufficio era terminato. Eravamo entrambi molto stanchi e andammo nella nostra cella. Io mi rannicchiai in quello che Guglielmo chiamò scherzosamente il mio “loculo” e mi addormentai subito. Secondo giorno Secondo giorno Mattutino Dove poche ore di mistica felicità sono interrotte da un sanguinosissimo evento Simbolo talora del demonio, talora del Cristo risorto, nessun animale è più infido del gallo. L'ordine nostro ne conobbe di infingardi, che non cantavano al levar del sole. E d'altra parte, specie nelle giornate invernali, l'ufficio di mattutino ha luogo quando ancora la notte è piena e la natura tutta addormentata, perché il monaco deve alzarsi nell'oscurità e a lungo nell'oscurità pregare attendendo il giorno e illuminando le tenebre con la fiamma della devozione. Perciò saggiamente la consuetudine predispose dei veglianti che non si coricassero con i confratelli, ma trascorressero la notte recitando ritmicamente quel numero esatto di salmi che desse loro la misura del tempo trascorso, così che, allo scadere delle ore votate al sonno degli altri, agli altri dessero il segno della veglia. Pertanto quella notte fummo svegliati da coloro che percorrevano il dormitorio e la casa dei pellegrini suonando una campanella, mentre uno andava di cella in cella gridando il Benedicamus Domino a cui ciascuno rispondeva Deo gratias. Guglielmo e io ci attenemmo all'uso benedettino: in meno di mezz'ora ci apprestammo ad affrontate la nuova giornata, quindi scendemmo in coro dove i monaci attendevano prostrati a terra, recitando i primi quindici salmi, sino a che non entrarono i novizi condotti dal loro maestro. Quindi ciascuno si assise nel proprio stallo e il coro intonò Domine labia mea aperies et os meum annuntiabit laudem tuam. Il grido salì verso le volte della chiesa come la supplica di un fanciullo. Due monaci salirono al pulpito e diedero voce al salmo novantaquattro, Venite exultemus, a cui seguirono gli altri prescritti. E io provai l'ardore di una fede rinnovata. I monaci erano negli stalli, sessanta figure rese uguali dal saio e dal cappuccio, sessanta ombre a mala pena illuminate dal fuoco del gran tripode, sessanta voci intese alle lodi dell'Altissimo. E udendo questo commovente concento, vestibolo alle delizie del paradiso, mi chiesi se davvero l'abbazia fosse luogo di misteri celati, di illeciti tentativi di svelarli, e di cupe minacce. Perché essa invece ora mi appariva come ricettacolo di santi, cenacolo di virtù, reliquiario di sapienza, arca di prudenza, torre di saggezza, recinto di mansuetudine, bastione di fortezza, turibolo di santità. Dopo sei salmi iniziò la lettura della sacra scrittura. Alcuni monaci ciondolavano per il sonno e uno dei veglianti della notte si aggirava tra gli stalli con una piccola lampada per ridestare chi si fosse addormentato. Se qualcuno veniva sorpreso in preda a sopore, per penitenza prendeva la lampada e continuava il giro di controllo. Quindi riprese il canto di altri sei salmi. Poi l'Abate diede la sua benedizione, l'ebdomadario disse le preghiere, tutti si inchinarono verso l'altare in un minuto di raccoglimento, di cui nessuno, che non abbia vissuto queste ore di mistico ardore e di intensissima pace interiore, può comprendere la dolcezza. Infine, il cappuccio di nuovo sul viso, tutti si sedettero e intonarono solennemente il Te Deum. Anch'io lodai il Signore perché mi aveva liberato dai miei dubbi affrancandomi dal senso di disagio in cui la prima giornata all'abbazia mi aveva gettato. Siamo esseri fragili, mi dissi, anche tra questi monaci dotti e devoti il maligno fa circolare piccole invidie, sottili inimicizie, ma si tratta di fumo che si dirada al vento impetuoso della fede, appena tutti si riuniscono nel nome del Padre e Cristo scende ancora tra loro. Tra mattutino e laudi il monaco non torna in cella, anche se la notte è ancora fonda. I novizi seguirono il loro maestro nella sala capitolare a studiare i salmi, alcuni dei monaci restarono in chiesa ad accudire agli arredi sacri, i più passeggiarono meditando in silenzio nel chiostro, e così facemmo Guglielmo e io. I servi dormivano ancora e continuavano a dormire quando, il cielo ancora scuro, ritornammo nel coro per le laudi. Ricominciò il canto dei salmi, e uno in particolare, di quelli previsti per il lunedì, mi ripiombò nei miei primitivi timori: “La colpa si è impadronita dell'empio, dell'intimo del suo cuore - non v'è timore di Dio negli occhi suoi - agisce con frode al suo cospetto - in modo che la sua lingua diventi odiosa.” Mi parve di cattivo presagio che la regola avesse prescritto proprio per quel giorno un ammonimento così terribile. Né calmò i miei palpiti di inquietudine, dopo i salmi di lode, la consueta lettura dell'Apocalisse, e mi tornarono alla mente le figure del portale che mi avevano tanto soggiogato il cuore e lo sguardo il giorno prima. Ma dopo il responsorio, l'inno e il versetto, quando stava iniziando il cantico del vangelo, scorsi dietro alle finestre del coro, proprio sopra all'altare, un chiarore pallido che già faceva rilucere le vetrate dei loro diversi colori, sino ad allora mortificati dalla tenebra. Non era ancora l'aurora, che avrebbe trionfato durante prima, proprio mentre avremmo cantato Deus qui est sanctorum splendor mirabilis e Iam lucis orto sidere. Era appena il primo flebile annuncio dell'alba invernale, ma fu abbastanza, e fu abbastanza a rinfrancarmi il cuore la lieve penombra che nella navata ora stava sostituendo il buio notturno. Cantavamo le parole del libro divino e, mentre testimoniavamo del Verbo venuto a illuminare le genti, mi parve che l'astro diurno in tutto il suo fulgore stesse invadendo il tempio. La luce, ancora assente, mi parve rilucere nelle parole del cantico, giglio mistico che si schiudeva odoroso tra le crociere delle volte. “Grazie o Signore per questo momento di gaudio inenarrabile,” pregai silenziosamente, e dissi al mio cuore “e tu stolto di che temi?” All'improvviso alcuni clamori si levavano dalla parte del portale settentrionale. Mi domandai come mai i servi, preparandosi al lavoro, disturbassero così le sacre funzioni. In quel punto entrarono tre porcai, col terrore sul viso, e si appressarono all'Abate sussurrandogli qualcosa. L'Abate dapprima li calmò con un gesto, come se non volesse interrompere l'ufficio: ma altri servi entrarono, le grida si fecero più forti: “E' un uomo, un uomo morto!” diceva qualcuno, e altri: “Un monaco, non hai visto i calzari?” Gli oranti tacquero, l'Abate uscì precipitosamente, facendo cenno al cellario che lo seguisse. Guglielmo andò dietro a loro, ma ormai anche gli altri monaci abbandonavano i loro stalli e si precipitavano fuori. Il cielo era ora chiaro, e la neve per terra rendeva ancora più luminoso il pianoro. Sul retro del coro, davanti agli stabbi, dove dal giorno innanzi troneggiava il grande recipiente col sangue dei maiali, uno strano oggetto di forma quasi cruciforme spuntava dal bordo dell'orcio, come fossero due pali infitti al suolo, da ricoprire di stracci per spaventare gli uccelli. Erano invece due gambe umane, le gambe di un uomo ficcato a testa in giù nel vaso di sangue. L'Abate ordinò che si traesse dal liquido infame il cadavere (perché purtroppo nessuna persona viva avrebbe potuto restare in quella oscena posizione). I porcai esitanti si appressarono al bordo e bruttandosi di sangue ne trassero la povera cosa sanguinolenta. Come mi era stato detto, rimestato a dovere subito dopo esser stato versato, e lasciato al freddo, il sangue non si era raggrumato, ma lo strato che ricopriva il cadavere tendeva ora a solidificarsi, ne inzuppava le vesti, ne rendeva il volto irriconoscibile. Si appressò un servo con un secchio di acqua e ne gettò sul volto a quella misera spoglia. Qualcun altro si chinò con un panno a pulirne i lineamenti. E apparve ai nostri occhi il volto bianco di Venanzio da Salvemec, il sapiente di cose greche con cui avevamo discorso nel pomeriggio davanti ai codici di Adelmo. “Forse Adelmo si è suicidato,” disse Guglielmo fissando quel volto, “ma non certo costui, né si può pensare che si sia issato per accidente sino al bordo dell'orcio e sia caduto per errore.” L'Abate gli si appressò: “Frate Guglielmo, come vedete qualcosa accade all'abbazia, qualcosa che richiede tutta la vostra saggezza. Ma vi scongiuro, agite presto!” “Era presente in coro durante l'ufficio?” domandò Guglielmo additando il cadavere. “No,” disse l'Abate.”Avevo notato che il suo stallo era vuoto.” “Nessun altro era assente?” “Non mi pare. Non ho notato nulla.” Guglielmo esitò prima di formulare la nuova domanda, e la fece in un sussurro, attento che gli altri non udissero: “Berengario era al suo posto?” L'Abate lo guardò con inquieta ammirazione, quasi a significare che egli fosse colpito al vedere il mio maestro nutrire un sospetto che egli stesso aveva per un istante nutrito, ma per più comprensibili ragioni. Poi disse rapido: “C'era, sta in prima fila, quasi alla mia destra.” “Naturalmente,” disse Guglielmo, “tutto questo non significa nulla. Non credo che nessuno per entrare in coro sia passato dietro all'abside, e quindi il cadavere poteva già essere qui da varie ore, almeno da dopo che si era andati tutti a dormire.” “Certo, i primi servi si alzano con l'alba e per questo l'hanno scoperto solo ora.” Guglielmo si chinò sul cadavere, come se fosse uso a trattare corpi morti. Intinse il panno che giaceva accanto nell'acqua del secchio e deterse meglio il viso di Venanzio. Frattanto gli altri monaci si affollavano spaventati, formando un cerchio vociante a cui l'Abate stava imponendo il silenzio. Tra di loro si fece strada Severino, a cui era affidata la cura dei corpi dell'abbazia, e si chinò presso il mio maestro. Io, per udire il loro dialogo, e per aiutare Guglielmo che aveva bisogno di aver un nuovo panno pulito intriso nell'acqua, mi unii a loro, superando il mio terrore e il mio disgusto. “Hai mai visto un annegato?” chiese Guglielmo. “Molte volte,” disse Severino.”E se indovino quello che vuoi intendere, non hanno questo volto, i loro lineamenti sono gonfi.” “Allora l'uomo era già morto quando qualcuno lo ha buttato nella giara.” “Perché avrebbe dovuto far questo?” “Perché avrebbe dovuto ucciderlo? Siamo di fronte all'opera di una mente distorta. Ma ora occorre vedere se ci sono ferite o contusioni sul corpo. Propongo di portarlo nei balnea, di spogliarlo, lavarlo ed esaminarlo. Ti raggiungerò presto.” E mentre Severino, ricevuta licenza dall'Abate, faceva trasportare il corpo dai porcai, il mio maestro chiese che i monaci fossero fatti rientrare in coro seguendo la strada da cui erano venuti, e che i servi si ritirassero nello stesso modo, in modo che lo spiazzo rimanesse deserto. L'Abate non gli chiese il perché di questo suo desiderio e lo accontentò. Rimanemmo così soli, accanto all'orcio dal quale il sangue aveva debordato durante la macabra operazione di ricupero, la neve intorno tutta rossa, sciolta in più punti dall'acqua che era stata sparsa, e una gran chiazza scura dove il cadavere era stato disteso. “Un bel pasticcio,” disse Guglielmo accennando al gioco complesso di orme lasciato tutto intorno dai monaci e dai servi. “La neve, caro Adso, è una ammirevole pergamena sulla quale i corpi degli uomini lasciano scritture leggibilissime. Ma questo è un palinsesto mal raschiato e forse non ci leggeremo nulla di interessante. Da qui alla chiesa, è stato un gran accorrere di monaci, da qui allo stabbio e alle stalle sono venuti i servi a frotte. L'unico spazio intatto è quello che va dagli stabbi all'Edificio. Vediamo se troviamo qualcosa di interessante.” “Ma cosa vorreste trovare?” chiesi. “Se non si è buttato da solo nel recipiente, qualcuno ve lo ha portato, immagino già morto. E chi trasporta il corpo di un altro lascia tracce profonde nella neve. E allora cerca se trovi qui intorno delle tracce che ti paiano diverse da quelle lasciate da questi monaci vociferatori che ci hanno rovinato la nostra pergamena.” Così facemmo. E dico subito che fui io, Dio mi salvi dalla vanità, che scoprii qualcosa tra il recipiente e l'Edificio. Erano impronte di piedi umani, abbastanza fonde, in una zona in cui nessuno era ancora passato e, come notò subito il mio maestro, più lievi di quelle lasciate dai monaci e dai servi, segno che altra neve vi era caduta, e quindi erano state lasciate tempo addietro. Ma ciò che più ci parve degno di interesse, era che tra quelle impronte si frammischiava una traccia più continua, come di qualcosa trascinato da chi aveva lasciato le impronte. In breve, una scia che andava dalla giara alla porta del refettorio, sul lato dell'Edificio che stava tra la torre meridionale e quella orientale. “Refettorio, scriptorium, biblioteca,” disse Guglielmo. “Ancora una volta la biblioteca. Venanzio è morto nell'Edificio, e più probabilmente nella biblioteca.” “E perché proprio nella biblioteca?” “Cerco di mettermi nei panni dell'assassino. Se Venanzio fosse morto, ucciso, nel refettorio, nella cucina o nello scriptorium, perché non lasciarlo là? Ma se è morto nella biblioteca occorreva trasportarlo altrove, sia perché nella biblioteca non sarebbe mai stato scoperto (e forse all'assassino interessava proprio che fosse scoperto), sia perché l'assassino probabilmente non vuole che l'attenzione si concentri sulla biblioteca.” “E perché all'assassino poteva interessare che fosse scoperto?” “Non so, faccio delle ipotesi. Chi ti dice che l'assassino abbia ucciso Venanzio perché odiava Venanzio? Potrebbe averlo ucciso, in luogo di chiunque altro, per lasciare un segno, per significare qualcosa d'altro.” “Omnis mundi creatura, quasi liber et scriptura...” mormorai. “Ma di che segno si tratterebbe?” “Questo è ciò che non so. Ma non dimentichiamo che ci sono anche segni che sembrano tali e invece sono privi di senso, come blitiri o bu-ba-baff...” “Sarebbe atroce,” dissi, “uccidere un uomo per dire bu-ba-baff!” “Sarebbe atroce,” commentò Guglielmo, “uccidere un uomo anche per dire Credo in unum Deum...” In quel momento fummo raggiunti da Severino. Il cadavere era stato lavato ed esaminato con cura. Nessuna ferita, nessuna contusione sul capo. Morto come per incanto. “Come per castigo divino?” chiese Guglielmo. “Forse,” disse Severino. “O per veleno?” Severino esitò. “Forse, anche.” “Hai veleni nel laboratorio?” chiese Guglielmo mentre ci avviavamo verso l'ospedale. “Anche. Ma dipende da cosa intendi per veleno. Ci sono sostanze che in piccole dosi sono salutari e in dosi eccessive procurano la morte. Come ogni buon erborista ne conservo, e le uso con discrezione. Nel mio orto coltivo, per esempio, la valeriana. Poche gocce in un infuso di altre erbe calmano il cuore che batte disordinatamente. Una dose esagerata provoca torpore e morte.” “E non hai notato sul cadavere i segni di un veleno particolare?” “Nessuno. Ma molti veleni non lasciano tracce.” Eravamo giunti all'ospedale. Il corpo di Venanzio, lavato nei balnea, era stato quivi trasportato e giaceva sul gran tavolo nel laboratorio di Severino: alambicchi e altri strumenti di vetro e coccio mi fecero pensare (ma ne sapevo solo per racconti indiretti) alla bottega di un alchimista. Su una lunga scaffalatura lungo il muro esterno, si stendeva una vasta serie di ampolle, brocche, vasi, pieni di sostanze di diversi colori. “Una bella collezione di semplici,” disse Guglielmo. “Tutti prodotti del vostro giardino?” “No,” disse Severino, “molte sostanze, rare e che non crescono in queste zone, mi sono state portate lungo gli anni da monaci provenienti da ogni parte del mondo. Ho anche cose preziose e introvabili, frammiste a sostanze che è facile ottenere dalla vegetazione di questi luoghi. Vedi... alghaliga pesto, proviene dal Cataio, e lo ebbi da un sapiente arabo. Aloe socoltrino, viene dalle Indie, ottimo cicatrizzante. Ariento vivo, risuscita i morti, o per meglio dire, risveglia coloro che han perso i sensi. Arsenacho: pericolosissimo, veleno mortale per chi lo ingerisce. Boracie, pianta buona per i polmoni malati. Bettonica, buona per le fratture del capo. Masticie: raffrena i flussi polmonari e i catarri molesti. Mirra...” “Quella dei magi?” chiesi. “Quella dei magi, ma qui buona per prevenire gli aborti, colta da un albero che si chiama Balsamodendron myrra. E questa è mumia, rarissima, prodotta dalla decomposizione dei cadaveri mummificati, serve a preparare molti medicamenti quasi miracolosi. Mandragola officinalis, buona per il sonno...” “E per suscitare il desiderio della carne,” commentò il mio maestro. “Dicono, ma qui non la si usa in tal senso, come potete immaginare,” sorrise Severino.”E guardate questa,” disse prendendo una ampolla, “tuzia, miracolosa per gli occhi.” “E cos'è questa?” domandò vivacemente Guglielmo toccando una pietra che giaceva su uno scaffale. “Questa? Mi è stata donata tempo fa. Credo che sia lopris amatiti o lapis ematiti. Pare abbia varie virtù terapeutiche, ma non ho ancora scoperto quali. La conosci?” “Sì,” disse Guglielmo, “ma non come medicina.” Trasse dal saio un coltellino e lo appressò lentamente alla pietra. Come il coltellino, mosso dalla sua mano con estrema delicatezza, giunse a poca distanza dalla pietra, vidi che la lama compiva un movimento brusco, come se Guglielmo avesse mosso il polso, che invece aveva fermissimo. E la lama aderì alla pietra con un lieve rumore di metallo. “Vedi,” mi disse Guglielmo, “è un magnete.” “E a che serve?” chiesi. “A varie cose, di cui ti dirò. Ma per ora vorrei sapere, Severino, se non vi è nulla qui che potrebbe uccidere un uomo.” Severino rifletté un istante, troppo direi, data la limpidità della sua risposta: “Molte cose. Ti ho detto, il limite tra il veleno e la medicina è assai lieve, i greci chiamavano entrambi pharmacon.” “E non vi è nulla che vi sia stato sottratto di recente?” Severino rifletté ancora, poi, quasi soppesando le parole: “Nulla, di recente.” “E in passato?” “Chissà. Non ricordo. Sono in questa abbazia da trent'anni e sto all'ospedale da venticinque.” “Troppo per una memoria umana,” ammise Guglielmo. Poi, di colpo: “Parlavamo ieri di piante che possono dare visioni. Quali sono?” Severino manifestò con gli atti e con l'espressione del viso il vivo desiderio di evitare quell'argomento: “Dovrei pensarci, sai ho tante sostanze miracolose qui. Ma parliamo piuttosto di Venanzio. Cosa ne dici?” “Dovrei pensarci,” rispose Guglielmo. Secondo giorno Prima Dove Bencio da Upsala confida alcune cose, altre ne confida Berengario da Arundel e Adso apprende cosa sia la vera penitenza Lo sciagurato incidente aveva sconvolto la vita della comunità. Il trambusto dovuto al ritrovamento del cadavere aveva interrotto l'ufficio sacro. L'Abate aveva subito risospinto i monaci nel coro, a pregare per l'anima del loro confratello. Le voci dei monaci erano rotte. Ci ponemmo in una situazione adatta per studiare la loro fisionomia quando, secondo la liturgia, il cappuccio non era abbassato. Vedemmo subito il volto di Berengario. Pallido, contratto, lucido di sudore. Il giorno precedente avevamo udito due mormorazioni sul suo conto, come di persona che avesse a che fare in modo particolare con Adelmo; e non era il fatto che i due, coetanei, fossero amici, ma il tono elusivo di coloro che avevano alluso a questa amicizia. Notammo accanto a lui Malachia. Scuro, accigliato, impenetrabile. Accanto a Malachia, altrettanto impenetrabile il volto del cieco Jorge. Rilevammo invece i movimenti nervosi di Bencio da Upsala, lo studioso di retorica conosciuto il giorno innanzi nello scriptorium, e sorprendemmo un rapido sguardo che costui stava lanciando in direzione di Malachia. “Bencio è nervoso, Berengario è spaventato,” osservò Guglielmo. “Occorrerà interrogarli subito.” “Perché?” chiesi ingenuamente. “Il nostro è un duro mestiere,” disse Guglielmo. “Duro mestiere quello dell'inquisitore, bisogna battere sui più deboli e nel momento della loro maggiore debolezza.” Infatti, appena finito l'ufficio, raggiungemmo Bencio che si stava dirigendo alla biblioteca. Il giovane sembrò contrariato di sentirsi chiamare da Guglielmo, e accampò qualche debole pretesto di lavoro. Pareva aver fretta di recarsi allo scriptorium. Ma il mio maestro gli ricordò che stava svolgendo un'indagine per mandato dell'Abate, e lo condusse nel chiostro. Ci sedemmo sul parapetto interno, tra due colonne. Bencio attendeva che Guglielmo parlasse, guardando a tratti verso l'Edificio. “Allora,” domandò Guglielmo, “cosa si disse quel giorno che foste a discutere dei marginalia di Adelmo, tu, Berengario, Venanzio, Malachia e Jorge?” “Lo avete udito ieri. Jorge osservava che non è lecito ornare di immagini ridicole i libri che contengono la verità. E Venanzio osservò che lo stesso Aristotele aveva parlato delle arguzie e dei giochi di parole, come strumenti per scoprire meglio la verità, e che pertanto il riso non doveva essere cosa cattiva se poteva farsi veicolo di verità. Jorge osservò che, per quanto ricordava, Aristotele aveva parlato di queste cose nel libro della Poetica e a proposito delle metafore. Che già si trattava di due circostanze inquietanti, primo perché il libro della Poetica, rimasto ignoto al mondo cristiano per tanto tempo e forse per decreto divino, ci è arrivato attraverso i mori infedeli...” “Ma è stato tradotto in latino da un amico dell'angelico dottore d'Aquino,” osservò Guglielmo. “E' quanto gli dissi io,” fece Bencio subito rinfrancato. “Io leggo male il greco e ho potuto avvicinare quel gran libro proprio attraverso la traduzione di Guglielmo di Moerbeke. Ecco, è quanto gli dissi io. Ma Jorge aggiunse che il secondo motivo di inquietudine è che ivi lo stagirita parlasse della poesia, che è infima doctrina e che vive di figmenta. E Venanzio disse che anche i salmi sono opera di poesia e usano metafore e Jorge si adirò perché disse che i salmi sono opera di ispirazione divina e usano metafore per trasmettere la verità mentre le opere dei poeti pagani usano metafore per trasmettere la menzogna e a fini di mero diletto, cosa che molto mi offese...” “Perché?” “Perché io mi occupo di retorica, e leggo molti poeti pagani e so... o meglio credo che attraverso la loro parola si siano trasmesse anche verità naturaliter cristiane... Insomma, a quel punto, se ricordo bene, Venanzio parlò di altri libri e Jorge si arrabbiò molto.” “Quali libri?” Bencio esitò: “Non ricordo. Cosa importa di quali libri si sia parlato?” “Importa molto, perché qui stiamo cercando di capire cosa sia avvenuto tra uomini che vivono tra i libri, coi libri, dei libri, e dunque anche le loro parole sui libri sono importanti.” “E' vero,” disse Bencio, sorridendo per la prima volta e quasi illuminandosi in volto. “Noi viviamo per i libri. Dolce missione in questo mondo dominato dal disordine e dalla decadenza. Forse allora capirete cosa è accaduto quel giorno. Venanzio, che sa... che sapeva molto bene il greco, disse che Aristotele aveva dedicato specialmente al riso il secondo libro della Poetica e che se un filosofo di quella grandezza aveva consacrato un intero libro al riso, il riso doveva essere una cosa importante. Jorge disse che molti padri avevano dedicato libri interi al peccato, che è una cosa importante ma cattiva, e Venanzio disse che per quello che lui sapeva Aristotele aveva parlato del riso come cosa buona e strumento di verità, e allora Jorge gli chiese con scherno se per caso lui aveva letto questo libro di Aristotele, e Venanzio disse che nessuno poteva ancora averlo letto, perché non si era mai più trovato e forse era andato perduto. E infatti nessuno ha mai potuto leggere il secondo libro della Poetica, Guglielmo di Moerbeke non lo ebbe mai tra le mani. Allora Jorge disse che se non l'aveva trovato era perché non era stato mai scritto, perché la provvidenza non voleva che fossero glorificate le cose futili. Io volevo calmare gli animi perché Jorge è facile all'ira e Venanzio parlava in modo da provocarlo, e dissi che nella parte della Poetica che conosciamo, e nella Retorica, si trovano molte osservazioni sagge sugli enigmi arguti, e Venanzio fu d'accordo con me. Ora c'era con noi Pacifico da Tivoli, che conosce assai bene i poeti pagani, e disse che quanto a enigmi arguti nessuno supera i poeti africani. Citò anzi l'enigma del pesce, quello di Sinfosio: Est domus in terris, clara quae voce resultat. Ipsa domus resonat, tacitus sed non sonat hospes. Ambo tamen currunt, hospes simul et domus una. A quel punto Jorge disse che Gesù aveva raccomandato che il nostro parlare fosse sì o no e il di più veniva dal maligno; e che bastava dire pesce per nominare il pesce, senza celarne il concetto sotto suoni menzogneri. E aggiunse che non gli pareva saggio prendere a modello gli africani... E allora...” “Allora?” “Allora accadde una cosa che non capii. Berengario si mise a ridere, Jorge lo rimproverò e lui disse che rideva perché gli era venuto in mente che a cercar bene tra gli africani si sarebbero trovati ben altri enigmi, e non facili come quello del pesce. Malachia, che era presente, divenne furibondo, prese Berengario quasi per il cappuccio mandandolo ad accudire alle sue faccende... Berengario, lo sapete, è il suo aiuto...” “E poi?” “Poi Jorge pose fine alla discussione allontanandosi. Tutti ce ne andammo per le nostre cose, ma mentre lavoravo vidi che prima Venanzio e poi Adelmo avvicinarono Berengario per chiedergli qualcosa. Vidi da lontano che si schermiva, ma essi durante il giorno tornarono entrambi da lui. E poi quella sera vidi Berengario e Adelmo confabulare nel chiostro, prima di andare in refettorio. Ecco, è tutto quello che so.” “Sai cioè che le due persone che recentemente sono morte in circostanze misteriose avevano chiesto qualcosa a Berengario,” disse Guglielmo. Bencio rispose a disagio: “Non ho detto questo! Ho detto quello che è avvenuto quel giorno e come voi mi avete chiesto...” Rifletté un poco, poi aggiunse in fretta: “Ma se volete sapere la mia opinione, Berengario ha parlato loro di qualcosa che sta in biblioteca, ed è là che dovreste cercare.” “Perché pensi alla biblioteca? Cosa voleva dire Berengario con le parole cercare tra gli africani? Non voleva dire che bisognava leggere meglio i poeti africani?” “Forse, così pareva, ma allora perché Malachia avrebbe dovuto infuriarsi? In fondo dipende da lui decidere se deve dare in lettura un libro di poeti africani, o no. Ma io so una cosa: chi sfogli il catalogo dei libri, troverà, tra le indicazioni che solo il bibliotecario conosce, una che dice sovente «Africa» e ne ho trovata persino una che diceva «finis Africae». Una volta chiesi un libro che recava quel segno, non ricordo quale, il titolo mi aveva incuriosito; e Malachia mi disse che i libri con quel segno erano andati perduti. Ecco quello che so. Per questo vi dico: è giusto, controllate Berengario, e controllatelo quando sale in biblioteca. Non si sa mai.” “Non si sa mai,” concluse Guglielmo accomiatandolo. Poi si mise a passeggiare con me nel chiostro e osservò che: anzitutto, ancora una volta, Berengario era fatto segno alle mormorazioni dei suoi confratelli; in secondo luogo Bencio pareva ansioso di spingerci verso la biblioteca. Osservai che forse voleva che noi scoprissimo laggiù cose che anche lui voleva sapere e Guglielmo disse che probabilmente era così, ma che poteva anche darsi che spingendoci verso la biblioteca volesse allontanarci da qualche altro luogo. Quale?, domandai. E Guglielmo disse che non sapeva, magari lo scriptorium, magari la cucina, o il coro, o il dormitorio, o l'ospedale. Osservai che il giorno prima era lui, Guglielmo, a essere affascinato dalla biblioteca ed egli rispose che voleva essere affascinato dalle cose che piacevano a lui e non da quelle che gli altri gli consigliavano. Che però la biblioteca andava tenuta d'occhio, e che a quel punto non sarebbe stato male neppure cercare di penetrarvi in qualche modo. Le circostanze ormai lo autorizzavano a essere curioso ai limiti della cortesia e del rispetto per gli usi e le leggi dell'abbazia. Ci stavamo allontanando dal chiostro. Servi e novizi stavano uscendo dalla chiesa dopo la messa. E mentre doppiavamo il lato occidentale del tempio scorgemmo Berengario che usciva dal portale del transetto e attraversava il cimitero verso l'Edificio. Guglielmo lo chiamò, quello si arrestò e lo raggiungemmo. Era ancora più sconvolto di quando lo avevamo visto in coro e Guglielmo decise evidentemente di approfittare, come aveva fatto con Bencio, del suo stato d'animo. “Dunque pare che tu sia stato l'ultimo a vedere Adelmo vivo,” gli disse. Berengario vacillò come stesse per cadere in deliquio: “Io?” domandò con un filo di voce. Guglielmo aveva buttato la sua domanda quasi a caso, probabilmente perché Bencio gli aveva detto di avere visto i due confabulare nel chiostro dopo vespro. Ma doveva avere colto nel segno e Berengario stava chiaramente pensando a un altro e veramente ultimo incontro, perché cominciò a parlare con voce rotta. “Come potete dire questo, io l'ho visto prima di andare a riposare come tutti gli altri!” Allora Guglielmo decise che valeva la pena di non dargli respiro: “No, tu l'hai visto ancora e sai più cose di quanto non voglia far credere. Ma qui sono in gioco ormai due morti e non puoi più tacere. Sai benissimo che vi sono molti modi per far parlare una persona!” Guglielmo mi aveva detto più volte che, anche da inquisitore, aveva sempre rifuggito dalla tortura, ma Berengario lo fraintese (o Guglielmo voleva farsi fraintendere), in ogni caso il suo gioco risultò efficace. “Sì, sì,” disse Berengario rompendo in un pianto dirotto, “io ho visto Adelmo quella sera, ma lo vidi già morto!” “Come?” interrogò Guglielmo, “ai piedi della scarpata?” “No, no, lo vidi qui nel cimitero, procedeva tra le tombe, larva tra le larve. Lo incontrai e subito mi accorsi che non avevo di fronte a me un vivo, il suo volto era quello di un cadavere, i suoi occhi guardavano già le pene eterne. Naturalmente solo il mattino dopo, apprendendo della sua morte, io capii che ne avevo incontrato il fantasma, ma già in quel momento mi resi conto che stavo avendo una visione e che davanti a me stava un'anima dannata, un lemure... Oh Signore, con quale voce di tomba mi parlò!” “E che disse?” “«Sono dannato!» così mi disse. «Tal quale mi vedi hai di fronte a te un reduce dall'inferno e all'inferno bisogna che torni.» Così mi disse. E io gli gridai: «Adelmo, vieni davvero dall'inferno? Come sono le pene dell'inferno?» E tremavo, perché da poco ero uscito dall'ufficio di compieta dove avevo udito leggere pagine tremende sull'ira del Signore. Ed egli mi disse: «Le pene dell'inferno sono infinitamente maggiori di quanto la nostra lingua possa dire. Vedi tu,» disse, «questa cappa di sofismi della quale sono stato vestito sino a oggi? Questa mi grava e pesa come avessi la maggior torre di Parigi o la montagna del mondo in su le spalle e mai la potrò più porre giù. E questa pena m'è stata data dalla divina giustizia per la mia vanagloria, per aver creduto il mio corpo un luogo di delizie, e per l'aver supposto di sapere più degli altri, e per l'essermi dilettato di cose mostruose, che vagheggiate nella mia immaginazione hanno prodotto cose ben più mostruose nell'interno dell'anima mia - e ora con esse dovrò vivere in eterno. Vedi tu? Il fodero di questa cappa è come fosse tutto bracia e fuoco ardente, ed è il fuoco che arde il mio corpo, e questa pena m'è data per il peccato disonesto della carne, della quale mi viziai, e questo fuoco ora senza sosta mi divampa e mi arde! Porgimi la tua mano, mio bel maestro,» mi disse ancora, «affinché il mio incontro ti sia di utile ammaestramento, rendendoti in cambio molti degli ammaestramenti che mi desti, porgimi la tua mano mio bel maestro!» E scosse il dito della sua mano che ardeva, e mi cadde sulla mano una piccola goccia del suo sudore e mi parve che mi forasse la mano, che per molti giorni ne portai il segno, solo che lo nascosi a tutti. Poi scomparve tra le tombe, e il mattino dopo seppi che quel corpo, che mi aveva così atterrito, stava già morto ai piedi della rocca.” Berengario ansimava, e piangeva. Guglielmo gli domandò: “E come mai ti chiamava suo bel maestro? Avevate la stessa età. Gli avevi forse insegnato qualcosa?” Berengario nascose il capo tirandosi il cappuccio sul volto, e cadde in ginocchio abbracciando le gambe di Guglielmo: “Non so, non so perché mi chiamasse così, io non gli ho insegnato nulla!” e scoppiò in singhiozzi. “Ho paura, padre, voglio confessarmi da voi, misericordia, un diavolo mi mangia le viscere!” Guglielmo lo scostò da sé e gli porse la mano per rialzarlo. “No Berengario,” gli disse, “non chiedermi di confessarti. Non chiudere le mie labbra aprendo le tue. Quello che voglio sapere di te me lo dirai in altro modo. E se non me lo dirai lo scoprirò per conto mio. Chiedimi misericordia, se vuoi, non chiedermi il silenzio. Troppi tacciono in questa abbazia. Dimmi piuttosto, come hai visto il suo volto pallido se era notte fonda, come ha potuto bruciarti la mano se era notte di pioggia e di grandine e di nevischio, cosa facevi nel cimitero? Avanti,” e lo scosse con brutalità per le spalle, “dimmi almeno questo!” Berengario tremava in tutte le sue membra: “Non so cosa facessi nel cimitero, non ricordo. Non so perché ho visto il suo volto, forse avevo una luce, no... lui aveva una luce, portava un lume, forse ho visto il suo volto alla luce della fiamma...” “Come poteva portare una luce se pioveva e nevicava?” “Era dopo compieta, subito dopo compieta, non nevicava ancora, ha cominciato dopo... Ricordo che cominciavano a scendere le prime raffiche mentre fuggivo verso il dormitorio. Fuggivo verso il dormitorio, in direzione opposta a quella nella quale andava il fantasma... E poi non so più nulla, vi prego, non interrogatemi più, se non volete confessarmi.” “Va bene,” disse Guglielmo, “ora vai, vai nel coro, vai a parlare col Signore, visto che non vuoi parlare con gli uomini, o vai a cercarti un monaco che voglia ascoltare la tua confessione, perché se da allora non confessi i tuoi peccati, ti sei avvicinato da sacrilego ai sacramenti. Vai. Ci rivedremo.” Berengario scomparve di corsa. E Guglielmo si sfregò le mani come lo avevo visto fare in molti altri casi in cui era soddisfatto di qualcosa. “Bene,” disse, “ora molte cose diventano chiare.” “Chiare, maestro?” gli domandai, “chiare ora che abbiamo anche il fantasma di Adelmo?” “Caro Adso,” disse Guglielmo, “quel fantasma mi pare pochissimo fantasma e in ogni caso recitava una pagina che ho già letto su qualche libro a uso dei predicatori. Questi monaci leggono forse troppo, e quando sono eccitati rivivono le visioni che ebbero sui libri. Non so se Adelmo abbia detto davvero quelle cose o se Berengario le abbia udite perché aveva bisogno di udirle. E' un fatto che questa storia conferma una serie di mie supposizioni. Per esempio: Adelmo è morto suicida, e la storia di Berengario ci dice che, prima di morire, girava in preda a una grande eccitazione, e rimorso per qualcosa che aveva commesso. Era eccitato e spaventato per il suo peccato perché qualcuno lo aveva spaventato, e forse gli aveva raccontato proprio l'episodio dell'apparizione infernale che egli ha recitato a Berengario con tanta e allucinata maestria. E passava dal cimitero perché veniva dal coro, dove si era confidato (o confessato) con qualcuno che gli aveva incusso terrore e rimorso. E dal cimitero si avviava, come ci ha fatto comprendere Berengario, in direzione opposta al dormitorio. Verso l'Edificio, dunque, ma anche (è possibile) verso il muro di cinta dietro gli stabbi, da dove ho dedotto debba essersi gettato nel dirupo. E si è gettato prima che sopravvenisse la tempesta, è morto ai piedi del muro, e solo dopo la frana ha portato il suo cadavere tra la torre settentrionale e quella orientale.” “Ma la goccia di sudore infuocato?” “Stava già nella storia che lui ha udito e ha ripetuto, o che Berengario si è figurata nella sua eccitazione e nel suo rimorso. Perché vi è, in antistrofe al rimorso di Adelmo, un rimorso di Berengario, lo hai sentito. E se Adelmo veniva dal coro portava forse un cero, e la goccia sulla mano dell'amico era solo una goccia di cera. Ma Berengario si è sentito bruciare molto di più perché Adelmo certamente lo ha chiamato suo maestro. Segno dunque che Adelmo lo rimproverava di avergli appreso qualcosa di cui ora egli si disperava a morte. E Berengario lo sa, egli soffre perché sa di avere spinto Adelmo alla morte facendogli fare qualcosa che non doveva. E non è difficile immaginare cosa, mio povero Adso, dopo quello che abbiamo udito sul nostro aiuto bibliotecario.” “Credo di aver capito cosa è accaduto tra i due,” dissi vergognandomi della mia sagacia, “ma non crediamo tutti in un Dio di misericordia? Adelmo, dite, si era probabilmente confessato: perché ha cercato di punire il suo primo peccato con un peccato certo più grande ancora, o almeno di pari gravità?” “Perché qualcuno gli ha detto parole di disperazione. Ho detto che qualche pagina di predicatore dei giorni nostri deve avere suggerito a qualcuno le parole che hanno spaventato Adelmo e con cui Adelmo ha spaventato Berengario. Mai come in questi ultimi anni i predicatori hanno offerto al popolo, per stimolarne la pietà e il terrore (e il fervore, e l'ossequio alla legge umana e divina), parole truculente, sconvolgenti e macabre. Mai come ai nostri giorni, in mezzo a processioni di flagellanti, si sono udite laudi sacre ispirate ai dolori di Cristo e della Vergine, mai come oggi si è insistito nello stimolare la fede dei semplici attraverso l'evocazione dei tormenti infernali.” “Forse è bisogno di penitenza,” dissi. “Adso, non ho mai udito tanti richiami alla penitenza quanto oggi, in un periodo in cui ormai né predicatori né vescovi, e neppure i miei confratelli spirituali sono più in grado di promuovere una vera penitenza...” “Ma la terza età, il papa angelico, il capitolo di Perugia...” dissi smarrito. “Nostalgie. La grande epoca della penitenza è finita, e per questo può parlare di penitenza anche il capitolo generale dell'ordine. C'è stata, cento, duecento anni fa, una grande ventata di rinnovamento. C'era quando chi ne parlava veniva bruciato, santo o eretico che fosse. Ora ne parlano tutti. In un certo senso ne discute persino il papa. Non fidarti dei rinnovamenti del genere umano quando ne parlano le curie e le corti.” “Ma fra Dolcino,” osai, curioso di sapere di più su quel nome che avevo sentito pronunciare più volte il giorno innanzi. “E' morto, e malamente come è vissuto, perché anche lui è venuto troppo tardi. E poi che ne sai tu?” “Nulla, per questo vi domando...” “Preferirei non parlarne mai. Ho avuto a che fare con alcuni dei cosiddetti apostoli, e li ho osservati da vicino. Una storia triste. Ti turberebbe. In ogni caso ha turbato me, e ancor più ti turberebbe la mia stessa incapacità di giudicare. E' la storia di un uomo che fece cose dissennate perché aveva messo in pratica ciò che gli avevano predicato molti santi. A un certo punto non ho più capito di chi fosse la colpa, sono stato come... come obnubilato da un'aria di famiglia che spirava nei due campi avversi, dei santi che predicavano la penitenza e dei peccatori che la mettevano in pratica, spesso a spese degli altri... Ma stavo parlando d'altro. O forse no, parlavo sempre di questo: finita l'epoca della penitenza, per i penitenti il bisogno di penitenza è divenuto bisogno di morte. E coloro che hanno ucciso i penitenti impazziti, restituendo morte alla morte, per sconfiggere la vera penitenza, che produceva morte, hanno sostituito alla penitenza dell'anima una penitenza dell'immaginazione, un richiamo a visioni soprannaturali di sofferenza e di sangue, chiamandole «specchio» della vera penitenza. Uno specchio che fa vivere in vita, all'immaginazione dei semplici, e talora anche dei dotti, i tormenti dell'inferno. Affinché - si dice - nessuno pecchi. Sperando di trattenere le anime dal peccato per mezzo della paura, e confidando di sostituire la paura alla ribellione.» “Ma davvero poi non peccheranno?” chiesi ansiosamente. “Dipende da cosa tu intendi per peccare, Adso,” mi disse il maestro. “Io non vorrei essere ingiusto con la gente di questo paese in cui vivo da alcuni anni, ma mi sembra che sia tipico della poca virtù delle popolazioni italiane non peccare per paura di qualche idolo, per quanto lo chiamino col nome di un santo. Hanno più paura di san Sebastiano o sant'Antonio che di Cristo. Se uno vuol conservare pulito un posto, qui, perché non ci si pisci, come fanno gli italiani alla maniera dei cani, ci dipingi sopra un'immagine di sant'Antonio con la punta di legno, e questa scaccerà quelli che stan per pisciare. Così gli italiani, e per opera dei loro predicatori, rischiano di tornare alle antiche superstizioni e non credono più alla resurrezione della carne, hanno solo una gran paura delle ferite corporali e delle disgrazie, e perciò han più paura di sant'Antonio che di Cristo.” “Ma Berengario non è italiano,” osservai. “Non importa, sto parlando del clima che la chiesa e gli ordini predicatori han diffuso su questa penisola, e che da qui si diffonde per ogni dove. E raggiunge anche una venerabile abbazia di monaci dotti, come questi.” “Ma almeno non peccassero,” insistei, perché ero disposto ad accontentarmi anche solo di questo. “Se questa abbazia fosse uno speculum mundi, avresti già la risposta.” “Ma lo è?” chiesi. “Perché vi sia specchio del mondo occorre che il mondo abbia una forma,” concluse Guglielmo, che era troppo filosofo per la mia mente adolescente. Secondo giorno Terza Dove si assiste a una rissa tra persone volgari, Aymaro da Alessandria fa alcune allusioni e Adso medita sulla santità e sullo sterco del demonio. Poi Guglielmo e Adso tornano nello scriptorium, Guglielmo vede qualcosa d'interessante, ha una terza conversazione sulla liceità del riso, ma in definitiva non può guardare dove vorrebbe. Prima di salire allo scriptorium passammo in cucina a rifocillarci, perché non avevamo preso ancora nulla da quando ci eravamo levati. Mi rinfrancai subito prendendo una scodella di latte caldo. Il gran camino meridionale già ardeva come una fucina, mentre nel forno si stava preparando il pane del giorno. Due caprai stavano deponendo le spoglie di una pecora appena uccisa. Vidi tra i cucinieri Salvatore, che mi sorrise con la sua bocca di lupo. E vidi che prendeva da un tavolo un avanzo del pollo della sera prima e lo passava di nascosto ai caprai, che lo nascondevano nelle loro giubbe di pelle ghignando soddisfatti. Ma il capo cuciniere se ne accorse e rimproverò Salvatore: “Cellario, cellario,” disse, “tu devi amministrare i beni dell'abbazia, non dissiparli!” “Filii Dei, sono,” disse Salvatore, “Gesù ha detto che facite per lui quello che facite a uno di questi pueri!” “Fraticello delle mie brache, scoreggione di un minorita!” gli gridò allora il cuciniere. “Non sei più tra i tuoi pitocchi di frati! A dare ai figli di Dio ci penserà la misericordia dell'Abate!” Salvatore si oscurò in viso e si voltò adiratissimo: “Non sono un fraticello minorita! Sono un monaco Sancti Benedicti! Merdre à toy, bogomilo di merda!” “Bogomila la baldracca che t'inculi la notte, con la tua verga eretica, maiale!” gridò il cuciniere. Salvatore fece uscire in fretta i caprai e passandoci vicino ci guardò con preoccupazione: “Frate,” disse a Guglielmo, “difendi tu il tuo ordine che non è il mio, digli che i filios Francisci non ereticos esse!” Poi mi sussurrò in un orecchio: “Ille menteur, puah,” e sputò per terra. Il cuciniere venne a spingerlo fuori in malo modo e gli rinchiuse la porta alle spalle. “Frate,” disse a Guglielmo con rispetto, “non parlavo male del vostro ordine e degli uomini santissimi che vi stanno. Parlavo a quel falso minorita e falso benedettino che non è né carne né pesce.” “So da dove viene,” disse Guglielmo conciliante. “Ma ora è monaco come te e gli devi rispetto fraterno.” “Ma lui mette il naso dove non deve metterlo perché è protetto dal cellario, e si crede lui il cellario. Usa dell'abbazia come fosse cosa sua, di giorno e di notte!” “Perché di notte?” chiese Guglielmo. Il cuciniere fece un gesto come per dire che non voleva parlare di cose poco virtuose. Guglielmo non gli chiese altro e terminò di bere il suo latte. La mia curiosità si stava eccitando sempre di più. L'incontro con Ubertino, le mormorazioni sul passato di Salvatore e del cellario, le allusioni sempre più frequenti ai fraticelli e ai minoriti eretici che udivo fare in quei giorni, la reticenza del maestro nel parlarmi di fra Dolcino... Una serie di immagini cominciava a ricomporsi nella mia mente. Per esempio, mentre compivamo il nostro viaggio avevamo incontrato almeno due volte una processione di flagellanti. Una volta la popolazione del luogo li guardava come santi, un'altra volta cominciava a mormorare che fossero eretici. Eppure si trattava sempre della stessa gente. Andavano in processione a due per due, per le strade della città, coperti solo alle pudenda, avendo superato ogni senso di vergogna. Ciascuno aveva in mano un flagello di cuoio e si colpivano sulle spalle, a sangue, versando abbondanti lacrime come se vedessero coi loro occhi la passione del Salvatore, imploravano con un canto lamentoso la misericordia del Signore e l'aiuto della Madre di Dio. Non solo di giorno, ma anche la notte, con i ceri accesi, nel rigore dell'inverno, in gran folla andavano intorno per le chiese, si prosternavano umilmente davanti agli altari, preceduti da sacerdoti con ceri e vessilli, e non solo uomini e donne del popolo, ma anche nobili matrone, e mercanti... E allora si assisteva a grandi atti di penitenza, coloro che avevano rubato restituivano il maltolto, altri confessavano i loro crimini... Ma Guglielmo li aveva guardati con freddezza e mi aveva detto che quella non era vera penitenza. Aveva piuttosto parlato come già poco fa quella stessa mattina: il periodo del grande lavacro penitenziale era finito, e quelli erano i modi in cui i predicatori stessi organizzavano la devozione delle folle, proprio perché non cadessero pena di un altro desiderio di penitenza che - quello - era eretico, e faceva paura a tutti. Ma non riuscivo a capire la differenza, se pure ve n'era. Mi pareva che la differenza non venisse dai gesti dell'uno o dell'altro, ma dallo sguardo con cui la chiesa giudicava l'uno e l'altro gesto. Mi ricordavo della discussione con Ubertino. Guglielmo era stato indubbiamente insinuante, aveva cercato di dirgli che c'era poca differenza tra la sua fede mistica (e ortodossa) e la fede distorta degli eretici. Ubertino se ne era adontato, come chi vedesse bene la differenza. L'impressione che ne avevo tratto era che lui fosse diverso proprio perché era colui che sapeva vedere la diversità. Guglielmo si era sottratto ai doveri della inquisizione perché non sapeva più vederla. Per questo non riusciva a parlarmi di quel misterioso fra Dolcino. Ma allora, evidentemente (mi dicevo) Guglielmo ha perduto l'assistenza del Signore, che non solo insegna a vedere la differenza, ma per così dire investe i suoi eletti di questa capacità di discrezione. Ubertino e Chiara da Montefalco (che pure era attorniata di peccatori) erano rimasti santi proprio perché sapevano discriminare. Questo e non altro è la santità. Ma perché Guglielmo non sapeva discriminare? Pure era un uomo così acuto, e per quanto riguardava i fatti di natura sapeva scorgere la minima disuguaglianza e la minima parentela tra le cose... Ero immerso in questi pensieri, e Guglielmo terminava di bere il suo latte, quando ci udimmo salutare. Era Aymaro da Alessandria, che avevamo già conosciuto nello scriptorium, e di cui mi aveva colpito l'espressione del viso, ispirata a un perpetuo sogghigno, come se non riuscisse mai a capacitarsi della fatuità di tutti gli esseri umani, e tuttavia non attribuisse grande importanza a questa tragedia cosmica. “Allora, frate Guglielmo, vi siete già abituato a questa spelonca di dementi?” “Mi pare un luogo di uomini ammirevoli per santità e dottrina,” disse cautamente Guglielmo. “Lo era. Quando gli abati facevano gli abati e i bibliotecari i bibliotecari. Ora l'avete visto, lassù,” e accennava al piano superiore, “quel tedesco mezzo morto con gli occhi da cieco sta a sentire devotamente i vaneggiamenti di quello spagnolo cieco con gli occhi da morto, sembra che debba arrivare l'Anticristo ogni mattina, si grattano le pergamene, ma di libri nuovi ne entrano pochissimi... Noi siamo qua, e laggiù nelle città si agisce... Una volta dalle nostre abbazie si governava il mondo. Oggi lo vedete, l'imperatore ci usa per inviare qui i suoi amici a incontrare i suoi nemici (so qualcosa della vostra missione, i monaci parlano, parlano, non hanno altro da fare), ma se vuole controllare le cose di questo paese sta nelle città. Noi stiamo a raccogliere grano e ad allevar pollame, e laggiù scambiano braccia di seta con pezze di lino, e pezze di lino con sacchi di spezie, e tutto insieme con danaro buono. Noi custodiamo il nostro tesoro, ma laggiù si accumulano tesori. E anche libri. E più belli dei nostri.” “Nel mondo accadono certo molte cose nuove. Ma perché pensate che la colpa sia dell'Abate?” “Perché ha dato la biblioteca in mano agli stranieri e conduce l'abbazia come una cittadella eretta in difesa della biblioteca. Un'abbazia benedettina in questa plaga italiana dovrebbe essere un luogo dove degli italiani decidono per cose italiane. Cosa fanno gli italiani, oggi che non hanno neppure più un papa? Commerciano, e fabbricano, e sono più ricchi del re di Francia. E allora, facciamo così anche noi, se sappiamo far bei libri fabbrichiamone per le università, e occupiamoci di quanto avviene giù a valle, non dico dell'imperatore, con tutto il rispetto per la vostra missione, frate Guglielmo, ma di quel che fanno i bolognesi o i fiorentini. Potremmo controllare di qui il passaggio dei pellegrini e dei mercanti, che vanno dall'Italia alla Provenza e viceversa. Apriamo la biblioteca ai testi in volgare, e saliranno quassù anche coloro che non scrivono più in latino. E invece siamo controllati da un gruppo di stranieri che continuano a condurre la biblioteca come se a Cluny fosse ancora abate il buon Odillone...” “Ma l'Abate è italiano,” disse Guglielmo. “L'Abate qui non conta nulla,” disse sempre sogghignando Aymaro. “Al posto della testa ha un armadio della biblioteca. E' tarlato. Per far dispetto al papa lascia che l'abbazia sia invasa di fraticelli... dico quelli eretici, frate, i transfughi del vostro ordine santissimo... e per far cosa grata all'imperatore chiama qui monaci da tutti i monasteri del nord, come se da noi non avessimo bravi copisti, e uomini che sanno il greco e l'arabo, e non ci fossero a Firenze o a Pisa figli di mercanti, ricchi e generosi, che entrerebbero volentieri nell'ordine, se l'ordine offrisse la possibilità d'incrementare la potenza e il prestigio del padre. Ma qui, l'indulgenza alle cose del secolo la si riconosce solo quando si tratta di permettere ai tedeschi di... oh buon Signore fulminate la mia lingua ché sto per dire cose poco convenienti!” “Nell'abbazia avvengono cose poco convenienti?” domandò distrattamente Guglielmo, versandosi ancora un poco di latte. “Anche il monaco è un uomo,” sentenziò Aymaro. Poi aggiunse: “Ma qui sono meno uomini che altrove. E quello che ho detto, sia chiaro che non l'ho detto.” “Molto interessante,” disse Guglielmo. “E queste sono opinioni vostre o di molti che pensano come voi?” “Di molti, di molti. Di molti che adesso si dolgono per la sventura del povero Adelmo, ma se nel precipizio fosse caduto qualcun altro, che gira per la biblioteca più di quanto dovrebbe, non sarebbero stati scontenti.” “Cosa intendete dire?” “Ho parlato troppo. Qui parliamo troppo, ve ne sarete già accorto. Qui il silenzio non lo rispetta più nessuno, da un lato. Dall'altro lo si rispetta troppo. Qui invece di parlare o di tacere si dovrebbe agire. Ai tempi d'oro del nostro ordine, se un abate non aveva una tempra da abate, una bella coppa di vino attoscato, ed ecco aperta la successione. Vi ho detto queste cose, s'intende frate Guglielmo, non per mormorare nei confronti dell'Abate o di altri confratelli. Dio me ne guardi, per fortuna non ho il brutto vizio della mormorazione. Ma non vorrei che l'Abate vi avesse pregato di investigare su di me o su qualcun altro come Pacifico da Tivoli o Pietro da Sant'Albano. Noi con le storie della biblioteca non c'entriamo. Ma vorremmo entrarci un poco di più. E allora scoperchiate questo nido di serpenti, voi che avete bruciato tanti eretici.” “Io non ho mai bruciato nessuno,” rispose seccamente Guglielmo. “Dicevo così per dire,” ammise Aymaro con un gran sorriso. “Buona caccia, frate Guglielmo, ma fate attenzione di notte.” “Perché non di giorno?” “Perché di giorno qui si cura il corpo con le erbe buone e di notte si ammala la mente con le erbe cattive. Non crediate che Adelmo sia stato precipitato nell'abisso dalle mani di qualcuno o che le mani di qualcuno abbiano messo Venanzio nel sangue. Qui qualcuno non vuole che i monaci decidano da soli dove andare, cosa fare e cosa leggere. E si usano le forze dell'inferno, o dei negromanti amici dell'inferno, per sconvolgere le menti dei curiosi...” “Parlate del padre erborista?” “Severino da Sant'Emmerano è una brava persona. Naturalmente, tedesco lui, tedesco Malachia...” E dopo aver dimostrato ancora una volta di non essere disposto alla mormorazione, Aymaro salì a lavorare. “Cosa avrà voluto dirci?” chiesi. “Tutto e nulla. Una abbazia è sempre un luogo dove i monaci sono in lotta tra loro per assicurarsi il governo della comunità. Anche a Melk, ma forse come novizio non avrai avuto modo di rendertene conto. Ma nel tuo paese conquistare il governo di una abbazia significa conquistarsi un luogo da cui si tratta direttamente coll'imperatore. In questo paese invece la situazione è diversa, l'imperatore è lontano, anche quando scende sino a Roma. Non c'è una corte, neppure quella papale, ormai. Ci sono le città, te ne sarai accorto.” “Certo, e ne sono stato colpito. La città in Italia è una cosa diversa che dalle mie parti... Non è solo un luogo per abitare: è un luogo per decidere, sono sempre tutti in piazza, contano più i magistrati cittadini che l'imperatore o il papa. Sono... come tanti regni...” “E i re sono i mercanti. E la loro arma è il danaro. Il danaro ha una funzione, in Italia, diversa che nel tuo paese, o nel mio. Dappertutto circola danaro, ma gran parte della vita è ancora dominata e regolata dallo scambio di beni, polli o covoni di grano, o un falcetto, o un carro, e il danaro serve a procurarsi questi beni. Avrai notato che nella città italiana, invece, i beni servono a procurarsi danaro. E anche i preti, e i vescovi, e persino gli ordini religiosi, devono fare i conti col danaro. E' per questo, naturalmente, che la ribellione al potere si manifesta come richiamo alla povertà, e si ribellano al potere coloro che sono esclusi dal rapporto col danaro, e ogni richiamo alla povertà suscita tanta tensione e tanti dibattiti, e la città intera, dal vescovo al magistrato, sente come proprio nemico chi predica troppo la povertà. Gli inquisitori sentono puzza di demonio dove qualcuno ha reagito alla puzza dello sterco del demonio. E allora capirai anche a cosa sta pensando Aymaro. Un'abbazia benedettina, ai tempi aurei dell'ordine, era il luogo da cui i pastori controllavano il gregge dei fedeli. Aymaro vuole che si torni alla tradizione. Solo che la vita del gregge è cambiata, e l'abbazia può tornare alla tradizione (alla sua gloria, al suo potere di un tempo) solo se accetta il nuovo costume del gregge, diventando diversa. E siccome oggi qui si domina il gregge non con le armi o con lo splendore dei riti, ma con il controllo del danaro, Aymaro vuole che la fabbrica tutta dell'abbazia, e la stessa biblioteca, diventino opificio, e fabbrica di danaro.” “E cosa c'entra questo coi delitti, o col delitto?” “Non lo so ancora. Ma ora vorrei salire. Vieni.” I monaci erano già al lavoro. Nello scriptorium regnava il silenzio ma non era quel silenzio che consegue alla pace operosa dei cuori. Berengario, che ci aveva preceduto di poco, ci accolse con imbarazzo. Gli altri monaci levarono il capo dal loro lavoro. Sapevano che eravamo lì per scoprire qualcosa intorno a Venanzio, e la direzione stessa dei loro sguardi fissò la nostra attenzione su un posto vuoto, sotto una finestra che si apriva all'interno sull'ottagono centrale. Benché la giornata fosse molto fredda la temperatura nello scriptorium era abbastanza mite. Non a caso era stato disposto sopra le cucine da cui proveniva abbastanza calore, anche perché le canne fumarie dei due forni sottostanti passavano dentro i pilastri che sostenevano le due scale a chiocciola poste nei torrioni occidentale e meridionale. Quanto al torrione settentrionale, dalla parte opposta della grande sala, non aveva scala, ma un grande camino che ardeva diffondendo un lieto tepore. Inoltre il pavimento era stato ricoperto di paglia, che rendeva i nostri passi silenziosi. Insomma, l'angolo meno riscaldato era quello del torrione orientale e infatti notai che, poiché rimanevano posti liberi rispetto al numero di monaci al lavoro, tutti tendevano a evitare i tavoli collocati in quella direzione. Quando più tardi mi resi conto che la scala a chiocciola del torrione orientale era l'unica che conduceva, oltre che in basso al refettorio, anche in alto alla biblioteca, mi domandai se un calcolo sapiente non avesse regolato il riscaldamento della sala, in modo che i monaci fossero distolti dal curiosare da quella parte e fosse più facile al bibliotecario controllare l'accesso alla biblioteca. Ma forse esageravo nei miei sospetti, diventando povera scimmia del mio maestro, perché subito pensai che questo calcolo non avrebbe dato gran frutto d'estate - a meno (mi dissi) che d'estate quello non fosse stato proprio il lato più assolato e quindi ancora una volta il più evitato. Il tavolo del povero Venanzio dava di spalle al grande camino, ed era probabilmente uno dei più ambiti. Avevo allora passato piccola parte della mia vita in uno scriptorium, ma molta ne passai in seguito e so quanta sofferenza costi allo scriba, al rubricatore e allo studioso trascorrere al proprio tavolo le lunghe ore invernali, con le dita che si rattrappiscono sullo stilo (quando già con una temperatura normale, dopo sei ore di scrittura, prende alle dita il terribile crampo del monaco e il pollice duole come se fosse stato pestato). E questo spiega perché sovente troviamo in margine ai manoscritti frasi lasciate dallo scriba come testimonianza di sofferenza (e di insofferenza) quali “Grazie a Dio presto si fa buio”, oppure “Oh, avessi un bel bicchiere di vino!”, o ancora “Oggi fa freddo, la luce è tenue, questo vello è peloso, qualcosa non va”. Come dice un antico proverbio, tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora. Ma dicevo del tavolo di Venanzio. Più piccolo di altri, come del resto quelli posti intorno al cortile ottagonale, destinati a studiosi, mentre più ampi erano quelli sotto alle finestre delle pareti esterne, destinati a miniatori e copisti. Peraltro anche Venanzio lavorava con un leggio, perché probabilmente consultava manoscritti in prestito all'abbazia, di cui si faceva copia. Sotto al tavolo era disposta una scaffalatura bassa, dove erano ammucchiati fogli non rilegati, e poiché erano tutti in latino ne dedussi che erano le sue traduzioni più recenti. Erano scritti in modo affrettato, non costituivano pagine di libro e avrebbero dovuto essere affidati poi a un copista e a un miniatore. Per questo erano difficilmente leggibili. Tra i fogli, qualche libro, in greco. Un altro libro greco era aperto sul leggìo, l'opera su cui Venanzio stava compiendo nei giorni scorsi il suo lavoro di traduttore. Io allora non conoscevo ancora il greco, ma il mio maestro disse che era di un tale Luciano e narrava di un uomo trasformato in asino. Ricordai allora una favola analoga di Apuleio, che ai novizi era di solito severamente sconsigliata. “Come mai Venanzio faceva questa traduzione?” chiese Guglielmo a Berengario che ci stava accanto. “E' stata chiesta all'abbazia dal signore di Milano e l'abbazia ne ricaverà un diritto di prelazione sulla produzione di vino di alcuni poderi che stanno a oriente,” Berengario indicò con la mano lontano. Ma subito aggiunse: “Non è che l'abbazia si presti a lavori venali per i laici. Ma il committente si è adoperato affinché questo prezioso manoscritto greco ci fosse dato in prestito dal doge di Venezia che lo ebbe dall'imperatore di Bisanzio, e quando Venanzio avesse terminato il suo lavoro ne avremmo fatto due copie, una per il committente e una per la nostra biblioteca.” “Che quindi non disdegna raccogliere anche favole pagane,” disse Guglielmo. “La biblioteca è testimonianza della verità e dell'errore,” disse allora una voce alle nostre spalle. Era Jorge. Ancora una volta mi stupii (ma molto avrei dovuto stupirmi ancora nei giorni seguenti) per il modo inopinato in cui quel vecchio appariva d'improvviso, come se noi non vedessimo lui e lui vedesse noi. Mi chiesi anche cosa mai facesse un cieco nello scriptorium, ma mi resi conto in seguito che Jorge era onnipresente in tutti i luoghi dell'abbazia. E sovente stava nello scriptorium, seduto su uno scranno presso al camino, e pareva seguisse tutto quello che avveniva nella sala. Una volta lo udii dal suo posto domandare ad alta voce: “Chi sale?” e si rivolgeva a Malachia che, i passi attutiti dalla paglia, stava avviandosi alla biblioteca. I monaci tutti lo avevano in grande stima e si rivolgevano sovente a lui leggendogli brani di difficile comprensione, consultandolo per uno scolio o chiedendogli lumi sul come rappresentare un animale o un santo. Ed egli guardava nel vuoto coi suoi occhi spenti, come fissasse pagine che aveva vivide nella memoria e rispondeva che i falsi profeti sono abbigliati come vescovi e le rane escono loro dalla bocca, o quali erano le pietre che dovevano adornare le mura della Gerusalemme celeste, o che gli arimaspi van rappresentati nelle mappe presso alla terra del prete Gianni - raccomandando di non eccedere nel farli seducenti nella loro mostruosità, ché bastava fossero rappresentati in modo di emblema, riconoscibili ma non concupiscibili, o repellenti sino al riso. Una volta lo udii consigliare uno scoliaste su come interpretare la recapitulatio nei testi di Ticonio giusta la mente di santo Agostino, acché si evitasse l'eresia donatista. Un'altra volta lo udii dar consigli sul come, commentando, distinguere gli eretici dagli scismatici. O ancora, a uno studioso perplesso, dire quale libro avrebbe dovuto cercare nel catalogo della biblioteca, e pressappoco in quale foglio ne avrebbe trovato menzione, assicurandogli che il bibliotecario glielo avrebbe certo consegnato, perché si trattava di opera ispirata da Dio. Infine un'altra volta lo udii dire che un tale libro non andava ricercato, perché esisteva, è vero, nel catalogo, ma era stato rovinato dai topi cinquant'anni prima, e si polverizzava sotto le dita di chi ormai lo toccasse. Egli era insomma la memoria stessa della biblioteca e l'anima dello scriptorium. Talora ammoniva i monaci che udiva chiacchierare tra loro: “Affrettatevi a lasciare testimonianza della verità, ché i tempi sono vicini!” e alludeva alla venuta dell'Anticristo. “La biblioteca è testimonianza della verità e dell'errore,” disse dunque Jorge. “Certo, Apuleio e Luciano erano colpevoli di molti errori,” disse Guglielmo.”Ma questa favola contiene sotto il velame delle proprie finzioni anche una buona morale, perché insegna quanto si paghino i propri errori e inoltre credo che la storia dell'uomo trasformato in asino alluda alla metamorfosi dell'anima che cade nel peccato.” “Può darsi,” disse Jorge. “Però adesso capisco perché Venanzio durante quella conversazione di cui mi disse ieri fosse così interessato ai problemi della commedia; infatti anche le favole di questo tipo possono essere assimilate alle commedie degli antichi. Entrambe non narrano di uomini che esistettero veramente, come le tragedie ma, dice Isidoro, sono finzioni: «fabulae poetae a fando nominaverunt quia non sunt res factae sed tantum loquendo fictae»...” A tutta prima non capii perché Guglielmo si fosse inoltrato in quella dotta discussione e proprio con un uomo che pareva non amare simili argomenti, ma la risposta di Jorge mi disse quanto il mio maestro fosse stato sottile. “Quel giorno non si discuteva di commedie, ma solo della liceità del riso,” disse accigliato Jorge. E io mi ricordavo benissimo che quando Venanzio aveva accennato a quella discussione, proprio il giorno prima, Jorge aveva asserito di non ricordarsene. “Ah,” disse con noncuranza Guglielmo, “credevo aveste parlato delle menzogne dei poeti e degli enigmi arguti...” “Si parlava del riso,” disse seccamente Jorge. “Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù Nostro Signore non raccontò mai commedie né favole, ma solo limpide parabole che allegoricamente ci istruiscono su come guadagnarci il paradiso, e così sia.” “Mi chiedo,” disse Guglielmo, “perché siate tanto contrario a pensare che Gesù abbia mai riso. Io credo che il riso sia una buona medicina, come i bagni, per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia.” “I bagni sono cosa buona,” disse Jorge, “e lo stesso Aquinate li consiglia per rimuovere la tristezza, che può essere passione cattiva quando non si rivolga a un male che possa essere rimosso attraverso l'audacia. I bagni restituiscono l'equilibrio degli umori. Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l'uomo simile alla scimmia.” “Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell'uomo, è segno della sua razionalità,” disse Guglielmo. “E' segno della razionalità umana anche la parola e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell'uomo è necessariamente buono. Il riso è segno di stoltezza. Chi ride non crede in ciò di cui si ride, ma neppure lo odia. E dunque ridere del male significa non disporsi a combatterlo e ridere del bene significa disconoscere la forza per cui il bene è diffusivo di sé. Per questo la Regola dice: «decimus humilitatis gradus est si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: stultus in risu exaltat vocem suam.»” “Quintiliano,” interruppe il mio maestro, “dice che il riso è da reprimere nel panegirico, per dignità, ma è da incoraggiare in molti altri casi. Tacito loda l'ironia di Calpurnio Pisone, Plinio il giovane scrisse: «aliquando praeterea rideo, jocor, ludo, homo sum.»” “Erano pagani,” replicò Jorge. “La Regola dice: «scurrilitates vero vel verba otiosa et risum moventia aeterna clausura in omnibus locis damnamus, et ad talia eloquia discipulum aperire os non permittitur.»” “Però quando già il verbo di Cristo aveva trionfato sulla terra, Sinesio di Cirene dice che la divinità ha saputo combinare armoniosamente comico e tragico, ed Elio Spaziano dice dell'imperatore Adriano, uomo di elevati costumi e di animo naturaliter cristiano, che seppe mescolare momenti di gaiezza a momenti di gravità. E infine Ausonio raccomanda di dosare con moderazione il serio e il giocoso.” “Ma Paolino da Nola e Clemente di Alessandria ci misero in guardia contro queste stoltezze, e Sulpicio Severo dice che san Martino non fu mai visto da alcuno né in preda all'ira né in preda all'ilarità.” “Però ricorda del santo alcune risposte spiritualiter salsa,” disse Guglielmo. “Erano pronte e sapienti, non ridicole. San Ephraim ha scritto una parenesi contro il riso dei monaci, e nel De habitu et conversatione monachorum si raccomanda di evitare oscenità e lepidezze come fossero il veleno degli aspidi!” “Ma Ildeberto disse: «admittendo tibi joca sunt post seria quaedam, sed tamen et dignis et ipsa gerenda modis.» E Giovanni di Salisbury ha autorizzato una modesta ilarità. E infine l'Ecclesiaste, di cui avete citato il passo a cui si riferisce la vostra Regola, dove si dice che il riso è proprio dello stolto, ammette almeno un riso silenzioso, dell'animo sereno.” “L'animo è sereno solo quando contempla la verità e si diletta del bene compiuto, e della verità e del bene non si ride. Ecco perché Cristo non rideva. Il riso è fomite di dubbio.” “Ma talora è giusto dubitare.” “Non ne vedo la ragione. Quando si dubita occorre rivolgersi a un'autorità, alle parole di un padre o di un dottore, e cessa ogni ragione di dubbio. Mi sembrate imbevuto di dottrine discutibili, come quelle dei logici di Parigi. Ma san Bernardo seppe bene intervenire contro il castrato Abelardo che voleva sottomettere tutti i problemi al vaglio freddo e senza vita di una ragione non illuminata dalle scritture, pronunciando il suo è così e non è così. Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche apprezzare il gioco dell'insipiente che ride di ciò di cui solo si deve sapere l'unica verità, che è già stata detta una volta per tutte. Così ridendo l'insipiente dice implicitamente «Deus non est».” “Venerabile Jorge, mi sembrate ingiusto quando trattate da castrato Abelardo, perché sapete che incorse in tale triste condizione per la nequizia altrui...” “Per i suoi peccati. Per l'albagia della sua fiducia nella ragione dell'uomo. Così la fede dei semplici venne irrisa, i misteri di Dio furono sviscerati (o si tentò, stolti coloro che lo tentarono), questioni che riguardavano le cose altissime vennero trattate temerariamente, si irrise ai padri perché avevano ritenuto che tali questioni andavano piuttosto sopite che sciolte.” “Non sono d'accordo, venerabile Jorge. Dio vuole da noi che esercitiamo la nostra ragione su molte cose oscure su cui la scrittura ci ha lasciato liberi di decidere. E quando qualcuno vi propone di credere a una proposizione voi dovete prima esaminare se essa è accettabile, perché la nostra ragione è stata creata da Dio, e ciò che piace alla nostra ragione non può non piacere alla ragione divina, sulla quale peraltro sappiamo solo quello che, per analogia e spesso per negazione, ne inferiamo dai procedimenti della nostra ragione. E allora vedete che talora, per minare la falsa autorità di una proposizione assurda che ripugna alla ragione, anche il riso può essere uno strumento giusto. Spesso il riso serve anche a confondere i malvagi e far rifulgere la loro stoltezza. Si racconta di san Mauro che i pagani lo posero nell'acqua bollente ed egli si lamentò che il bagno fosse troppo freddo; il governatore pagano mise stoltamente la mano nell'acqua per controllare, e si ustionò. Bella azione di quel santo martire che ridicolizzò i nemici della fede.” Jorge sogghignò: “Anche negli episodi che raccontano i predicatori si trovano molte fole. Un santo immerso nell'acqua bollente soffre per Cristo e trattiene le sue grida, non gioca tiri da bambini ai pagani!” “Vedete?” disse Guglielmo, “questa storia vi pare ripugnare alla ragione e l'accusate di essere ridicola! Sia pure tacitamente e controllando le vostre labbra, voi state ridendo di qualcosa e volete che anch'io non la prenda sul serio. Ridete del riso, ma ridete.” Jorge ebbe un gesto di fastidio: “Giocando sul riso mi trascinate in discorsi vani. Ma voi sapete che Cristo non rideva.” “Non ne sono sicuro. Quando invita i farisei a gettare la prima pietra, quando chiede di chi sia l'effige sulla moneta da pagare in tributo, quando gioca con le parole e dice «Tu es petrus», io credo che egli dicesse cose argute, per confondere i peccatori, per sostenere l'animo dei suoi. Parla con arguzia anche quando dice a Caifa: «Tu l'hai detto.» E Gerolamo quando commenta Geremia, dove Dio dice a Gerusalemme «nudavi femora contra faciem tuam», spiega: «sive nudabo et relevabo femora et posteriora tua.» Persino Dio dunque si esprime per arguzie per confondere coloro che vuol punire. E sapete benissimo che nel momento più acceso della lotta tra cluniacensi e cistercensi i primi accusarono i secondi, per renderli ridicoli, di non portar brache. E nello Speculum Stultorum si racconta dell'asino Brunello che si chiede cosa accadrebbe se di notte il vento sollevasse le coperte e il monaco si vedesse le pudenda...” I monaci intorno risero e Jorge si infuriò: “Mi state trascinando questi confratelli in una festa dei folli. Lo so che è uso tra i francescani accattivarsi le simpatie del popolo con stoltezze di questo genere, ma di questi ludi vi dirò quello che dice un verso che udii da uno dei vostri predicatori: tum podex carmen extulit horridulum.” La reprimenda era un po' troppo forte, Guglielmo era stato impertinente, ma ora Jorge lo accusava di emettere peti dalla bocca. Mi chiesi se questa risposta severa non doveva significare un invito, da parte del monaco anziano, a uscire dallo scriptorium. Ma vidi Guglielmo, così combattivo poco prima, farsi mansuetissimo. “Vi chiedo perdono, venerabile Jorge,” disse. “La mia bocca ha tradito i miei pensieri, non volevo mancarvi di rispetto. Forse quello che dite è giusto, e io mi sbagliavo.” Jorge, di fronte a quest'atto di squisita umiltà, emise un grugnito che poteva esprimere sia soddisfazione che perdono, e non poté far altro che tornare al suo posto, mentre i monaci, che durante la discussione si erano via via avvicinati, rifluivano ai loro tavoli da lavoro. Guglielmo si inginocchiò di nuovo davanti al tavolo di Venanzio e riprese a frugare tra le carte. Con la sua risposta umilissima Guglielmo si era guadagnato alcuni secondi di tranquillità. E quello che vide in quei pochi secondi ispirò le sue ricerche della notte che doveva venire. Furono però davvero pochi secondi. Bencio si avvicinò subito fingendo di aver dimenticato il suo stilo sul tavolo quando si era avvicinato a sentire la conversazione con Jorge, e sussurrò a Guglielmo che aveva urgenza di parlargli, dandogli convegno dietro i balnea. Gli disse di allontanarsi per primo, che egli lo avrebbe raggiunto entro breve. Guglielmo esitò qualche istante, poi chiamò Malachia, che dal suo tavolo di bibliotecario, presso al catalogo, aveva seguito tutto quanto era avvenuto e lo pregò, in virtù del mandato ricevuto dall'Abate (e calcò molto su questo suo privilegio) di porre qualcuno a guardia del tavolo di Venanzio, perché reputava utile alla sua inchiesta che nessuno vi si avvicinasse durante tutto il giorno, sino a che egli non avesse potuto tornare. Lo disse ad alta voce, perché in tal senso impegnava non solo Malachia a sorvegliare i monaci ma i monaci stessi a sorvegliare Malachia. Il bibliotecario non poté che acconsentire e Guglielmo si allontanò con me. Mentre attraversavamo l'orto e ci portavamo presso i balnea, che erano a ridosso della costruzione dell'ospedale, Guglielmo osservò: “Pare che a molti dispiaccia che io metta le mani su qualcosa che sta sopra o sotto il tavolo di Venanzio.” “E cosa sarà?” “Ho l'impressione che non lo sappiano neppure quelli a cui dispiace.” “Dunque Bencio non ha nulla da dirci e ci sta solo attirando lontano dallo scriptorium?” “Questo lo sapremo subito,” disse Guglielmo. Infatti dopo poco Bencio ci raggiunse. Secondo giorno Sesta Dove Bencio fa uno strano racconto da cui si apprendono cose poco edificanti sulla vita dell'abbazia Quello che Bencio ci disse fu alquanto confuso. Sembrava veramente che egli ci avesse attirato laggiù solo per allontanarci dallo scriptorium, ma pareva anche che, incapace di inventare un pretesto attendibile, egli ci dicesse anche frammenti di una verità più vasta che egli conosceva. Egli ci disse che al mattino era stato reticente, ma che ora, dopo matura riflessione, riteneva che Guglielmo dovesse sapere tutta la verità. Durante la famosa conversazione sul riso, Berengario aveva accennato al “finis Africae”. Cos'era? La biblioteca era piena di segreti, e specialmente di libri che non erano mai stati dati in lettura ai monaci. Bencio era stato colpito dalle parole di Guglielmo sull'esame razionale delle proposizioni. Egli riteneva che un monaco studioso avesse il diritto di conoscere tutto quello che la biblioteca custodiva, disse parole di fuoco contro il concilio di Soissons che aveva condannato Abelardo, e mentre parlava ci rendemmo conto che questo monaco ancora giovane, che si dilettava di retorica, era agitato da fremiti di indipendenza e faticava ad accettare i vincoli che la disciplina dell'abbazia poneva alla curiosità del suo intelletto. Io ho sempre appreso a diffidare di tali curiosità, ma so bene che al mio maestro questo atteggiamento non dispiaceva, e mi avvidi che simpatizzava con Bencio e gli prestava fede. In breve, Bencio ci disse che non sapeva di che segreti Adelmo, Venanzio e Berengario avessero parlato, ma che non gli sarebbe dispiaciuto che da quella triste storia ne addivenisse un po' di luce sul modo in cui la biblioteca era amministrata, e che non disperava che il mio maestro, comunque avesse dipanato la matassa dell'inchiesta, ne traesse elementi per stimolare l'Abate ad allentare la disciplina intellettuale che pesava sui monaci - venuti da tanto lontano, come lui, aggiunse, proprio per nutrire la loro mente con le meraviglie celate nell'ampio ventre della biblioteca. Io credo che Bencio fosse sincero nell'attendersi dall'inchiesta quello che diceva. Probabilmente però voleva al tempo stesso, come Guglielmo aveva previsto, riservarsi di frugare nel tavolo di Venanzio per primo, divorato com'era dalla curiosità, e per tenercene lontani era disposto a darci in cambio altre informazioni. Ed ecco quali furono. Berengario era consumato, ormai molti tra i monaci lo sapevano, da un'insana passione per Adelmo, la stessa passione i cui nefasti la collera divina aveva colpito a Sodoma e Gomorra. Così Bencio si espresse, forse per riguardo alla mia giovane età. Ma chi ha vissuto la propria adolescenza in un monastero sa che, ancorché si sia mantenuto casto, di tali passioni ha ben sentito parlare, e talora ha dovuto guardarsi dalle insidie di chi ne era schiavo. Monacello com'ero non avevo già ricevuto io stesso, a Melk, da un monaco anziano, cartigli con versi che di solito un laico dedica a una donna? I voti monacali ci tengono lontani da quella sentina di vizi che è il corpo della femmina, ma spesso ci conducono vicinissimi ad altri errori. Posso infine nascondermi che la mia stessa vecchiaia è ancora oggi agitata dal demone meridiano quando mi accade di attardare il mio sguardo, in coro, sul volto imberbe di un novizio, puro e fresco come fanciulla? Dico queste cose non per mettere in dubbio la scelta che ho fatto di dedicarmi alla vita monastica, ma per giustificare l'errore di molti a cui questo santo fardello risulta pesante. Forse per giustificare il delitto orribile di Berengario. Ma pare, secondo Bencio, che questo monaco coltivasse il suo vizio in modo ancora più ignobile, e cioè usando le armi del ricatto per ottenere da altri quanto la virtù e il decoro avrebbero dovuto sconsigliar loro di donare. Dunque da tempo i monaci ironizzavano sugli sguardi teneri che Berengario lanciava ad Adelmo, che pare fosse di grande avvenenza. Mentre Adelmo, totalmente innamorato del suo lavoro, dal quale soltanto pareva trarre diletto, poco si prendeva cura della passione di Berengario. Ma forse, chi sa, egli ignorava che l'animo suo, nel profondo, lo inclinava alla stessa ignominia. Fatto sta che Bencio disse di aver sorpreso un dialogo tra Adelmo e Berengario, in cui Berengario, alludendo a un segreto che Adelmo gli chiedeva di svelargli, gli proponeva il turpe mercato che anche il lettore più innocente può immaginare. E pare che Bencio udisse dalle labbra di Adelmo parole di consenso, quasi dette con sollievo. Come se, ardiva Bencio, Adelmo altro in fondo non desiderasse, e gli fosse bastato trovare una ragione diversa dal desiderio carnale per acconsentire. Segno, argomentava Bencio, che il segreto di Berengario doveva riguardare arcani della sapienza, così che Adelmo potesse nutrire l'illusione di piegarsi a un peccato della carne per accontentare una voglia dell'intelletto. E, aggiunse Bencio con un sorriso, quante volte lui stesso non era agitato da voglie dell'intelletto così violente che per accontentarle avrebbe acconsentito ad assecondare voglie carnali non sue, anche contro la voglia carnale sua stessa. “Non ci sono momenti,” chiese a Guglielmo, “in cui voi fareste anche cose riprovevoli per avere tra le mani un libro che cercate da anni?” “Il saggio e virtuosissimo Silvestro II, secoli fa, diede in dono una sfera armillare preziosissima per un manoscritto, credo, di Stazio o Lucano,” disse Guglielmo. Aggiunse poi, prudentemente: “Ma si trattava di una sfera armillare, non della propria virtù.” Bencio ammise che il suo entusiasmo lo aveva trascinato oltre, e riprese il racconto. La notte prima che Adelmo morisse, egli aveva seguito i due, mosso dalla curiosità. E li aveva visti, dopo compieta, avviarsi insieme al dormitorio. Aveva atteso a lungo tenendo socchiusa la porta della sua cella, non lontana dalla loro, e aveva visto chiaramente Adelmo scivolare, quando il silenzio era calato sul sonno dei monaci, nella cella di Berengario. Aveva ancora vegliato, senza poter prendere sonno, sino a che aveva udito la porta di Berengario che si apriva, e Adelmo che ne fuggiva quasi di corsa, con l'amico che cercava di trattenerlo. Berengario lo aveva seguito mentre Adelmo scendeva al piano inferiore. Bencio li aveva seguiti cautamente e all'imbocco del corridoio inferiore aveva visto Berengario, quasi tremante, che schiacciato in un angolo fissava la porta della cella di Jorge. Bencio aveva intuito che Adelmo si era gettato ai piedi del vecchio confratello per confessargli il suo peccato. E Berengario tremava, sapendo che il suo segreto veniva svelato, sia pure sotto il sigillo del sacramento. Poi Adelmo era uscito, pallidissimo in viso, aveva allontanato da sé Berengario che cercava di parlargli, e si era precipitato fuori dal dormitorio, girando intorno all'abside della chiesa ed entrando in coro dal portale settentrionale (che di notte rimane sempre aperto). Probabilmente voleva pregare. Berengario lo aveva seguito, ma senza entrare in chiesa, e si aggirava per le tombe del cimitero torcendosi le mani. Bencio non sapeva che fare quando si era accorto che una quarta persona si muoveva nei pressi. Anch'essa aveva seguito i due e certo non si era avveduta della presenza di Bencio, che si teneva ritto contro il tronco di una quercia piantata ai limiti del cimitero. Era Venanzio. Alla sua vista Berengario si era acquattato tra le tombe e Venanzio era entrato anch'esso in coro. A questo punto Bencio, temendo di essere scoperto, aveva fatto ritorno al dormitorio. Il mattino dopo il cadavere di Adelmo era stato trovato ai piedi della scarpata. E altro, Bencio, non sapeva. Si appressava ormai l'ora del desinare. Bencio ci lasciò e il mio maestro non gli chiese altro. Noi rimanemmo per un poco dietro i balnea, poi passeggiammo per qualche minuto nell'orto, meditando su quelle singolari rivelazioni. “Frangula,” disse a un tratto Guglielmo chinandosi a osservare una pianta, che in quel giorno di inverno riconobbe dall'arbusto. “Buono l'infuso di corteccia per le emorroidi. E quello è arctium lappa, un buon cataplasma di radici fresche cicatrizza gli eczemi della pelle.” “Siete più bravo di Severino,” gli dissi, “ma ora fatemi sentire cosa pensate di ciò che abbiamo udito!” “Caro Adso, dovresti imparare a ragionare con la tua testa. Bencio ci ha detto probabilmente la verità. Il suo racconto coincide con quello, peraltro così frammisto ad allucinazioni, di Berengario, questa mattina presto. Prova a ricostruire. Berengario e Adelmo fanno insieme una gran brutta cosa, lo avevamo già intuito. E Berengario deve aver svelato ad Adelmo quel segreto che rimane ahimè un segreto. Adelmo, dopo aver commesso il suo delitto contro la castità e le regole della natura, pensa solo a confidarsi con qualcuno che possa assolverlo, e corre da Jorge. Il quale ha carattere molto austero, ne abbiamo avuto le prove, e certo assale Adelmo con angoscianti reprimende. Forse non gli dà l'assoluzione, forse gli impone un'impossibile penitenza, non lo sappiamo, né Jorge ce lo dirà mai. Fatto sta che Adelmo corre in chiesa a prosternarsi davanti all'altare, ma non placa il suo rimorso. A questo punto viene avvicinato da Venanzio. Non sappiamo cosa si dicano. Forse Adelmo confida a Venanzio il segreto avuto in dono (o in pagamento) da Berengario, e che ormai non gli importa più nulla, dappoiché egli ha ormai un suo segreto ben più terribile e bruciante. Cosa accade a Venanzio? Forse, preso dalla stessa ardente curiosità che muoveva oggi anche il nostro Bencio, pago di ciò che ha saputo, lascia Adelmo ai suoi rimorsi. Adelmo si vede abbandonato, progetta di uccidersi, esce disperato nel cimitero e ivi incontra Berengario. Gli dice parole tremende, gli rinfaccia la sua responsabilità, lo chiama suo maestro di turpitudine. Credo proprio che il racconto di Berengario, spogliato di ogni allucinazione, fosse esatto. Adelmo gli ripete le stesse parole di disperazione che deve aver udito da Jorge. Ed ecco che Berengario se ne va sconvolto da una parte, e Adelmo va a uccidersi dall'altra. Poi viene il resto, di cui siamo stati quasi testimoni. Tutti credono che Adelmo sia stato ucciso, Venanzio ne trae l'impressione che il segreto della biblioteca sia ancor più importante di quanto non credesse, e continua la ricerca per conto proprio. Sino a che qualcuno non lo ferma, prima o dopo che egli abbia scoperto ciò che voleva.” “Chi lo uccide? Berengario?” “Può essere. O Malachia, che deve custodire l'Edificio. O un altro. Berengario è sospettabile proprio perché è spaventato, e sapeva che ormai Venanzio possedeva il suo segreto. Malachia è sospettabile: custode dell'integrità della biblioteca, scopre che qualcuno l'ha violata, e uccide. Jorge sa tutto di tutti, possiede il segreto di Adelmo, non vuole che io scopra cosa Venanzio potrebbe aver trovato... Molti fatti consiglierebbero di sospettarlo. Ma dimmi tu come un uomo cieco può ucciderne un altro nel pieno delle forze, e come un vecchio, benché robusto, abbia potuto trasportare il cadavere nella giara. Ma infine, perché l'assassino non potrebbe essere lo stesso Bencio? Potrebbe averci mentito, essere mosso da fini inconfessabili. E perché limitare i sospetti ai soli che parteciparono alla conversazione sul riso? Forse il delitto ha avuto altri moventi, che non hanno nulla a che fare con la biblioteca. In ogni caso occorrono due cose: sapere come si entra in biblioteca di notte, e avere un lume. Per il lume pensaci tu. Gira in cucina all'ora di pranzo, prendine uno...” “Un furto?” “Un prestito, alla maggior gloria del Signore.” “Se è così, contate su di me.” “Bravo. Quanto a entrare nell'Edificio, abbiamo visto da dove è apparso Malachia ieri notte. Oggi farò una visita alla chiesa e a quella cappella in particolare. Tra un'ora andremo a mensa. Dopo abbiamo una riunione con l'Abate. Vi sarai ammesso, perché ho chiesto di avere un segretario che prenda nota di quanto diremo.” Secondo giorno Nona Dove l'Abate si mostra fiero delle ricchezze della sua abbazia e timoroso degli eretici, e alla fine Adso dubita di aver fatto male ad andare per il mondo Trovammo l'Abate in chiesa, davanti all'altar maggiore. Stava seguendo il lavoro di alcuni novizi che avevano tratto da qualche penetrale una serie di vasi sacri, calici, patene, ostensori, e un crocifisso che non avevo visto durante la funzione della mattina. Non potei trattenere un'esclamazione di meraviglia di fronte alla sfolgorante bellezza di quelle sacre suppellettili. Era pieno mezzogiorno e la luce entrava a fiotti dalle finestre del coro, e di più ancora da quelle delle facciate, formando bianche cascate che, come mistici torrenti di divina sostanza, andavano a incrociarsi in vari punti della chiesa, inondando lo stesso altare. I vasi, i calici, tutto rivelava la propria materia preziosa: tra il giallo dell'oro, il biancore immacolato degli avori e la trasparenza del cristallo, vidi rilucere gemme di ogni colore e dimensione, e riconobbi il giacinto, il topazio, il rubino, lo zaffiro, lo smeraldo, il crisolite, l'onice, il carbonchio e il diaspro e l'agata. E al tempo stesso mi avvidi di quanto al mattino, rapito prima nella preghiera, e poi sconvolto dal terrore, non avevo notato: il paliotto dell'altare e altri tre pannelli che gli facevano corona, erano interamente d'oro, e infine l'intero altare appariva d'oro da qualunque parte lo si guardasse. L'Abate sorrise al mio stupore: “Queste ricchezze che vedete,” disse rivolto a me e al mio maestro, “e altre che vedrete ancora, sono il retaggio di secoli di pietà e devozione, e testimonio della potenza e santità di questa abbazia. Principi e potenti della terra, arcivescovi e vescovi hanno sacrificato a questo altare e agli oggetti che vi sono destinati gli anelli delle loro investiture, gli ori e le pietre che erano segno della loro grandezza, e li hanno voluti qui rifusi per la maggiore gloria del Signore e di questo suo luogo. Malgrado oggi l'abbazia sia stata funestata da un altro evento luttuoso, non possiamo dimenticare di fronte alla nostra fragilità la forza e la potenza dell'Altissimo. Si avvicinano le festività del Santo Natale, e stiamo cominciando a pulire gli arredi sacri, in modo che la nascita del Salvatore venga poi festeggiata con tutto lo sfarzo e la magnificenza che merita e vuole. Tutto dovrà apparire nel pieno del suo fulgore...” aggiunse guardando fissamente Guglielmo, e capii dopo perché insisteva così orgogliosamente a giustificare il suo operato, “perché pensiamo che sia utile e conveniente non nascondere, ma al contrario proclamare le divine elargizioni.” “Certo,” disse Guglielmo con cortesia, “se la sublimità vostra ritiene che il Signore debba essere così glorificato, la vostra abbazia ha raggiunto la più grande eccellenza in questo contributo di lode.” “E così si deve,” disse l'Abate. “Se anfore e fiale d'oro e piccoli mortai aurei era d'uso servissero per volere di Dio o ordine dei profeti a raccogliere il sangue di capre o di vitelli o della giovenca nel tempio di Salomone, tanto più vasi d'oro e pietre preziose, e tutto ciò che ha più valore tra le cose create, devono essere usati con continua reverenza e piena devozione per accogliere il sangue di Cristo! Se per una seconda creazione la nostra sostanza venisse a essere la stessa dei cherubini e dei serafini, sarebbe ancora indegno il servizio che essa potrebbe prestare a una vittima così ineffabile...” “Così sia,” dissi. “Molti obbiettano che una mente santamente ispirata, un puro cuore, un'intenzione piena di fede dovrebbero bastare per questa sacra funzione. Noi siamo i primi ad affermare esplicitamente e risolutamente che questa è la cosa essenziale: ma siamo convinti che si debba rendere l'omaggio anche attraverso l'esteriore ornamento della sacra suppellettile, perché è sommamente giusto e conveniente che noi serviamo il nostro Salvatore in tutte le cose, integralmente, Lui che non si è rifiutato di provvedere a noi in tutte le cose integralmente e senza eccezioni.” “Questa è sempre stata l'opinione dei grandi del vostro ordine,” consentì Guglielmo, “e ricordo cose bellissime scritte sugli ornamenti delle chiese dal grandissimo e venerabile abate Sugero.” “Così è,” disse l'Abate. “Vedete questo crocifisso. Non è ancora completo...” Lo prese in mano con infinito amore e lo considerò col volto illuminato di beatitudine. “Mancano qui ancora alcune perle, né le ho trovate della giusta misura. Un tempo il santo Andrea si rivolse alla croce del Golgota dicendola adorna delle membra di Cristo come di perle. E di perle deve essere adorno questo umile simulacro di quel gran prodigio. Anche se ho ritenuto opportuno farvi incastonare, in questo punto, sopra il capo stesso del Salvatore, il più bel diamante che mai abbiate visto.” Accarezzò con mani devote, con le sue lunghe dita bianche, le parti più preziose del sacro legno, ovvero del sacro avorio, ché di questa splendida materia erano fatte le braccia della croce. “Quando, mentre mi diletto di tutte le bellezze di questa casa di Dio, l'incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, sulla diversità delle sacre virtù, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell'universo che non sta più del tutto chiusa nel fango della terra né del tutto libera nella purezza del cielo. E mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica...” Parlava, e aveva rivolto il viso alla navata. Un fiotto di luce che penetrava dall'alto lo stava, per una particolare benevolenza dell'astro diurno, illuminando nel volto, e nelle mani che aveva aperte in forma di croce, rapito com'era dal fervore suo. “Ogni creatura,” disse, “sia essa visibile o invisibile, è una luce, portata all'essere dal padre delle luci. Questo avorio, quest'onice, ma anche la pietra che ci circonda sono una luce, perché io percepisco che sono buoni e belli, che esistono secondo le proprie regole di proporzione, che differiscono per genere e specie da tutti gli altri generi e specie, che sono definiti dal proprio numero, che non vengono meno al loro ordine, che cercano il loro luogo specifico conformemente alla loro gravità. E tanto più queste cose mi vengono rivelate quanto più la materia che io guardo è per sua natura preziosa, e tanto meglio si fa luce della potenza creatrice divina, in quanto se devo risalire alla sublimità della causa, inaccessibile nella sua pienezza, dalla sublimità dell'effetto, quanto meglio non mi parla della divina causalità un effetto mirabile quale l'oro o il diamante, se già di essa riescono a parlarmi financo lo sterco e l'insetto! E allora, quando in queste pietre percepisco tali cose superiori, l'anima piange, di gioia commossa, e non per vanità terrena o amore delle ricchezze, ma per amore purissimo della causa prima non causata.” “Davvero questa è la più dolce delle teologie,” disse Guglielmo con perfetta umiltà, e pensai che usasse quella insidiosa figura di pensiero che i retori chiamano ironia; la quale si deve usare sempre facendola precedere dalla pronunciatio, che ne costituisce il segnale e la giustificazione; cosa che Guglielmo non faceva mai. Ragione per cui l'Abate, più incline all'uso delle figure di discorso, prese Guglielmo alla lettera e aggiunse, ancora in preda al suo mistico rapimento: “E' la più immediata delle vie che ci pongono in contatto con l'Altissimo, materiale teofania.” Guglielmo tossì educatamente: “Eh... oh...” disse. Così faceva quando voleva introdurre un altro argomento. Gli riuscì di farlo con buona grazia perché era suo costume - e credo sia tipico degli uomini della sua terra - iniziare ogni suo intervento con lunghi gemiti preliminari, come se avviare l'esposizione di un pensiero compiuto gli costasse un grande sforzo della mente. Mentre, mi ero ormai convinto, quanti più gemiti egli anteponeva al suo asserto, tanto più egli era sicuro della bontà della proposizione che esso esprimeva. “Eh... oh...” disse dunque Guglielmo. “Dovremmo parlare dell'incontro e del dibattito sulla povertà...” “La povertà...” disse ancora assorto l'Abate, come se faticasse a discendere da quella bella regione dell'universo in cui lo avevano rapito le sue gemme. “E' vero, l'incontro...” E incominciarono a discutere fittamente di cose che in parte già sapevo e in parte riuscii a capire ascoltando il loro colloquio. Si trattava, come ho già detto sin dall'inizio di questa mia cronaca fedele, della duplice querela che opponeva da un lato l'imperatore al papa, e dall'altro il papa ai francescani che nel capitolo di Perugia, sia pure con molti anni di ritardo, avevano fatte proprie le tesi degli spirituali sulla povertà di Cristo; e dell'intrico che si era formato unendo i francescani all'impero, intrico che - da triangolo di opposizioni e alleanze - si era ormai trasformato in un quadrato per l'intervento, ancora a me oscurissimo, degli abati dell'ordine di san Benedetto. Io non colsi mai con chiarezza la ragione per cui gli abati benedettini avevano dato protezione e ricetto ai francescani spirituali, prima ancora che il loro stesso ordine ne condividesse in certo qual modo le opinioni. Perché se gli spirituali predicavano la rinuncia a ogni bene terreno, gli abati del mio ordine, ne avevo avuto quel giorno stesso la luminosa conferma, seguivano una via non meno virtuosa ma del tutto opposta. Ma credo che gli abati ritenessero che un eccessivo potere del papa significasse un eccessivo potere dei vescovi e delle città, mentre l'ordine mio aveva conservato intatta la sua potenza nei secoli proprio in lotta col clero secolare e i mercanti cittadini, ponendosi come diretto mediatore tra il cielo e la terra, e consigliere dei sovrani. Avevo sentito tante volte ripetere la frase secondo cui il popolo di Dio si divideva in pastori (ovvero i chierici), cani (ovvero i guerrieri) e pecore, il popolo. Ma ho imparato in seguito che questa frase può essere ridetta in vari modi. I benedettini avevano sovente parlato non di tre ordini, ma di due grandi divisioni, una che riguardava l'amministrazione delle cose terrene e l'altra che riguardava l'amministrazione delle cose celesti. Per quanto riguardava le cose terrene valeva la divisione tra clero, signori laici e popolo, ma su questa tripartizione dominava la presenza dell'ordo monachorum, legame diretto tra il popolo di Dio e il cielo, e i monaci non avevano nulla a che vedere con quei pastori secolari che erano i preti e i vescovi, ignoranti e corrotti, proni ormai agli interessi delle città, dove le pecore non erano più ormai tanto i buoni e fedeli contadini, bensì i mercanti e gli artigiani. All'ordine benedettino non spiaceva che il governo dei semplici fosse affidato ai chierici secolari, purché lo stabilire la regola definitiva di questo rapporto competesse ai monaci, in diretto contatto con la sorgente di ogni potere terrestre, l'impero, così come lo erano con la sorgente di ogni potere celeste. Ecco perché, credo, molti abati benedettini, per restituire dignità all'impero contro il governo delle città (vescovi e mercanti uniti) accettarono anche di proteggere i francescani spirituali, di cui non condividevano le idee, ma la cui presenza faceva loro comodo, in quanto offriva all'impero buoni sillogismi contro lo strapotere del papa. Queste erano le ragioni, ne arguii, per cui ora Abbone stava disponendosi a collaborare con Guglielmo, inviato dall'imperatore, per far da mediatore tra l'ordine francescano e la sede pontificia. Infatti, pur nella violenza della disputa che tanto faceva periclitare l'unità della chiesa, Michele da Cesena più volte chiamato ad Avignone da papa Giovanni, si era finalmente disposto ad accettare l'invito, perché non voleva che il suo ordine si ponesse in urto definitivo col pontefice. Quale generale dei francescani voleva a un tempo e far trionfare le loro posizioni e ottenere il consenso papale, anche perché intuiva che senza il consenso del papa non avrebbe potuto rimanere a lungo alla testa dell'ordine. Ma molti gli avevano fatto osservare che il papa lo avrebbe atteso in Francia per tendergli un tranello, imputarlo di eresia e processarlo. E perciò consigliavano che l'andata di Michele ad Avignone fosse preceduta da alcune trattative. Marsilio aveva avuto un'idea migliore: inviare con Michele anche un legato imperiale che presentasse al papa il punto di vista dei sostenitori dell'imperatore. Non tanto per convincere il vecchio Cahors ma per rafforzare la posizione di Michele che, facendo parte di una legazione imperiale, non avrebbe potuto cadere così facilmente preda della vendetta pontificia. Anche questa idea presentava tuttavia numerosi inconvenienti e non era realizzabile immantinenti. Di lì era venuta l'idea di un incontro preliminare tra i membri della legazione imperiale e alcuni inviati del papa, per provare le rispettive posizioni e stilare gli accordi per un incontro in cui la sicurezza dei visitatori italiani fosse garantita. Di organizzare questo primo incontro era stato appunto incaricato Guglielmo da Baskerville. Il quale avrebbe poi dovuto rappresentare il punto di vista dei teologi imperiali ad Avignone, se avesse ritenuto che il viaggio era possibile senza pericolo. Impresa non facile perché si supponeva che il papa, che voleva Michele da solo per poterlo ridurre più facilmente all'obbedienza, avrebbe inviato in Italia una legazione istruita in modo da far fallire, per quanto possibile, il viaggio degli inviati imperiali alla sua corte. Guglielmo si era mosso sino ad allora con grande abilità. Dopo lunghe consultazioni con vari abati benedettini (ecco la ragione delle molte tappe del nostro viaggio) aveva scelto l'abbazia dove eravamo proprio perché si sapeva che l'Abate era devotissimo all'impero e tuttavia, per la sua gran abilità diplomatica, non inviso alla corte pontificia. Territorio neutro, dunque, l'abbazia, dove i due gruppi avrebbero potuto incontrarsi. Ma le resistenze del pontefice non erano finite. Egli sapeva che, una volta sul terreno dell'abbazia, la sua legazione sarebbe stata sottomessa alla giurisdizione dell'Abate: e siccome di essa avrebbero fatto parte anche membri del clero secolare, non accettava questa clausola, accampando timori di un tranello imperiale. Aveva posto quindi la condizione che l'incolumità dei suoi inviati fosse stata affidata a una compagnia di arcieri del re di Francia agli ordini di persona di sua fiducia. Di questo avevo vagamente udito Guglielmo discorrere con un ambasciatore del papa a Bobbio: si era trattato di definire la formula con cui designare i compiti di questa compagnia, ovvero cosa si intendesse per salvaguardia dell'incolumità dei legati pontifici. Si era accettata finalmente una formula proposta dagli avignonesi e che era parsa ragionevole: gli armati e chi li comandava avrebbero avuto giurisdizione “su tutti coloro che in qualche modo cercavano di attentare alla vita dei membri della legazione pontificia e di influenzarne il comportamento e il giudizio con atti violenti”. Allora il patto era parso ispirato a pure preoccupazioni formali. Ora, dopo i recenti fatti avvenuti all'abbazia, l'Abate era inquieto e manifestò i suoi dubbi a Guglielmo. Se la legazione arrivava all'abbazia mentre era ancora ignoto l'autore di due delitti (il giorno dopo le preoccupazioni dell'Abate avrebbero dovuto aumentare, perché i delitti sarebbero stati tre) si sarebbe dovuto ammettere che circolava entro quelle mura qualcuno capace di influenzare con atti violenti il giudizio e il comportamento dei legati pontifici. A nulla valeva cercare di celare i crimini che erano stati commessi, perché se qualcosa d'altro fosse ancora avvenuto, i legati pontifici avrebbero pensato a un complotto ai loro danni. E dunque le soluzioni erano solo due. O Guglielmo scopriva l'assassino prima dell'arrivo della legazione (e qui l'Abate lo guardò fissamente come a rimproverarlo tacitamente di non essere ancora venuto a capo della faccenda) oppure occorreva avvertite lealmente il rappresentante del papa di quanto stava avvenendo e chiedere la sua collaborazione perché l'abbazia fosse posta sotto attenta sorveglianza durante il corso dei lavori. Cosa che all'Abate dispiaceva, perché significava rinunciare a parte della sua sovranità e porre i suoi stessi monaci sotto il controllo dei francesi. Ma non si poteva rischiare. Guglielmo e l'Abate erano entrambi contrariati per la piega che prendevano le cose, ma avevano poche alternative. Si ripromisero pertanto di prendere una decisione definitiva entro il giorno seguente. Per intanto non restava che affidarsi alla misericordia divina e alla sagacia di Guglielmo. “Farò il possibile, vostra sublimità,” disse Guglielmo. “Ma d'altra parte non vedo come la cosa possa compromettere davvero l'incontro. Anche il rappresentante pontificio vorrà comprendere che c'è differenza tra l'opera di un pazzo, o di un sanguinario, o forse soltanto di un'anima smarrita, e i gravi problemi che uomini probi verranno a discutere.” “Credete?” chiese l'Abate, guardando Guglielmo fissamente. “Non dimenticate che gli avignonesi sanno di incontrarsi con dei minoriti, e quindi con persone pericolosamente vicine ai fraticelli e ad altri più dissennati ancora dei fraticelli, a eretici pericolosi che si sono macchiati di delitti,” e qui l'Abate abbassò la voce, “rispetto ai quali i fatti, peraltro orribili, che sono accaduti qui impallidiscono come nebbia al sole.” “Non si tratta della stessa cosa!” esclamò Guglielmo con vivacità. “Non potete mettere alla stessa stregua i minoriti del capitolo di Perugia e qualche banda di eretici che hanno frainteso il messaggio del vangelo trasformando la lotta contro le ricchezze in una serie di vendette private o di follie sanguinarie...” “Non sono passati molti anni da che, non molte miglia da qui, una di queste bande, come voi le chiamate, ha messo a ferro e fuoco le terre del vescovo di Vercelli e le montagne del novarese,” disse seccamente l'Abate. “Parlate di fra Dolcino e degli apostolici...” “Degli pseudo apostoli,” corresse l'Abate. E ancora una volta sentivo citare fra Dolcino e gli pseudo apostoli, e ancora una volta con tono circospetto, e quasi una sfumatura di terrore. “Degli pseudo apostoli,” ammise volentieri Guglielmo. “Ma essi non avevano nulla a che vedere coi minoriti...” “Dei quali professavano la stessa reverenza per Gioacchino di Calabria,” incalzò l'Abate, “e potete chiederlo al vostro confratello Ubertino.” “Faccio rilevare a vostra sublimità che ora è confratello vostro,” disse Guglielmo, con un sorriso e con una specie di inchino, come per complimentarsi con l'Abate per l'acquisto che il suo ordine aveva fatto accogliendo un uomo di tanta reputazione. “Lo so, lo so,” sorrise l'Abate. “E voi sapete con quanta fraterna sollecitudine il nostro ordine ha accolto gli spirituali quando sono incorsi nelle ire del papa. Non parlo solo di Ubertino ma anche di molti altri fratelli più umili, dei quali poco si sa, e dei quali forse si dovrebbe sapere di più. Perché è accaduto che noi accogliessimo transfughi che si sono presentati vestiti del saio dei minoriti, e dopo ho appreso che le varie vicende della loro vita li avevano portati, per un tratto, assai vicini ai dolciniani...” “Anche qui?” domandò Guglielmo. “Anche qui. Vi sto rivelando qualcosa di cui in verità so molto poco, e in ogni caso non abbastanza per formulare accuse. Ma visto che state indagando sulla vita di questa abbazia è bene che anche voi conosciate queste cose. Vi dirò allora che sospetto, badate, sospetto in base a cose che ho udito o indovinato, che ci sia stato un momento molto buio nella vita del nostro cellario, che appunto arrivò qui anni fa seguendo l'esodo dei minoriti.” “Il cellario? Remigio da Varagine un dolciniano? Mi pare l'essere più mite e in ogni caso meno preoccupato da madonna povertà che io abbia mai visto...” disse Guglielmo. “E infatti non posso dire nulla di lui, e mi avvalgo dei suoi buoni servizi, per cui tutta la comunità gli va riconoscente. Ma dico questo, per farvi capire come sia facile trovare connessioni tra un frate e un fraticello.” “Ancora una volta la vostra magnitudine è ingiusta, se così posso dire,” interloquì Guglielmo. “Stavamo parlando dei dolciniani, non dei fraticelli. Dei quali molto si potrà dire, senza neppur sapere di chi si parla, perché ve ne sono di molte sorte, ma non che siano dei sanguinari. Li si potrà al massimo rimproverare di mettere in pratica senza troppo senno cose che gli spirituali hanno predicato con maggior misura e animati da vero amor di Dio, e in questo convengo che esistono confini assai esili tra gli uni e gli altri...” “Ma i fraticelli sono eretici!” interruppe seccamente l'Abate. “Non si limitano a sostenere la povertà di Cristo e degli apostoli, dottrina che, anche se non mi sento di condividere, può essere utilmente opposta all'albagìa avignonese. I fraticelli traggono da tale dottrina un sillogismo pratico, ne inferiscono un diritto alla rivolta, al saccheggio, alla perversione dei costumi.” “Ma quali fraticelli?” “Tutti, in genere. Lo sapete che si sono macchiati di delitti innominabili, che non riconoscono il matrimonio, che negano l'inferno, che commettono sodomia, che abbracciano l'eresia bogomila dell'ordo Bulgarie e dell'ordo Drygonthie...” “Vi prego,” disse Guglielmo, “non confondete cose diverse! Voi parlate come se fraticelli, patarini, valdesi, catari, e tra questi bogomili di Bulgaria ed eretici di Dragovitsa fossero tutti la stessa cosa!” “Lo sono,” disse seccamente l'Abate, “lo sono perché sono eretici e lo sono perché mettono a repentaglio l'ordine stesso del mondo civile, anche l'ordine dell'impero che voi mi sembrate auspicare. Cento e più anni fa i seguaci di Arnaldo da Brescia incendiarono le case dei nobili e dei cardinali, e questi furono i frutti dell'eresia lombarda dei patarini. So delle storie terribili su questi eretici, e le lessi in Cesario di Eisterbach. A Verona il canonico di san Gedeone, Everardo, notò una volta che colui che lo ospitava ogni notte usciva di casa con la moglie e la figlia. Interrogò non so chi dei tre per sapere dove andassero e che facessero. Vieni e vedrai, gli fu risposto ed egli li seguì in una casa sotterranea, molto ampia, dove c'erano raccolte persone di entrambi i sessi. Un eresiarca, mentre tutti stavano in silenzio, tenne un discorso pieno di bestemmie, con il proposito di corrompere la loro vita e i loro costumi. Poi, spenta la candela, ciascuno si gettò sulla sua vicina, senza far differenza tra la sposa legittima e la nubile, tra vedova e vergine, tra padrona e serva, né (ciò che era peggio, il Signore mi perdoni mentre dico cose così orribili) tra figlia e sorella. Everardo, vedendo tutto ciò, da giovane leggero e lussurioso quale era, fingendosi un discepolo, si accostò non so se alla figlia del suo ospite o a un'altra fanciulla, e dopo che fu spenta la candela, peccò con lei. Fece purtroppo questo per più di un anno, e alla fine il maestro disse che quel giovane frequentava con tanto profitto le loro sedute che presto sarebbe stato in grado di istruire i neofiti. A quel punto Everardo comprese l'abisso in cui era caduto e riuscì a sfuggire alla loro seduzione dicendo che aveva frequentato quella casa non perché era attratto dall'eresia ma perché era attratto dalle fanciulle. Quelli lo scacciarono. Ma tale, lo vedete, è la legge e la vita degli eretici, patarini, catari, gioachimiti, spirituali d'ogni risma. Né c'è da meravigliarsi: non credono nella risurrezione della carne e nell'inferno come castigo dei malvagi, e ritengono di poter fare impunemente qualsiasi cosa. Essi infatti si dicono catharoi e cioè puri.” “Abbone,” disse Guglielmo, “voi vivete isolato in questa splendida e santa abbazia, lontana dalle nequizie del mondo. La vita nelle città è molto più complessa di quanto credete e ci sono gradazioni, lo sapete, anche nell'errore e nel male. Lot fu molto meno peccatore dei suoi concittadini che concepirono pensieri immondi anche sugli angeli inviati da Dio, e il tradimento di Pietro fu nulla rispetto al tradimento di Giuda, infatti uno fu perdonato e l'altro no. Non potete considerare patarini e catari la stessa cosa. I patarini sono un movimento di riforma dei costumi interno alle leggi di santa madre chiesa. Essi vollero sempre migliorare il modo di vita degli ecclesiastici.” “Sostenendo che non si dovevano prendere i sacramenti dai sacerdoti impuri...” “E sbagliarono, ma fu l'unico loro errore di dottrina. Non si proposero mai di alterare la legge di Dio...” “Ma la predicazione patarina di Arnaldo da Brescia, a Roma, più di duecento anni fa, spinse la turba dei rustici a incendiare le case dei nobili e dei cardinali.” “Arnaldo cercò di trascinare nel suo movimento di riforma i magistrati della città. Quelli non lo seguirono, e trovò consenso tra le turbe dei poveri e dei diseredati. Non fu responsabile dell'energia e della rabbia con cui quelli risposero ai suoi appelli per una città meno corrotta.” “La città è sempre corrotta.” “La città è il luogo dove oggi vive il popolo di Dio, di cui voi, di cui noi siamo i pastori. E' il luogo dello scandalo in cui il prelato ricco predica la virtù al popolo povero e affamato. I disordini dei patarini nascono da questa situazione. Sono tristi, non sono incomprensibili. I catari sono altra cosa. E' un'eresia orientale, al di fuori della dottrina della chiesa. Io non so se veramente commettano o abbiano commesso i delitti che vengono loro imputati. So che rifiutano il matrimonio, che negano l'inferno. Mi chiedo se molti degli atti che non hanno commesso non siano stati loro attribuiti solo in virtù delle idee (certo nefande) che hanno sostenuto.” “E voi mi dite che i catari non si sono mescolati ai patarini, e che entrambi non siano altro che due delle facce, innumerevoli, della stessa manifestazione demoniaca?” “Dico che molte di queste eresie, indipendentemente dalle dottrine che sostengono, trovano successo tra i semplici, perché suggeriscono loro la possibilità di una vita diversa. Dico che molto spesso i semplici non sanno molto di dottrina. Dico che è accaduto sovente che turbe di semplici abbiano confuso la predicazione catara con quella dei patarini, e questa in generale con quella degli spirituali. La vita dei semplici, Abbone, non è illuminata dalla sapienza e dal senso vigile delle distinzioni che ci fa saggi. Ed è ossessionata dalla malattia, dalla povertà, fatta balbuziente dall'ignoranza. Spesso per molti di essi l'adesione a un gruppo eretico è solo un modo come un altro di gridare la propria disperazione. Si può bruciare la casa di un cardinale sia perché si vuole perfezionare la vita del clero, sia perché si ritiene che l'inferno, che lui predica, non esista. Lo si fa sempre perché esiste l'inferno terreno, in cui vive il gregge di cui noi siamo pastori. Ma voi sapete benissimo che, come essi non distinguono tra chiesa bulgara e seguaci di prete Liprando, spesso anche le autorità imperiali e i loro sostenitori non distinsero tra spirituali ed eretici. Non di rado gruppi ghibellini, per battere il loro avversario, sostennero tra il popolo tendenze catare. A mio parere fecero male. Ma quello che ora so è che gli stessi gruppi, sovente, per sbarazzarsi di questi inquieti e pericolosi avversari troppo «semplici», attribuirono agli uni le eresie degli altri, e spinsero tutti sul rogo. Ho visto, vi giuro Abbone, ho visto coi miei occhi, uomini di vita virtuosa, sinceramente seguaci della povertà e della castità, ma nemici dei vescovi, che i vescovi spinsero nelle mani del braccio secolare, fosse esso al servizio dell'impero o delle città libere, accusandoli di promiscuità sessuale, sodomia, pratiche nefande - di cui forse altri ma non loro si erano resi colpevoli. I semplici sono carne da macello, da usare quando servono a mettere in crisi il potere avverso, e da sacrificare quando non servono più.” “Quindi,” disse l'Abate con evidente malizia, “fra Dolcino e i suoi forsennati, e Gherardo Segalelli e quei turpi assassini furono catari malvagi o fraticelli virtuosi, bogomili sodomiti o patarini riformatori? Mi volete allora dire, Guglielmo, voi che sapete tutto degli eretici, tanto da sembrare uno dei loro, dove sta la verità?” “Da nessuna parte, talora,” disse con tristezza Guglielmo. “Vedete che anche voi non sapete più distinguere tra eretico ed eretico? Io ho almeno una regola. So che eretici sono coloro che mettono a repentaglio l'ordine su cui si regge il popolo di Dio. E difendo l'impero perché mi garantisce quest'ordine. Combatto il papa perché sta consegnando il potere spirituale ai vescovi delle città, che si alleano ai mercanti e alle corporazioni, e non sapranno mantenere quest'ordine. Noi lo abbiamo mantenuto per secoli. E quanto agli eretici ho pure una regola, e si riassume nella risposta che diede Arnaldo Amalrico, abate di Citeaux, a chi gli chiedeva cosa fare dei cittadini di Béziers, città sospetta di eresia: uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi.” Guglielmo abbassò gli occhi e stette alquanto in silenzio. Poi disse: “La città di Béziers fu presa e i nostri non guardarono né a dignità né a sesso né a età e quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così la strage, la città fu saccheggiata e arsa.” “Anche una guerra santa è una guerra.” “Anche una guerra santa è una guerra. Per questo forse non dovrebbero esserci guerre sante. Ma cosa dico, sono qui a sostenere i diritti di Ludovico, che pure sta mettendo a fuoco l'Italia. Mi trovo anch'io preso in un gioco di strane alleanze. Strana l'alleanza degli spirituali con l'impero, strana quella dell'impero con Marsilio, che chiede la sovranità per il popolo. E strana quella tra noi due, così diversi per propositi e tradizione. Ma abbiamo due compiti in comune. Il successo dell'incontro, e la scoperta di un assassino. Cerchiamo di procedere in pace.” L'Abate aprì le braccia. “Datemi il bacio della pace, frate Guglielmo. Con un uomo del vostro sapere potremmo discutere a lungo su sottili questioni di teologia e di morale. Ma non dobbiamo cedere al gusto della disputa come fanno i maestri di Parigi. E' vero, abbiamo un compito importante che ci attende, e dobbiamo procedere di comune accordo. Ma ho parlato di queste cose perché credo che vi sia un rapporto, capite?, un rapporto possibile, ovvero che altri possano porre un rapporto tra i delitti che qui sono avvenuti e le tesi dei vostri confratelli. Per questo vi ho avvertito, per questo dobbiamo prevenire ogni sospetto o insinuazione da parte degli avignonesi.” “Non dovrei supporre che la vostra sublimità mi ha suggerito anche una traccia per la mia indagine? Ritenete che all'origine degli eventi recenti possa esserci qualche oscura storia che risale al passato ereticale di qualche monaco?” L'Abate tacque per alcuni istanti, guardando Guglielmo senza che nessuna espressione trasparisse dal suo viso. Poi disse: “In questa triste vicenda l'inquisitore siete voi. A voi compete essere sospettoso e persino rischiare un sospetto ingiusto. Io sono qui soltanto il padre comune. E, aggiungo, se avessi saputo che il passato di uno dei miei monaci si presta a sospetti veritieri, avrei proceduto già io a sradicare la mala pianta. Quello che so, lo sapete. Quello che non so, è giusto che venga alla luce grazie alla vostra sagacia. Ma in ogni caso informatene sempre e anzitutto me.” Salutò e uscì dalla chiesa. “La storia diventa più complicata, caro Adso,” disse Guglielmo scuro in volto. “Noi corriamo dietro a un manoscritto, ci interessiamo alle diatribe di alcuni monaci troppo curiosi e alla vicenda di altri monaci troppo lussuriosi, ed ecco che si profila sempre più insistentemente anche un'altra traccia, tutta diversa. Il cellario, dunque... E col cellario è venuto qui quello strano animale di Salvatore... Ma ora dovremo andare a riposare, perché abbiamo progettato di star svegli durante la notte.” “Ma allora progettate ancora di penetrare in biblioteca, stanotte? Non abbandonate questa prima traccia?” “Per nulla. E poi chi ha detto che si tratti di due tracce diverse? E infine, questa storia del cellario potrebbe essere solo un sospetto dell'Abate.” Si mosse verso l'albergo dei pellegrini. Giunto alla soglia si arrestò e parlò come se continuasse il discorso di prima. “In fondo l'Abate mi ha chiesto di indagare sulla morte di Adelmo quando pensava che accadesse qualcosa di torbido tra i suoi giovani monaci. Ma ora la morte di Venanzio fa nascere altri sospetti, forse l'Abate ha intuito che la chiave del mistero sta nella biblioteca, e su quello non vuole che io indaghi. Ed ecco allora che mi offrirebbe la traccia del cellario per distogliere la mia attenzione dall'Edificio...” “Ma perché non dovrebbe volere che...” “Non fare troppe domande. L'Abate mi ha detto sin dall'inizio che la biblioteca non si tocca. Avrà le sue buone ragioni. Potrebbe darsi che anche lui sia coinvolto in qualche vicenda che egli non pensava potesse aver rapporto con la morte di Adelmo, e ora si rende conto che lo scandalo si allarga e può coinvolgere anche lui. E non vuole che si scopra la verità, o almeno non vuole che la scopra io...” “Ma allora viviamo in un luogo abbandonato da Dio,” dissi sconfortato. “Ne hai trovati di quelli in cui Dio si sarebbe sentito a proprio agio?” mi domandò Guglielmo guardandomi dall'alto della sua statura. Poi mi mandò a riposare. Mentre mi coricavo conclusi che mio padre non avrebbe dovuto mandarmi per il mondo, che era più complicato di quanto pensassi. Stavo imparando troppe cose. “Salva me ab ore leonis,” pregai addormentandomi. Secondo giorno Dopo vespri Dove, malgrado il capitolo sia breve, il vegliardo Alinardo dice cose assai interessanti sul labirinto e sul modo di entrarvi Mi risvegliai che suonava quasi l'ora della mensa serale. Mi sentivo intorpidito dal sonno, perché il sonno diurno è come il peccato della carne: più se ne è avuto più se ne vorrebbe, eppure ci si sente infelici, sazi e insaziati allo stesso tempo. Guglielmo non era nella sua cella, evidentemente si era levato molto prima. Lo trovai, dopo un breve errare, che usciva dall'Edificio. Mi disse che era stato allo scriptorium, sfogliando il catalogo e osservando il lavoro dei monaci nel tentativo di avvicinarsi al tavolo di Venanzio per riprendere l'ispezione. Ma che per un motivo o per l'altro, ciascuno pareva intenzionato a non lasciarlo curiosare tra quelle carte. Prima gli si era avvicinato Malachia, per mostrargli alcune miniature di pregio. Poi Bencio lo aveva tenuto occupato con pretesti di nessun valore. Dopo ancora, quando si era chinato per riprendere la sua ispezione, Berengario si era messo a girargli intorno offrendo la sua collaborazione. Infine Malachia, vedendo che il mio maestro pareva seriamente intenzionato a occuparsi delle cose di Venanzio, gli aveva detto chiaro e tondo che forse, prima di frugare tra le carte del morto, era meglio ottenere l'autorizzazione dell'Abate; che lui stesso, pur essendo il bibliotecario, se ne era astenuto, per rispetto e disciplina; e che in ogni caso nessuno si era avvicinato a quel tavolo, come Guglielmo gli aveva chiesto, e nessuno vi si sarebbe avvicinato sino a che l'Abate non fosse intervenuto. Guglielmo gli aveva fatto notare che l'Abate gli aveva dato licenza di indagare per tutta l'abbazia, Malachia aveva domandato non senza malizia se l'Abate gli aveva anche dato licenza di muoversi liberamente per lo scriptorium o, Dio non volesse, la biblioteca. Guglielmo aveva capito che non era il caso di impegnarsi in una prova di forza con Malachia, anche se tutti quei movimenti e quei timori intorno alle carte di Venanzio gli avevano naturalmente fortificato il desiderio di prenderne conoscenza. Ma tale era la sua determinazione di ritornare colà di notte, non sapeva ancora come, che aveva deciso di non creare incidenti. Covava però evidenti pensieri di rivincita che, se non fossero stati ispirati come erano alla sete di verità, sarebbero apparsi molto ostinati e forse riprovevoli. Prima di entrare in refettorio, facemmo ancora una piccola passeggiata nel chiostro, per dissolvere i fumi del sonno all'aria fredda della sera. Vi si aggiravano ancora alcuni monaci in meditazione. Nel giardino prospiciente il chiostro scorgemmo il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata, che ormai imbecille nel corpo, trascorreva gran parte della propria giornata tra le piante, quando non era a pregare in chiesa. Sembrava non sentire freddo, e sedeva lungo la parte esterna del porticato. Guglielmo gli rivolse alcune parole di saluto e il vecchio parve lieto che qualcuno si intrattenesse con lui. “Giornata serena,” disse Guglielmo. “Per grazia di Dio,” rispose il vecchio. “Serena nel cielo, ma scura in terra. Conoscevate bene Venanzio?” “Venanzio chi?” disse il vecchio. Poi una luce si accese nei suoi occhi. “Ah, il ragazzo morto. La bestia si aggira per l'abbazia...” “Quale bestia?” “La grande bestia che viene dal mare... Sette teste e dieci corna e sulle corna dieci diademi e sulle teste tre nomi di bestemmia. La bestia che pare un leopardo, coi piedi come quelli dell'orso e la bocca come quella del leone... Io l'ho vista.” “Dove l'avete vista? In biblioteca?” “Biblioteca? Perché? Sono anni che non vado più nello scriptorium e non ho mai visto la biblioteca. Nessuno va in biblioteca. Io conobbi coloro che salivano alla biblioteca...” “Chi, Malachia, Berengario?” “Oh no...” il vecchio rise con voce chioccia. “Prima. Il bibliotecario che venne prima di Malachia, tanti anni fa...” “Chi era?” “Non mi ricordo, è morto, quando Malachia era ancora giovane. E quello che venne prima del maestro di Malachia ed era aiuto bibliotecario giovane quando io ero giovane... Ma nella biblioteca io non misi mai piede. Labirinto...” “La biblioteca è un labirinto?” “Hunc mundum tipice laberinthus denotat ille,” recitò assorto il vegliardo. “Intranti largus, redeunti sed nimis artus. La biblioteca è un gran labirinto, segno del labirinto del mondo. Entri e non sai se uscirai. Non bisogna violare le colonne d'Ercole...” “Quindi non sapete come si entra nella biblioteca quando le porte dell'Edificio sono chiuse?” “Oh sì,” rise il vecchio, “molti lo sanno. Passi per l'ossario. Puoi passare per l'ossario, ma non vuoi passare per l'ossario. I monaci morti vegliano.” “Sono quelli i monaci morti che vegliano, non quelli che si aggirano di notte con un lume per la biblioteca?” “Con un lume?” Il vecchio parve stupito. “Non ho mai sentito questa storia. I monaci morti stanno nell'ossario, le ossa calano a poco a poco dal cimitero e si radunano lì a custodire il passaggio. Non hai mai visto l'altare della cappella che reca all'ossario?” “E' la terza a sinistra dopo il transetto, è vero?” “La terza? Forse. E' quella con la pietra dell'altare scolpita con mille scheletri. Il quarto teschio a destra, spingi negli occhi... E sei nell'ossario. Ma non ci vai, io non ci sono mai andato. L'Abate non vuole.” “E la bestia, dove avete visto la bestia?” “La bestia? Ah, l'Anticristo... Egli sta per venire, il millennio è scaduto, lo attendiamo...” “Ma il millennio è scaduto da trecento anni, e allora non venne...” “L'Anticristo non viene dopo che sono scaduti i mille anni. Scaduti i mille anni inizia il regno dei giusti, poi viene l'Anticristo a confondere i giusti, e poi sarà la battaglia finale...” “Ma i giusti regneranno per mille anni,” disse Guglielmo. “O hanno regnato dalla morte di Cristo sino alla fine del primo millennio, e quindi è allora che doveva venire l'Anticristo o non hanno ancora regnato, e l'Anticristo è lontano.” “Il millennio non si computa dalla morte di Cristo ma dalla donazione di Costantino. Ora sono i mille anni...” “E allora finisce il regno dei giusti?” “Non lo so, non lo so più... Sono stanco. Il calcolo è difficile. Beato di Liébana lo fece, chiedi a Jorge, egli è giovane, ricorda bene... Ma i tempi sono maturi. Non hai udito le sette trombe?” “Perché le sette trombe?” “Non hai sentito come è morto l'altro ragazzo, il miniatore? Il primo angelo ha dato fiato alla prima tromba e ne venne grandine e fuoco misto a sangue. E il secondo angelo ha dato fiato alla seconda tromba e la terza parte del mare divenne sangue...Non è morto nel mare di sangue il secondo ragazzo? Attenti alla terza tromba! Morirà la terza parte delle creature viventi nel mare. Dio ci punisce. Il mondo tutto intorno all'abbazia è infestato dall'eresia, mi han detto che è sul trono di Roma un papa perverso che usa delle ostie per pratiche di negromanzia, e ne nutre le sue murene... E da noi qualcuno ha violato l'interdetto, ha rotto i sigilli del labirinto...” “Chi ve lo ha detto?” “L'ho udito, tutti sussurrano che il peccato è entrato nell'abbazia. Hai ceci?” La domanda, diretta a me, mi sorprese. “No, non ho ceci,” dissi confuso. “La prossima volta portami dei ceci. Li tengo in bocca, vedi la mia povera bocca senza denti, sinché non si ammollano tutti. Stimolano la saliva, aqua fons vitae. Domani mi porterai dei ceci?” “Domani vi porterò dei ceci,” gli dissi. Ma si era assopito. Lo lasciammo per andare in refettorio. “Cosa pensate di ciò che ha detto?” domandai al mio maestro. “Egli gode della divina follia dei centenari. Difficile distinguere il vero dal falso nelle sue parole. Ma credo che ci abbia detto qualcosa sul modo di penetrare nell'Edificio. Ho visto la cappella da cui è uscito Malachia la notte scorsa. Vi è davvero un altare di pietra, e sulla base sono scolpiti dei teschi, stasera proveremo.” Secondo giorno Compieta Dove si entra nell'Edificio, si scopre un visitatore misterioso, si trova un messaggio segreto con segni da negromante, e scompare, appena trovato, un libro che poi sarà ricercato per molti altri capitoli, né ultima vicissitudine è il furto delle preziose lenti di Guglielmo La cena fu mesta e silenziosa. Erano passate poco più di dodici ore da quando si era scoperto il cadavere di Venanzio. Tutti guardavano di sottecchi il suo posto vuoto a tavola. Quando fu l'ora di compieta il corteo che si recò in coro pareva una sfilata funebre. Partecipammo all'ufficio stando nella navata e tenendo d'occhio la terza cappella. La luce era poca, e quando vedemmo Malachia emergere dal buio per raggiungere il suo stallo, non potemmo capire di dove esattamente uscisse. A ogni buon conto ci facemmo nell'ombra, nascondendoci nella navata laterale, perché nessuno vedesse che restavamo lì a ufficio terminato. Io avevo nel mio scapolare il lume che avevo sottratto in cucina durante la cena. L'avremmo acceso poi al gran tripode di bronzo che restava vivo tutta la notte. Avevo uno stoppino nuovo, e molto olio. Avremmo avuto luce per molto tempo. Ero troppo eccitato da quanto ci apprestavamo a fare per prestar attenzione al rito, il quale finì senza che quasi me ne accorgessi. I monaci si abbassarono i cappucci sul viso e uscirono in lenta fila per recarsi alle loro celle. La chiesa rimase deserta, illuminata dai bagliori del tripode. “Orsù,” disse Guglielmo. “Al lavoro.” Ci appressammo alla terza cappella. La base dell'altare era veramente simile a un ossario, una serie di teschi dalle occhiaie vuote e profonde incutevano timore ai riguardanti, posati come apparivano nel mirabile rilievo su un ammasso di tibie. Guglielmo ripeté a bassa voce le parole che aveva udito da Alinardo (quarto teschio a destra, spingi gli occhi). Introdusse le dita nelle occhiaie di quel volto scarnificato, e subito udimmo come un cigolio roco. L'altare si mosse, girando su un pernio occulto, lasciando intravvedere una apertura buia. Illuminandola col mio lume levato, scorgemmo degli scalini umidi. Decidemmo di scenderli dopo aver discusso se dovevamo richiuderci il passaggio dietro le nostre spalle. Meglio di no, disse Guglielmo, non sapevamo se avremmo poi potuto riaprirlo. E quanto al rischio di essere scoperti, se qualcuno arrivava a quell'ora a manovrare lo stesso meccanismo, era perché sapeva come entrare e non sarebbe stato arrestato da un passaggio chiuso. Scendemmo una decina e più di scalini e penetrammo in un corridoio sui cui lati si aprivano delle nicchie orizzontali, come più tardi mi accadde di vedere in molte catacombe. Ma era la prima volta che penetravo in un ossario, e ne provai molta paura. Le ossa dei monaci erano state raccolte lì nel corso dei secoli, disseppellite dalla terra, e ammassate nelle nicchie senza tentare di ricomporre la figura dei loro corpi. Però alcune nicchie avevano solo ossa minute, altre solo teschi, ben disposti quasi a piramide, in modo da non precipitare l'uno sull'altro, ed era spettacolo invero terrorizzante, specie con il gioco d'ombre e di luci che il lume creava lungo il nostro cammino. In una nicchia vidi solo mani, tante mani, ormai irrimediabilmente intrecciate l'una con l'altra, in un intrico di dita morte. Lanciai un urlo, in quel luogo di morti, provando per un momento l'impressione che vi fosse qualcosa di vivo, uno squittio, e un rapido movimento nell'ombra. “Topi,” mi rassicurò Guglielmo. “Cosa fanno i topi qui?” “Passano, come noi, perché l'ossario conduce all'Edificio, e quindi alla cucina. E ai buoni libri della biblioteca. E adesso capisci perché Malachia ha il volto così austero. Il suo ufficio lo obbliga a passare di qui due volte al giorno, alla sera e al mattino. Lui sì che non ha di che ridere.” “Ma perché il vangelo non dice mai che Cristo ridesse?” chiesi senza una buona ragione. “E' davvero come dice Jorge?” “Sono state legioni a domandarsi se Cristo abbia riso. La cosa non mi interessa gran che. Credo che non abbia mai riso perché, onnisciente come doveva essere il figlio di Dio, sapeva cosa avremmo fatto noi cristiani. Ma ecco che siamo arrivati.” E infatti, grazie a Dio, il corridoio era finito, iniziava una nuova serie di scalini, percorsi i quali non avemmo che spingere una porta di legno duro rinforzata di ferro, e ci trovammo dietro al camino della cucina, proprio sotto la scala a chiocciola che montava allo scriptorium. Mentre salivamo ci parve di udire un rumore di sopra. Ristemmo un attimo in silenzio, poi dissi: “E' impossibile. Nessuno è entrato prima di noi...” “Ammesso che questa fosse la sola via d'accesso all'Edificio. Nei secoli passati questa era una rocca, e deve avere più accessi segreti di quanto non sappiamo. Saliamo adagio. Ma abbiamo poco da scegliere. Se spegniamo il lume non sappiamo dove andiamo, se lo teniamo acceso diamo l'allarme a chi si trova di sopra. L'unica speranza è che, se c'è qualcuno, abbia più paura di noi.” Arrivammo nello scriptorium, emergendo dal torrione meridionale. Il tavolo di Venanzio stava proprio dalla parte opposta. Muovendoci non illuminavamo più di poche braccia di parete alla volta, perché la sala era troppo ampia. Sperammo che nessuno fosse nella corte e vedesse la luce trasparire dalle finestre. Il tavolo sembrava in ordine, ma Guglielmo si chinò subito a esaminare i fogli nello scaffale sottostante ed ebbe una esclamazione di disappunto. “Manca qualcosa?” chiesi. “Oggi ho visto qui due libri, e uno era in greco. Ed è quest'ultimo che manca. Qualcuno lo ha tolto, e in gran fretta, perché una pergamena è caduta qui a terra.” “Ma il tavolo era guardato...” “Certo. Forse qualcuno vi ha messo le mani solo poco fa. Forse è ancora qui.” Si voltò verso le ombre e la sua voce risuonò tra le colonne: “Se sei qui bada a te!” Mi parve una buona idea: come Guglielmo aveva già detto, è sempre meglio che chi ci incute paura abbia più paura di noi. Guglielmo posò il foglio che aveva trovato ai piedi del tavolo e vi avvicinò il volto. Mi chiese di fargli luce. Appressai il lume e scorsi una pagina bianca per la prima metà, e nella seconda coperta di caratteri minutissimi di cui riconobbi a fatica l'origine. “E' greco?” chiesi. “Sì, ma non capisco bene.” Trasse dal saio le sue lenti e le pose saldamente in sella al proprio naso, poi avvicinò ancora di più il volto. “E' greco, scritto molto piccolo, e tuttavia disordinatamente. Anche con le lenti leggo a fatica, occorrerebbe più luce. Avvicinati...” Aveva preso il foglio tenendolo davanti al volto, e io stolidamente invece di passargli dietro alle spalle tenendo il lume alto sulla sua testa, mi misi proprio davanti a lui. Egli mi chiese di spostarmi di lato, e nel farlo sfiorai con la fiamma il retro del foglio. Guglielmo mi cacciò con una spinta, dicendomi se volevo bruciargli il manoscritto, poi ebbe una esclamazione. Vidi chiaramente che sulla parte superiore della pagina erano apparsi alcuni segni imprecisi di un colore giallo bruno. Guglielmo si fece dare il lume e lo mosse dietro il foglio, tenendo la fiamma abbastanza vicina alla superficie della pergamena, così da scaldarla senza lambirla. Lentamente, come se una mano invisibile stesse tracciando “Mane, Tekel, Fares”, vidi disegnarsi sul verso bianco del foglio, a uno a uno, mano a mano che Guglielmo muoveva il lume, e mentre il fumo che scaturiva dal culmine della fiamma anneriva il recto, dei tratti che non assomigliavano a quelli di nessun alfabeto, se non a quello dei negromanti. “Fantastico!” disse Guglielmo. “Sempre più interessante!” Si guardò intorno: “Ma sarà meglio non esporre questa scoperta alle insidie del nostro ospite misterioso, se ancora è qui...” Si tolse le lenti e le posò sul tavolo, poi arrotolò con cura la pergamena e la nascose nel saio. Ancora sbalordito da quella sequenza di eventi a dir poco miracolosi, stavo per chiedergli altre spiegazioni, quando un rumore improvviso e secco ci distolse. Proveniva dai piedi della scala orientale che portava alla biblioteca. “Il nostro uomo è là, prendilo!” gridò Guglielmo e ci buttammo in quella direzione, lui più rapido, io più lentamente perché portavo il lume. Udii un fracasso di persona che incespica e cade, accorsi, trovai Guglielmo ai piedi della scala che osservava un pesante volume dalla coperta rinforzata di borchie metalliche. Nello stesso istante udimmo un altro rumore dalla direzione da cui eravamo venuti. “Stolto che sono!” gridò Guglielmo, “presto, al tavolo di Venanzio!” Capii, qualcuno che stava nell'ombra dietro di noi aveva gettato il volume per attirarci lontano. Ancora una volta Guglielmo fu più rapido di me e raggiunse il tavolo. Io seguendolo intravvidi tra le colonne un'ombra che fuggiva, infilando la scala del torrione occidentale. Preso da ardore guerriero, misi il lume in mano a Guglielmo e mi buttai alla cieca verso la scala da cui era sceso il fuggiasco. In quel momento mi sentivo come un soldato di Cristo in lotta con le legioni infernali tutte, e ardevo dal desiderio di mettere le mani sullo sconosciuto per consegnarlo al mio maestro. Ruzzolai quasi lungo le scale a chiocciola inciampando nei lembi della mia veste (quello fu l'unico momento della mia vita, lo giuro, che rimpiansi di essere entrato in un ordine monastico!) ma in quello stesso istante, e fu pensiero di un lampo, mi consolai all'idea che anche il mio avversario doveva soffrire dello stesso impaccio. E in più, se aveva sottratto il libro, doveva avere le mani occupate. Precipitai quasi nella cucina dietro il forno del pane e, alla luce della notte stellata che illuminava pallidamente il vasto androne, vidi l'ombra che inseguivo, che infilava la porta del refettorio tirandola dietro di sé. Mi precipitai verso di quella, faticai qualche secondo ad aprirla, entrai, mi guardai attorno, e non vidi più nessuno. La porta che dava sull'esterno era ancora sprangata. Mi voltai. Ombra e silenzio. Scorsi un bagliore venire dalla cucina e mi addossai a un muro. Sulla soglia di passaggio tra i due ambienti apparve una figura illuminata da un lume. Gridai. Era Guglielmo. “Non c'è più nessuno? Lo prevedevo. Colui non è uscito da una porta. Non ha infilato il passaggio dell'ossario?” “No, è uscito di qui, ma non so da dove!” “Te l'ho detto, ci sono altri passaggi, ed è inutile che li cerchiamo. Magari il nostro uomo sta riemergendo da qualche parte lontana. E con lui le mie lenti.” “Le vostre lenti?” “Proprio così. Il nostro amico non ha potuto sottrarmi il foglio ma, con grande presenza di spirito, passando ha afferrato dal tavolo i miei vetri.” “E perché?” “Perché non è uno sciocco. Mi ha sentito parlare di questi appunti, ha capito che erano importanti, ha pensato che senza le lenti non sarò in grado di decifrarli e sa per certo che non mi fiderò di mostrarli a nessuno. Infatti, ora è come se non li avessi.” “Ma come faceva a sapere delle vostre lenti?” “Suvvia, a parte il fatto che ne abbiamo parlato ieri col maestro vetraio, stamane nello scriptorium me le sono inforcate per frugare tra le carte di Venanzio. Quindi ci sono molte persone che potrebbero sapere quanto quegli oggetti fossero preziosi. E infatti potrei anche leggere un manoscritto normale, ma non questo,” e stava srotolando di nuovo la misteriosa pergamena, “dove la parte in greco è troppo piccola, e la parte superiore troppo incerta...” Mi mostrò i segni misteriosi che erano apparsi come d'incanto al calore della fiamma: “Venanzio voleva celare un segreto importante e ha usato uno di quegli inchiostri che scrivono senza lasciar traccia e riappaiono al calore. Oppure ha usato del succo di limone. Ma siccome non so che sostanza abbia usato e i segni potrebbero riscomparire, presto, tu che hai gli occhi buoni, ricopiali subito nel modo più fedele che puoi, e magari un poco più grandi.” E così feci, senza sapere cosa copiassi. Si trattava di una serie di quattro o cinque linee invero stregonesche, e riporto ora solo i primissimi segni, per dare al lettore una idea dell'enigma che avevamo davanti agli occhi. Quando ebbi copiato Guglielmo guardò, purtroppo senza lenti, tenendo la mia tavoletta a una buona distanza dal naso. “E' certamente un alfabeto segreto che occorrerà decifrare,” disse. “I segni sono tracciati male, e forse tu li hai ricopiati peggio, ma si tratta certamente di un alfabeto zodiacale. Vedi? Nella prima linea abbiamo...” allontanò ancora il foglio da sé, strinse gli occhi, con uno sforzo di concentrazione: “Sagittario, Sole, Mercurio, Scorpione...” “E cosa significano?” “Se Venanzio fosse stato un ingenuo avrebbe usato l'alfabeto zodiacale più comune: A uguale a Sole, B uguale a Giove... La prima linea si leggerebbe allora... prova a trascrivere: RAIQASVL...” S'interruppe. “No, non vuole dire nulla, e Venanzio non era ingenuo. Ha riformulato l'alfabeto secondo un'altra chiave. Dovrò scoprirla.” “E' possibile?” domandai ammirato. “Sì, se si conosce un poco della sapienza degli arabi. I migliori trattati di criptografia sono opera di sapienti infedeli, e a Oxford ho potuto farmene leggere qualcuno. Bacone aveva ragione a dire che la conquista del sapere passa attraverso la conoscenza delle lingue. Abu Bakr Ahmad ben Ali ben Washiyya an-Nabati ha scritto secoli fa un Libro del frenetico desiderio del devoto di apprendere gli enigmi delle antiche scritture e ha esposto molte regole per comporre e decifrare alfabeti misteriosi, buoni per pratiche di magìa, ma anche per la corrispondenza tra gli eserciti, o tra un re e i propri ambasciatori. Ho visto altri libri arabi che elencano una serie di artifici assai ingegnosi. Puoi per esempio sostituire una lettera con un'altra, puoi scrivere una parola a rovescio, puoi mettere le lettere in ordine inverso, ma prendendone una sì e una no, e poi ricominciando da capo, puoi come in questo caso sostituire le lettere con segni zodiacali, ma attribuendo alle lettere nascoste il loro valore numerico e poi, secondo un altro alfabeto, convertire i numeri in altre lettere...” “E quale di questi sistemi avrà usato Venanzio?” “Bisognerebbe provarli tutti, e altri ancora. Ma la prima regola per decifrare un messaggio è indovinare cosa voglia dire.” “Ma allora non c'è più bisogno di decifrarlo!” risi. “Non in questo senso. Si possono però formulare delle ipotesi su quelle che potrebbero essere le prime parole del messaggio, e poi vedere se la regola che se ne inferisce vale per tutto il resto dello scritto. Per esempio, qui Venanzio ha certamente annotato la chiave per penetrare nel finis Africae. Se io provo a pensare che il messaggio parli di questo, ecco che sono illuminato all'improvviso da un ritmo... Prova a guardare le prime tre parole, non considerare le lettere, considera solo il numero dei segni... llllllll lllll lllllll... Ora prova a dividere in sillabe di almeno due segni ciascuna, e recita ad alta voce: ta-ta-ta, ta-ta, ta-ta-ta... Non ti viene in mente nulla?” “A me no.” “E a me sì. Secretum finis Africae... Ma se così fosse l'ultima parola dovrebbe avere la prima e la sesta lettera uguali, e così infatti è, ecco due volte il simbolo della Terra. E la prima lettera della prima parola, la S, dovrebbe essere uguale all'ultima della seconda: e infatti ecco ripetuto il segno della Vergine. Forse è la strada buona. Però potrebbe trattarsi solo di una serie di coincidenze. Occorre trovare una regola di corrispondenza...” “Trovarla dove?” “Nella testa. Inventarla. E poi vedere se è quella vera. Ma tra una prova e l'altra il gioco potrebbe portarmi via una giornata intera. Non di più perché - ricordalo - non c'è scrittura segreta che non possa essere decifrata con un po' di pazienza. Ma ora rischiamo di far tardi e vogliamo visitare la biblioteca. Tanto più che senza lenti non riuscirò mai a leggere la seconda parte del messaggio, e tu non mi puoi aiutare perché questi segni, ai tuoi occhi...” “Graecum est, non legitur,” completai umiliato. “Appunto, e vedi che aveva ragione Bacone. Studia! Ma non perdiamoci d'animo. Riponiamo la pergamena e i tuoi appunti, e saliamo in biblioteca. Perché questa sera nemmeno dieci legioni infernali riusciranno a trattenerci.”. Mi segnai. “Ma chi può essere stato a precederci qui? Bencio?” “Bencio ardeva dalla voglia di sapere cosa ci fosse tra le carte di Venanzio, ma non mi pareva nello spirito di giocarci tiri così maliziosi. In fondo ci aveva proposto un'alleanza, e poi mi aveva l'aria di non avere il coraggio di entrare di notte nell'Edificio.” “Allora Berengario? O Malachia?” “Berengario mi sembra aver l'animo di far cose del genere. In fondo è corresponsabile della biblioteca, è roso dal rimorso di averne tradito qualche segreto, riteneva che Venanzio avesse sottratto quel libro e voleva forse riportarlo al posto da cui viene. Non è riuscito a salire, ora sta nascondendo il volume da qualche parte e potremo coglierlo sul fatto, se Dio ci assiste, quando tenterà di rimetterlo a posto.” “Ma potrebbe anche essere Malachia, mosso dalle stesse intenzioni.” “Direi di no. Malachia aveva avuto tutto il tempo che voleva per frugare nel tavolo di Venanzio quando è rimasto solo per chiudere l'Edificio. Lo sapevo benissimo e non avevo modo di evitarlo. Ora sappiamo che non l'ha fatto. E se ben rifletti, non abbiamo motivo per sospettare che Malachia sapesse che Venanzio era entrato in biblioteca sottraendo qualcosa. Questo lo sanno Berengario e Bencio e lo sappiamo tu e io. In seguito alla confessione di Adelmo potrebbe saperlo Jorge, ma non era certo lui l'uomo che si precipitava con tanta foga dalla scala a chiocciola...” “Allora o Berengario o Bencio...” “E perché no Pacifico da Tivoli o un altro dei monaci che abbiamo visto qui oggi? O Nicola il vetraio, che sa dei miei occhiali? O quel bizzarro personaggio di Salvatore, che ci han detto girar di notte per chissà quali faccende? Dobbiamo stare attenti a non restringere il campo dei sospetti solo perché le rivelazioni di Bencio ci hanno orientato in una sola direzione. Bencio forse voleva confonderci.” “Ma vi è parso sincero.” “Certo. Ma ricordati che il primo dovere di un buon inquisitore è quello di sospettare per primi coloro che ti paiono sinceri.” “Brutto lavoro quello dell'inquisitore,” dissi. “Per questo l'ho abbandonato. E come vedi mi tocca riprenderlo. Ma orsù, alla biblioteca.” Secondo giorno Notte Dove si penetra finalmente nel labirinto, si hanno strane visioni e, come accade nei labirinti, ci si perde Rimontammo allo scriptorium, questa volta per la scala orientale, che saliva anche al piano proibito, il lume alto davanti a noi. Io pensavo alle parole di Alinardo sul labirinto e mi attendevo cose spaventevoli. Fui sorpreso, come emergemmo nel luogo in cui non avremmo dovuto entrare, di trovarmi in una sala a sette lati, non molto ampia, priva di finestre, in cui regnava, come del resto in tutto il piano, un forte odore di stantio o di muffa. Nulla di terrificante. La sala, dissi, aveva sette pareti, ma solo su quattro di esse si apriva, tra due colonnine incassate nel muro, un varco, un passaggio abbastanza ampio sormontato da un arco a tutto sesto. Lungo le pareti chiuse si addossavano enormi armadi, carichi di libri disposti con regolarità. Gli armadi portavano un cartiglio numerato e così pure ogni loro singolo ripiano: chiaramente gli stessi numeri che avevamo visto nel catalogo. In mezzo alla stanza un tavolo, anch'esso ripieno di libri. Su tutti i volumi un velo abbastanza leggero di polvere, segno che i libri venivano puliti con una certa frequenza. E anche per terra non vi era lordura di sorta. Sopra all'arco di una delle porte, un grande cartiglio, dipinto sul muro che recava le parole: Apocalypsis Iesu Christi. Non pareva sbiadito, anche se i caratteri erano antichi. Ci avvedemmo dopo, anche nelle altre stanze, che questi cartigli erano in verità incisi nella pietra, e abbastanza profondamente, e poi le cavità erano state riempite con della tinta, come si usa per affrescare le chiese. Passammo per uno dei varchi. Ci trovammo in un'altra stanza, dove si apriva una finestra, che in luogo dei vetri portava lastre di alabastro, con due pareti piene e un varco, dello stesso tipo di quello da cui eravamo appena passati, che dava su un'altra stanza, la quale aveva due pareti piene anch'esse, una con finestra, e un'altra porta che si apriva davanti a noi. Nelle due stanze due cartigli simili nella forma al primo che avevamo visto, ma con altre parole. Il cartiglio della prima diceva: Super thronos viginti quatuor, e quello della seconda: Nomen illi mors. Per il resto, anche se le due stanze erano più piccole di quella da cui eravamo entrati in biblioteca (infatti quella era eptagonale e queste due rettangolari) l'arredo era lo stesso: armadi con libri e tavolo centrale. Accedemmo alla terza stanza. Essa era vuota di libri e senza cartiglio. Sotto alla finestra un altare di pietra. Vi erano tre porte, una da cui eravamo entrati, l'altra che dava sulla stanza eptagonale già visitata, una terza che ci immise in una nuova stanza, non dissimile dalle altre, salvo che per il cartiglio che diceva: Obscuratus est sol et aer. Di qui si passava a una nuova stanza, il cui cartiglio diceva Facta est grando et ignis; era priva di altre porte, ovvero, arrivati a quella stanza non si poteva procedere e occorreva tornare indietro. “Ragioniamo,” disse Guglielmo. “Cinque stanze quadrangolari o vagamente trapezoidali, con una finestra ciascuna, che girano intorno a una stanza eptagonale senza finestre a cui sale la scala. Mi pare elementare. Siamo nel torrione orientale, ogni torrione dall'esterno presenta cinque finestre e cinque lati. Il conto torna. La stanza vuota è proprio quella che guarda a oriente, nella stessa direzione del coro della chiesa, la luce del sole all'alba illumina l'altare, il che mi sembra giusto e pio. L'unica idea astuta mi pare quella delle lastre di alabastro. Di giorno filtrano una bella luce, di notte non lasciano trasparire neppure i raggi lunari. Non è poi un gran labirinto. Ora vediamo dove portano le altre due porte della stanza eptagonale. Credo che ci orienteremo facilmente.” Il mio maestro si sbagliava e i costruttori della biblioteca erano stati più abili di quanto credessimo. Non so bene spiegare cosa avvenne, ma come abbandonammo il torrione, l'ordine delle stanze si fece più confuso. Alcune avevano due, altre tre porte. Tutte avevano una finestra, anche quelle che imboccavamo partendo da una stanza con finestra e pensando di andare verso l'interno dell'Edificio. Ciascuna aveva sempre lo stesso tipo di armadi e di tavoli, i volumi in bell'ordine ammassati sembravano tutti uguali e non ci aiutavano certo a riconoscere il luogo con un colpo d'occhio. Tentammo di orientarci coi cartigli. Una volta avevamo attraversato una stanza in cui era scritto In diebus illis e dopo alcuni giri ci parve di essere tornati laggiù. Ma ricordavamo che la porta davanti alla finestra immetteva in una stanza in cui era scritto Primogenitus mortuorum, mentre ora ne trovavamo un'altra che diceva di nuovo Apocalypsis Iesu Christi, e non era la sala eptagonale da cui eravamo partiti. Questo fatto ci convinse che talora i cartigli si ripetevano uguali in stanze diverse. Trovammo due stanze con Apocalypsis una appresso all'altra, e subito dopo una con Cecidit de coelo stella magna. Da dove provenissero le frasi dei cartigli era evidente, si trattava di versetti dell'Apocalisse di Giovanni, ma non era affatto chiaro né perché fossero dipinti sui muri, né secondo quale logica fossero disposti. Ad accrescere la nostra confusione, rilevammo che alcuni cartigli, non molti, erano in color rosso anziché in nero. A un certo punto ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza (quella era riconoscibile perché vi si apriva l'imbocco della scala), e riprendemmo a muoverci verso la nostra destra cercando di andare diritti di stanza in stanza. Passammo per tre stanze e poi ci trovammo di fronte a una parete chiusa. L'unico passaggio immetteva in una nuova stanza che aveva solo un'altra porta, uscendo dalla quale percorremmo altre quattro stanze e ci trovammo di nuovo di fronte a una parete. Tornammo alla stanza precedente che aveva due uscite, imboccammo quella non ancora tentata, passammo in una nuova stanza, e ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza. “Come si chiamava l'ultima stanza da cui siamo tornati indietro?” chiese Guglielmo. Feci uno sforzo di memoria: “Equus albus.” “Bene, ritroviamola.” E fu facile. Di lì, se non si voleva tornare sui propri passi, non c'era che da passare alla stanza detta Gratia vobis et pax, e di lì a destra ci parve di trovare un nuovo passaggio che non ci riportasse indietro. In effetti trovammo ancora In diebus illis e Primogenitus mortuorum (erano le stesse stanze di poco prima?) ma infine giungemmo in una stanza che non ci pareva di aver ancora visitato: Tertia pars terrae combusta est. Ma a quel punto non sapevamo più dove eravamo rispetto al torrione orientale. Protendendo il lume in avanti mi spinsi nelle stanze seguenti. Un gigante di proporzioni minacciose, dal corpo ondulato e fluttuante come quello di un fantasma, mi venne incontro. “Un diavolo!” gridai e poco mancò mi cadesse il lume, mentre mi voltavo di colpo e mi rifugiavo tra le braccia di Guglielmo. Questi mi prese il lume dalle mani e scostandomi si fece avanti con una decisione che mi parve sublime. Vide anch'egli qualcosa, perché arretrò bruscamente. Poi si protese di nuovo in avanti e alzò la lucerna. Scoppiò a ridere. “Veramente ingegnoso. Uno specchio!” “Uno specchio?” “Sì, mio prode guerriero. Ti sei lanciato con tanto coraggio su un nemico vero, poco fa nello scriptorium, e ora ti spaventi di fronte alla tua immagine. Uno specchio, che ti rimanda la tua immagine ingrandita e distorta.” Mi prese per mano e mi condusse di fronte alla parete che fronteggiava l'ingresso della stanza. In una lastra di vetro ondulata, ora che il lume l'illuminava più da vicino, vidi le nostre due immagini, grottescamente deformate, che mutavano di forma e di altezza a seconda di quanto ci approssimassimo o ci allontanassimo. “Devi leggerti qualche trattato di ottica,” disse Guglielmo divertito, “come certo l'hanno letto i fondatori della biblioteca. I migliori sono quelli degli arabi. Alhazen compose un trattato De aspectibus in cui, con precise dimostrazioni geometriche, ha parlato della forza degli specchi. Alcuni dei quali, a seconda di come è modulata la loro superficie, possono ingrandire le cose più minuscole (e che altro sono le mie lenti?), altri fanno apparire le immagini rovesciate, o oblique, o mostrano due oggetti in luogo di uno, e quattro in luogo di due. Altri ancora, come questo, fanno di un nano un gigante o di un gigante un nano.” “Gesù Signore!” dissi. “Sono dunque queste le visioni che qualcuno dice di aver avuto in biblioteca?” “Forse. Un'idea davvero ingegnosa.” Lesse il cartiglio sul muro, sopra lo specchio: Super thronos viginti quatuor. “L'abbiamo già trovato, ma era una sala senza specchio. E questa tra l'altro non ha finestre, eppure non è eptagonale. Dove siamo?” Si guardò intorno e si avvicinò a un armadio: “Adso, senza quei benedetti oculi ad legendum non riesco a capire cosa ci sia scritto su questi libri. Leggimi qualche titolo.” Presi un libro a caso: “Maestro non è scritto!” “Come? Vedo che è scritto, cosa leggi?” “Non leggo. Non sono lettere dell'alfabeto e non è greco, lo riconoscerei. Sembrano vermi, serpentelli, caccole di mosche...” “Ah, è arabo. Ce ne sono altri così?” “Sì, alcuni. Ma eccone uno in latino, se Dio vuole. Al... Al Kuwarizmi, Tabulae.” “Le tavole astronomiche di Al Kuwarizmi, tradotte da Adelardo da Bath! Opera rarissima! Va avanti.” “Isa ibn Ali, De oculis, Alkindi, De radiis stellatis...” “Guarda ora sul tavolo.” Aprii un grande volume che giaceva sul tavolo, un De bestiis. Capitai su una pagina finemente miniata dove era rappresentato un bellissimo unicorno. “Bella fattura,” commentò Guglielmo che riusciva a vedere bene le immagini. “E quello?” Lessi: “Liber monstrorum de diversis generibus. Anche questo con belle immagini, ma mi paiono più antiche.” Guglielmo piegò il volto sul testo: “Miniato da monaci irlandesi, almeno cinque secoli fa. Il libro dell'unicorno è invece molto più recente, mi pare fatto al modo dei francesi.” Ancora una volta ammirai la dottrina del mio maestro. Entrammo nella stanza successiva e percorremmo le quattro stanze seguenti, tutte con finestre, e tutte piene di volumi in lingue ignote, più alcuni testi di scienze occulte, e arrivammo a una parete che ci costrinse a tornare indietro perché le ultime cinque stanze penetravano le une nelle altre senza consentire altre uscite. “Dall'inclinazione dei muri, dovremmo essere nel pentagono di un altro torrione,” disse Guglielmo, “ma non c'è la sala eptagonale centrale, forse ci sbagliamo.” “Ma le finestre?” dissi. “Come possono esserci tante finestre? Impossibile che tutte le stanze diano sull'esterno.” “Dimentichi il pozzo centrale, molte di quelle che abbiamo visto sono finestre che danno sull'ottagono del pozzo. Se fosse giorno, la differenza della luce ci direbbe quali sono le finestre esterne e quali le interne, e forse persino ci rivelerebbe la posizione della stanza rispetto al sole. Ma di sera non si avverte nessuna differenza. Torniamo indietro.” Ritornammo nella stanza dello specchio e piegammo verso la terza porta dalla quale ci pareva di non essere ancora passati. Vedemmo davanti a noi una fuga di tre o quattro stanze, e verso l'ultima intravvedemmo un chiarore. “C'è qualcuno!” esclamai con voce soffocata. “Se c'è, si è già accorto del nostro lume,” disse Guglielmo coprendo tuttavia la fiamma con la mano. Ristemmo per un minuto o due. Il chiarore continuava a oscillare lievemente, ma senza che si facesse più forte o più debole. “Forse è solo una lampada,” disse Guglielmo, “di quelle poste per convincere i monaci che la biblioteca è abitata dalle anime dei trapassati. Ma bisogna sapere. Tu stai qui coprendo il lume, io vado avanti con cautela.” Ancora vergognoso per la povera figura fatta avanti allo specchio, volli redimermi agli occhi di Guglielmo: “No, vado io,” dissi, “voi restate qui. Procederò cauto, sono più piccolo e più leggero. Appena mi renderò conto che non c'è rischio vi chiamerò.” E così feci. Procedetti per tre stanze camminando rasente i muri, leggero come un gatto (o come un novizio che scenda in cucina a rubar del cacio in dispensa, impresa in cui eccellevo a Melk). Arrivai alla soglia della stanza da cui proveniva il chiarore, assai debole, strisciando lungo il muro a ridosso della colonna che faceva da stipite destro e sbirciai nella stanza. Non c'era nessuno. Una specie di lampada era posata sul tavolo, accesa, e fumigava stentata. Non era una lucerna come la nostra, sembrava piuttosto un turibolo scoperto, non fiammeggiava, ma una cenere lieve covava bruciando qualcosa. Mi feci coraggio ed entrai. Sul tavolo accanto al turibolo giaceva aperto un libro dai colori vivaci. Mi appressai e scorsi sulla pagina quattro strisce di diverso colore, giallo, cinabro, turchese e terra bruciata. Vi campiva una bestia, orribile a vedersi, un gran dragone con dieci teste che con la coda si traeva dietro le stelle del cielo e le faceva precipitare sulla terra. E improvvisamente vidi che il dragone si moltiplicava, e le squame della sua pelle diventavano come una selva di scaglie rutilanti che si staccarono dal foglio e vennero a rotarmi intorno al capo. Mi arrovesciai indietro e vidi il soffitto della stanza che si inclinava e scendeva sopra di me, poi udii come un sibilo di mille serpenti, ma non spaventoso, quasi seducente, e apparve una donna circonfusa di luce che avvicinò il suo volto al mio alitandomi sul viso. L'allontanai con le mani tese e mi parve che le mie mani toccassero i libri dell'armadio di fronte, o che essi ingrandissero a dismisura. Non mi rendevo più conto di dove fossi, e dove fosse la terra e dove il cielo. Vidi al centro della stanza Berengario che mi fissava con un sorriso odioso, grondante di lussuria. Mi coprii il volto con le mani e le mie mani mi parvero gli arti di un rospo, viscide e palmate. Gridai, credo, sentii un sapore acidulo in bocca, poi sprofondai in un buio infinito, che sembrava si aprisse sempre di più sotto di me e non seppi più nulla. Mi risvegliai dopo un periodo che io reputai di secoli, sentendo dei colpi che mi rintronavano nella testa. Ero sdraiato al suolo e Guglielmo mi stava dando schiaffi sulle guance. Non ero più in quella stanza e i miei occhi scorsero un cartiglio che diceva Requiescant a laboribus suis. “Su su, Adso,” mi sussurrava Guglielmo. “Non è nulla...” “Le cose...” dissi ancora vaneggiando. “Laggiù, la bestia...” “Nessuna bestia. Ti ho trovato che deliravi ai piedi di un tavolo con sopra una bella apocalisse mozarabica, aperta sulla pagina della mulier amicta sole che fronteggia il dragone. Ma mi sono accorto dall'odore che tu avevi respirato qualcosa di cattivo e ti ho subito portato via. Anche a me duole il capo.” “Ma cosa ho visto?” “Non hai visto nulla. E' che laggiù bruciavano delle sostanze capaci di dar visioni, ho riconosciuto l'odore, è una cosa degli arabi, forse la stessa che il Veglio della Montagna dava ad aspirare ai suoi assassini prima di spingerli alle loro imprese.