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Aug 13, 2018

Project Content Solemn Dante Alighieri

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, 3 ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte 6 che nel pensier rinova la paura! Tant' è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, 9 dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. Io non so ben ridir com' i' v'intrai, tant' era pien di sonno a quel punto 12 che la verace via abbandonai. Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle 15 che m'avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de' raggi del pianeta 18 che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata 21 la notte ch'i' passai con tanta pieta. E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, 24 si volge a l'acqua perigliosa e guata, così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo 27 che non lasciò già mai persona viva. Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, 30 sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso. 3 Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggiera e presta molto, 33 che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, 36 ch'i' fui per ritornar più volte vòlto. Temp' era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle 39 ch'eran con lui quando l'amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch'a bene sperar m'era cagione 42 di quella fiera a la gaetta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse 45 la vista che m'apparve d'un leone. Questi parea che contra me venisse con la test' alta e con rabbiosa fame, 48 sì che parea che l'aere ne tremesse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, 51 e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch'uscia di sua vista, 54 ch'io perdei la speranza de l'altezza. E qual è quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, 57 che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi 'ncontro, a poco a poco 60 mi ripigneva là dove 'l sol tace. Mentre ch'i' rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto 63 chi per lungo silenzio parea fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, « Miserere di me», gridai a lui, 66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!». Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, 69 mantoani per patrïa ambedui. 4 Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto 72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, 75 poi che 'l superbo Ilïón fu combusto. Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte 78 ch'è principio e cagion di tutta gioia?». «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?», 81 rispuos' io lui con vergognosa fronte. «O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore 84 che m'ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui da cu' io tolsi 87 lo bello stilo che m'ha fatto onore. Vedi la bestia per cu' io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, 90 ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». «A te convien tenere altro vïaggio», rispuose, poi che lagrimar mi vide, 93 «se vuo' campar d'esto loco selvaggio; ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, 96 ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide; e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, 99 e dopo 'l pasto ha più fame che pria. Molti son li animali a cui s'ammoglia, e più saranno ancora, infin che 'l veltro 102 verrà, che la farà morir con doglia. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, 105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro. Di quella umile Italia fia salute per cui morì la vergine Cammilla, 108 Eurialo e Turno e Niso di ferute. 5 Questi la caccerà per ogne villa, fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno, 111 là onde 'nvidia prima dipartilla. Ond' io per lo tuo me' penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, 114 e trarrotti di qui per loco etterno; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, 117 ch'a la seconda morte ciascun grida; e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire 120 quando che sia a le beate genti. A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna: 123 con lei ti lascerò nel mio partire; ché quello imperador che là sù regna, perch' i' fu' ribellante a la sua legge, 126 non vuol che 'n sua città per me si vegna. In tutte parti impera e quivi regge; quivi è la sua città e l'alto seggio: 129 oh felice colui cu' ivi elegge!». E io a lui: «Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, 132 a ciò ch'io fugga questo male e peggio, che tu mi meni là dov' or dicesti, sì ch'io veggia la porta di san Pietro 135 e color cui tu fai cotanto mesti». Allor si mosse, e io li tenni dietro. 6 CANTO II [Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.] Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno toglieva li animai che sono in terra 3 da le fatiche loro; e io sol uno m'apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate, 6 che ritrarrà la mente che non erra. O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, 9 qui si parrà la tua nobilitate. Io cominciai: «Poeta che mi guidi, guarda la mia virtù s'ell' è possente, 12 prima ch'a l'alto passo tu mi fidi. Tu dici che di Silvïo il parente, corruttibile ancora, ad immortale 15 secolo andò, e fu sensibilmente. Però, se l'avversario d'ogne male cortese i fu, pensando l'alto effetto 18 ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale non pare indegno ad omo d'intelletto; ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero 21 ne l'empireo ciel per padre eletto: la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santo 24 u' siede il successor del maggior Piero. Per quest' andata onde li dai tu vanto, intese cose che furon cagione 27 di sua vittoria e del papale ammanto. Andovvi poi lo Vas d'elezïone, per recarne conforto a quella fede 30 ch'è principio a la via di salvazione. Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede? Io non Enëa, io non Paulo sono; 33 me degno a ciò né io né altri 'l crede. 7 Per che, se del venire io m'abbandono, temo che la venuta non sia folle. 36 Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono». E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta, 39 sì che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa, perché, pensando, consumai la 'mpresa 42 che fu nel cominciar cotanto tosta. «S'i' ho ben la parola tua intesa», rispuose del magnanimo quell' ombra, 45 «l'anima tua è da viltade offesa; la qual molte fïate l'omo ingombra sì che d'onrata impresa lo rivolve, 48 come falso veder bestia quand' ombra. Da questa tema acciò che tu ti solve, dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi 51 nel primo punto che di te mi dolve. Io era tra color che son sospesi, e donna mi chiamò beata e bella, 54 tal che di comandare io la richiesi. Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, 57 con angelica voce, in sua favella: "O anima cortese mantoana, di cui la fama ancor nel mondo dura, 60 e durerà quanto 'l mondo lontana, l'amico mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia è impedito 63 sì nel cammin, che vòlt' è per paura; e temo che non sia già sì smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata, 66 per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito. Or movi, e con la tua parola ornata e con ciò c'ha mestieri al suo campare, 69 l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata. I' son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; 72 amor mi mosse, che mi fa parlare. 8 Quando sarò dinanzi al segnor mio, di te mi loderò sovente a lui". 75 Tacette allora, e poi comincia' io: "O donna di virtù sola per cui l'umana spezie eccede ogne contento 78 di quel ciel c'ha minor li cerchi sui, tanto m'aggrada il tuo comandamento, che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi; 81 più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento. Ma dimmi la cagion che non ti guardi de lo scender qua giuso in questo centro 84 de l'ampio loco ove tornar tu ardi". "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, dirotti brievemente", mi rispuose, 87 "perch' i' non temo di venir qua entro. Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male; 90 de l'altre no, ché non son paurose. I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange, 93 né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale. Donna è gentil nel ciel che si compiange di questo 'mpedimento ov' io ti mando, 96 sì che duro giudicio là sù frange. Questa chiese Lucia in suo dimando e disse: — Or ha bisogno il tuo fedele 99 di te, e io a te lo raccomando —. Lucia, nimica di ciascun crudele, si mosse, e venne al loco dov' i' era, 102 che mi sedea con l'antica Rachele. Disse: — Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t'amò tanto, 105 ch'uscì per te de la volgare schiera? Non odi tu la pieta del suo pianto, non vedi tu la morte che 'l combatte 108 su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? —. Al mondo non fur mai persone ratte a far lor pro o a fuggir lor danno, 111 com' io, dopo cotai parole fatte, 9 venni qua giù del mio beato scanno, fidandomi del tuo parlare onesto, 114 ch'onora te e quei ch'udito l'hanno". Poscia che m'ebbe ragionato questo, li occhi lucenti lagrimando volse, 117 per che mi fece del venir più presto. E venni a te così com' ella volse: d'inanzi a quella fiera ti levai 120 che del bel monte il corto andar ti tolse. Dunque: che è? perché, perché restai, perché tanta viltà nel core allette, 123 perché ardire e franchezza non hai, poscia che tai tre donne benedette curan di te ne la corte del cielo, 126 e 'l mio parlar tanto ben ti promette?». Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, 129 si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec' io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, 132 ch'i' cominciai come persona franca: «Oh pietosa colei che mi soccorse! e te cortese ch'ubidisti tosto 135 a le vere parole che ti porse! Tu m'hai con disiderio il cor disposto sì al venir con le parole tue, 138 ch'i' son tornato nel primo proposto. Or va, ch'un sol volere è d'ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro». 141 Così li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro. 10 CANTO III [Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.] 'Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, 3 per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate, 6 la somma sapïenza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. 9 Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'. Queste parole di colore oscuro vid' ïo scritte al sommo d'una porta; 12 per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro». Ed elli a me, come persona accorta: «Qui si convien lasciare ogne sospetto; 15 ogne viltà convien che qui sia morta. Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto che tu vedrai le genti dolorose 18 c'hanno perduto il ben de l'intelletto». E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond' io mi confortai, 21 mi mise dentro a le segrete cose. Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle, 24 per ch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, 27 voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell' aura sanza tempo tinta, 30 come la rena quando turbo spira. E io ch'avea d'error la testa cinta, dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo? 33 e che gent' è che par nel duol sì vinta?». 11 Ed elli a me: «Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro 36 che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli 39 né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, 42 ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli». E io: «Maestro, che è tanto greve a lor che lamentar li fa sì forte?». 45 Rispuose: «Dicerolti molto breve. Questi non hanno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa, 48 che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: 51 non ragioniam di lor, ma guarda e passa». E io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta, 54 che d'ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch'i' non averei creduto 57 che morte tanta n'avesse disfatta. Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui 60 che fece per viltade il gran rifiuto. Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d'i cattivi, 63 a Dio spiacenti e a' nemici sui. Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto 66 da mosconi e da vespe ch'eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a' lor piedi 69 da fastidiosi vermi era ricolto. E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, vidi genti a la riva d'un gran fiume; 72 per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi 12 ch'i' sappia quali sono, e qual costume le fa di trapassar parer sì pronte, 75 com' i' discerno per lo fioco lume». Ed elli a me: «Le cose ti fier conte quando noi fermerem li nostri passi 78 su la trista riviera d'Acheronte». Allor con li occhi vergognosi e bassi, temendo no 'l mio dir li fosse grave, 81 infino al fiume del parlar mi trassi. Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, 84 gridando: «Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i' vegno per menarvi a l'altra riva 87 ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo. E tu che se' costì, anima viva, pàrtiti da cotesti che son morti». 90 Ma poi che vide ch'io non mi partiva, disse: «Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: 93 più lieve legno convien che ti porti». E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote 96 ciò che si vuole, e più non dimandare». Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier de la livida palude, 99 che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude, cangiar colore e dibattero i denti, 102 ratto che 'nteser le parole crude. Bestemmiavano Dio e lor parenti, l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme 105 di lor semenza e di lor nascimenti. Poi si ritrasser tutte quante insieme, forte piangendo, a la riva malvagia 108 ch'attende ciascun uom che Dio non teme. Caron dimonio, con occhi di bragia loro accennando, tutte le raccoglie; 111 batte col remo qualunque s'adagia. 13 Come d'autunno si levan le foglie l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo 114 vede a la terra tutte le sue spoglie, similemente il mal seme d'Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, 117 per cenni come augel per suo richiamo. Così sen vanno su per l'onda bruna, e avanti che sien di là discese, 120 anche di qua nuova schiera s'auna. «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese, «quelli che muoion ne l'ira di Dio 123 tutti convegnon qui d'ogne paese; e pronti sono a trapassar lo rio, ché la divina giustizia li sprona, 126 sì che la tema si volve in disio. Quinci non passa mai anima buona; e però, se Caron di te si lagna, 129 ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona». Finito questo, la buia campagna tremò sì forte, che de lo spavento 132 la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia 135 la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l'uom cui sonno piglia. 14 CANTO IV [Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.] Ruppemi l'alto sonno ne la testa un greve truono, sì ch'io mi riscossi 3 come persona ch'è per forza desta; e l'occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai 6 per conoscer lo loco dov' io fossi. Vero è che 'n su la proda mi trovai de la valle d'abisso dolorosa 9 che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, 12 io non vi discernea alcuna cosa. «Or discendiam qua giù nel cieco mondo», cominciò il poeta tutto smorto. 15 «Io sarò primo, e tu sarai secondo». E io, che del color mi fui accorto, dissi: «Come verrò, se tu paventi 18 che suoli al mio dubbiare esser conforto?». Ed elli a me: «L'angoscia de le genti che son qua giù, nel viso mi dipigne 21 quella pietà che tu per tema senti. Andiam, ché la via lunga ne sospigne». Così si mise e così mi fé intrare 24 nel primo cerchio che l'abisso cigne. Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri 27 che l'aura etterna facevan tremare; ciò avvenia di duol sanza martìri, ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, 30 d'infanti e di femmine e di viri. Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? 15 33 Or vo' che sappi, innanzi che più andi, ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, non basta, perché non ebber battesmo, 36 ch'è porta de la fede che tu credi; e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio: 39 e di questi cotai son io medesmo. Per tai difetti, non per altro rio, semo perduti, e sol di tanto offesi 42 che sanza speme vivemo in disio». Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, però che gente di molto valore 45 conobbi che 'n quel limbo eran sospesi. «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», comincia' io per volere esser certo 48 di quella fede che vince ogne errore: «uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?». 51 E quei che 'ntese il mio parlar coverto, rispuose: «Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, 54 con segno di vittoria coronato. Trasseci l'ombra del primo parente, d'Abèl suo figlio e quella di Noè, 57 di Moïsè legista e ubidente; Abraàm patrïarca e Davìd re, Israèl con lo padre e co' suoi nati 60 e con Rachele, per cui tanto fé, e altri molti, e feceli beati. E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, 63 spiriti umani non eran salvati». Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi, ma passavam la selva tuttavia, 66 la selva, dico, di spiriti spessi. Non era lunga ancor la nostra via di qua dal sonno, quand' io vidi un foco 69 ch'emisperio di tenebre vincia. Di lungi n'eravamo ancora un poco, ma non sì ch'io non discernessi in parte 16 72 ch'orrevol gente possedea quel loco. «O tu ch'onori scïenzïa e arte, questi chi son c'hanno cotanta onranza, 75 che dal modo de li altri li diparte?». E quelli a me: «L'onrata nominanza che di lor suona sù ne la tua vita, 78 grazïa acquista in ciel che sì li avanza». Intanto voce fu per me udita: «Onorate l'altissimo poeta; 81 l'ombra sua torna, ch'era dipartita». Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand' ombre a noi venire: 84 sembianz' avevan né trista né lieta. Lo buon maestro cominciò a dire: «Mira colui con quella spada in mano, 87 che vien dinanzi ai tre sì come sire: quelli è Omero poeta sovrano; l'altro è Orazio satiro che vene; 90 Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano. Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, 93 fannomi onore, e di ciò fanno bene». Così vid' i' adunar la bella scola di quel segnor de l'altissimo canto 96 che sovra li altri com' aquila vola. Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, 99 e 'l mio maestro sorrise di tanto; e più d'onore ancora assai mi fenno, ch'e' sì mi fecer de la loro schiera, 102 sì ch'io fui sesto tra cotanto senno. Così andammo infino a la lumera, parlando cose che 'l tacere è bello, 105 sì com' era 'l parlar colà dov' era. Venimmo al piè d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura, 108 difeso intorno d'un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: 17 111 giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne' lor sembianti: 114 parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci così da l'un de' canti, in loco aperto, luminoso e alto, 117 sì che veder si potien tutti quanti. Colà diritto, sovra 'l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, 120 che del vedere in me stesso m'essalto. I' vidi Eletra con molti compagni, tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea, 123 Cesare armato con li occhi grifagni. Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l'altra parte vidi 'l re Latino 126 che con Lavina sua figlia sedea. Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia; 129 e solo, in parte, vidi 'l Saladino. Poi ch'innalzai un poco più le ciglia, vidi 'l maestro di color che sanno 132 seder tra filosofica famiglia. Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid' ïo Socrate e Platone, 135 che 'nnanzi a li altri più presso li stanno; Democrito che 'l mondo a caso pone, Dïogenès, Anassagora e Tale, 138 Empedoclès, Eraclito e Zenone; e vidi il buono accoglitor del quale, Dïascoride dico; e vidi Orfeo, 141 Tulïo e Lino e Seneca morale; Euclide geomètra e Tolomeo, Ipocràte, Avicenna e Galïeno, 144 Averoìs, che 'l gran comento feo. Io non posso ritrar di tutti a pieno, però che sì mi caccia il lungo tema, 147 che molte volte al fatto il dir vien meno. La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, 18 150 fuor de la queta, ne l'aura che trema. E vegno in parte ove non è che luca. 19 CANTO V [Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini.] Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia 3 e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; 6 giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; 9 e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte 12 quantunque gradi vuol che giù sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio, 15 dicono e odono e poi son giù volte. «O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, 18 lasciando l'atto di cotanto offizio, «guarda com' entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». 21 E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride? Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote 24 ciò che si vuole, e più non dimandare». Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto 27 là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, 30 se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; 33 voltando e percotendo li molesta. 20 Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; 36 bestemmian quivi la virtù divina. Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, 39 che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, 42 così quel fiato li spiriti mali di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, 45 non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, 48 così vid' io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle 51 genti che l'aura nera sì gastiga?». «La prima di color di cui novelle tu vuo' saper», mi disse quelli allotta, 54 «fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, 57 per tòrre il biasmo in che era condotta. Ell' è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: 60 tenne la terra che 'l Soldan corregge. L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; 63 poi è Cleopatràs lussurïosa. Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, 66 che con amore al fine combatteo. Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, 69 ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, 72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 21 I' cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, 75 e paion sì al vento esser leggieri». Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega 78 per quello amor che i mena, ed ei verranno». Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, 81 venite a noi parlar, s'altri nol niega!». Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido 84 vegnon per l'aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov' è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, 87 sì forte fu l'affettüoso grido. «O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l'aere perso 90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, 93 poi c'hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, 96 mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende 99 per aver pace co' seguaci sui. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona 102 che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, 105 che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». 108 Queste parole da lor ci fuor porte. Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, 111 fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». 22 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio 114 menò costoro al doloroso passo!». Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 117 a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore 120 che conosceste i dubbiosi disiri?». E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice 123 ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, 126 dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; 129 soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; 132 ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, 135 questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: 138 quel giorno più non vi leggemmo avante». Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade 141 io venni men così com' io morisse. E caddi come corpo morto cade. 23 CANTO VI [Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la città di Fiorenza.] Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d'i due cognati, 3 che di trestizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch'io mi mova 6 e ch'io mi volga, e come che io guati. Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; 9 regola e qualità mai non l'è nova. Grandine grossa, acqua tinta e neve per l'aere tenebroso si riversa; 12 pute la terra che questo riceve. Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra 15 sovra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e 'l ventre largo, e unghiate le mani; 18 graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. Urlar li fa la pioggia come cani; de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; 21 volgonsi spesso i miseri profani. Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; 24 non avea membro che tenesse fermo. E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna 27 la gittò dentro a le bramose canne. Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, 30 ché solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona 24 33 l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde. Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante 36 sovra lor vanità che par persona. Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si levò, ratto 39 ch'ella ci vide passarsi davante. «O tu che se' per questo 'nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: 42 tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto». E io a lui: «L'angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, 45 sì che non par ch'i' ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente loco se' messo, e hai sì fatta pena, 48 che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente». Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena d'invidia sì che già trabocca il sacco, 51 seco mi tenne in la vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, 54 come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno 57 per simil colpa». E più non fé parola. Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita; 60 ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita; s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione 63 per che l'ha tanta discordia assalita». E quelli a me: «Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia 66 caccerà l'altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l'altra sormonti 69 con la forza di tal che testé piaggia. Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l'altra sotto gravi pesi, 25 72 come che di ciò pianga o che n'aonti. Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono 75 le tre faville c'hanno i cuori accesi». Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni 78 e che di più parlar mi facci dono. Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca 81 e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere 84 se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca». E quelli: «Ei son tra l'anime più nere; diverse colpe giù li grava al fondo: 87 se tanto scendi, là i potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: 90 più non ti dico e più non ti rispondo». Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: 93 cadde con essa a par de li altri ciechi. E 'l duca disse a me: «Più non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, 96 quando verrà la nimica podesta: ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, 99 udirà quel ch'in etterno rimbomba». Sì trapassammo per sozza mistura de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, 102 toccando un poco la vita futura; per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti crescerann' ei dopo la gran sentenza, 105 o fier minori, o saran sì cocenti?». Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, 108 più senta il bene, e così la doglienza. Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, 26 111 di là più che di qua essere aspetta». Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch'i' non ridico; 114 venimmo al punto dove si digrada: quivi trovammo Pluto, il gran nemico. 27 CANTO VII [Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.] « Pape Satàn, pape Satàn aleppe! », cominciò Pluto con la voce chioccia; 3 e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch'elli abbia, 6 non ci torrà lo scender questa roccia». Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! 9 consuma dentro te con la tua rabbia. Non è sanza cagion l'andare al cupo: vuolsi ne l'alto, là dove Michele 12 fé la vendetta del superbo strupo». Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, 15 tal cadde a terra la fiera crudele. Così scendemmo ne la quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa 18 che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant' io viddi? 21 e perché nostra colpa sì ne scipa? Come fa l'onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, 24 così convien che qui la gente riddi. Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand' urli, 27 voltando pesi per forza di poppa. Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, 30 gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, 33 gridandosi anche loro ontoso metro; 28 poi si volgea ciascun, quand' era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. 36 E io, ch'avea lo cor quasi compunto, dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci 39 questi chercuti a la sinistra nostra». Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, 42 che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l'abbaia, quando vegnono a' due punti del cerchio 45 dove colpa contraria li dispaia. Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, 48 in cui usa avarizia il suo soperchio». E io: «Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni 51 che furo immondi di cotesti mali». Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi, 54 ad ogne conoscenza or li fa bruni. In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro 57 col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: 60 qual ella sia, parole non ci appulcro. Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d'i ben che son commessi a la fortuna, 63 per che l'umana gente si rabuffa; ché tutto l'oro ch'è sotto la luna e che già fu, di quest' anime stanche 66 non poterebbe farne posare una». «Maestro mio», diss' io, «or mi dì anche: questa fortuna di che tu mi tocche, 69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v'offende! 72 Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. 29 Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce 75 sì, ch'ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani 78 ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d'uno in altro sangue, 81 oltre la difension d'i senni umani; per ch'una gente impera e l'altra langue, seguendo lo giudicio di costei, 84 che è occulto come in erba l'angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue 87 suo regno come il loro li altri dèi. Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce; 90 sì spesso vien chi vicenda consegue. Quest' è colei ch'è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, 93 dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s'è beata e ciò non ode: con l'altre prime creature lieta 96 volve sua spera e beata si gode. Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva 99 quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta». Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr' una fonte che bolle e riversa 102 per un fossato che da lei deriva. L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, 105 intrammo giù per una via diversa. In la palude va c'ha nome Stige questo tristo ruscel, quand' è disceso 108 al piè de le maligne piagge grige. E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, 111 ignude tutte, con sembiante offeso. 30 Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, 114 troncandosi co' denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira; 117 e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest' acqua al summo, 120 come l'occhio ti dice, u' che s'aggira. Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, 123 portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra". Quest' inno si gorgoglian ne la strozza, 126 ché dir nol posson con parola integra». Così girammo de la lorda pozza grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, 129 con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. Venimmo al piè d'una torre al da sezzo. 31 CANTO VIII [Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d'inferno detta Dite.] Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al piè de l'alta torre, 3 li occhi nostri n'andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un'altra da lungi render cenno, 6 tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde 9 quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?». Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s'aspetta, 12 se 'l fummo del pantan nol ti nasconde». Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l'aere snella, 15 com' io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto, 18 che gridava: «Or se' giunta, anima fella!». «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta: 21 più non ci avrai che sol passando il loto». Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, 24 fecesi Flegïàs ne l'ira accolta. Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; 27 e sol quand' io fui dentro parve carca. Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora 30 de l'acqua più che non suol con altrui. Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, 32 33 e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?». E io a lui: «S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?». 36 Rispuose: «Vedi che son un che piango». E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; 39 ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto». Allor distese al legno ambo le mani; per che 'l maestro accorto lo sospinse, 42 dicendo: «Via costà con li altri cani!». Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa, 45 benedetta colei che 'n te s'incinse! Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: 48 così s'è l'ombra sua qui furïosa. Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, 51 di sé lasciando orribili dispregi!». E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda 54 prima che noi uscissimo del lago». Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: 57 di tal disïo convien che tu goda». Dopo ciò poco vid' io quello strazio far di costui a le fangose genti, 60 che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e 'l fiorentino spirito bizzarro 63 in sé medesmo si volvea co' denti. Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, 66 per ch'io avante l'occhio intento sbarro. Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s'appressa la città c'ha nome Dite, 69 coi gravi cittadin, col grande stuolo». E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, 33 72 vermiglie come se di foco uscite fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch'entro l'affoca le dimostra rosse, 75 come tu vedi in questo basso inferno». Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse che vallan quella terra sconsolata: 78 le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte 81 «Usciteci», gridò: «qui è l'intrata». Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente 84 dicean: «Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?». E 'l savio mio maestro fece segno 87 di voler lor parlar segretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada 90 che sì ardito intrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, 93 che li ha' iscorta sì buia contrada». Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, 96 ché non credetti ritornarci mai. «O caro duca mio, che più di sette volte m'hai sicurtà renduta e tratto 99 d'alto periglio che 'ncontra mi stette, non mi lasciar», diss' io, «così disfatto; e se 'l passar più oltre ci è negato, 102 ritroviam l'orme nostre insieme ratto». E quel segnor che lì m'avea menato, mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo 105 non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato. Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, 108 ch'i' non ti lascerò nel mondo basso». Così sen va, e quivi m'abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, 34 111 che sì e no nel capo mi tenciona. Udir non potti quello ch'a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, 114 che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase 117 e rivolsesi a me con passi rari. Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: 120 «Chi m'ha negate le dolenti case!». E a me disse: «Tu, perch' io m'adiri, non sbigottir, ch'io vincerò la prova, 123 qual ch'a la difension dentro s'aggiri. Questa lor tracotanza non è nova; ché già l'usaro a men segreta porta, 126 la qual sanza serrame ancor si trova. Sovr' essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l'erta, 129 passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta». 35 CANTO IX [Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite, la qual si è nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi messa la qualità de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro altra fiata.] Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, 3 più tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermò com' uom ch'ascolta; ché l'occhio nol potea menare a lunga 6 per l'aere nero e per la nebbia folta. «Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse. 9 Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!». I' vidi ben sì com' ei ricoperse lo cominciar con l'altro che poi venne, 12 che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perch' io traeva la parola tronca 15 forse a peggior sentenzia che non tenne. «In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, 18 che sol per pena ha la speranza cionca?». Questa question fec' io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi 21 faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver è ch'altra fïata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda 24 che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro, 27 per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro, e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: 30 ben so 'l cammin; però ti fa sicuro. Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, 33 u' non potemo intrare omai sanz' ira». 36 E altro disse, ma non l'ho a mente; però che l'occhio m'avea tutto tratto 36 ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furïe infernal di sangue tinte, 39 che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, 42 onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto, 45 «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. Quest' è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; 48 Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan sì alto, 51 ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto. «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; 54 «mal non vengiammo in Tesëo l'assalto». «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, 57 nulla sarebbe di tornar mai suso». Così disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, 60 che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde 63 sotto 'l velame de li versi strani. E già venìa su per le torbide onde un fracasso d'un suon, pien di spavento, 66 per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetüoso per li avversi ardori, 69 che fier la selva e sanz' alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, 72 e fa fuggir le fiere e li pastori. 37 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica 75 per indi ove quel fummo è più acerbo». Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte, 78 fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid' io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo 81 passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell' aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; 84 e sol di quell' angoscia parea lasso. Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno 87 ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta 90 l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno. «O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l'orribil soglia, 93 «ond' esta oltracotanza in voi s'alletta? Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, 96 e che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, 99 ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo». Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante 102 d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver' la terra, 105 sicuri appresso le parole sante. Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio 108 la condizion che tal fortezza serra, com' io fui dentro, l'occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, 111 piena di duolo e di tormento rio. 38 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com' a Pola, presso del Carnaro 114 ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt' il loco varo, così facevan quivi d'ogne parte, 117 salvo che 'l modo v'era più amaro; ché tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, 120 che ferro più non chiede verun' arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n'uscivan sì duri lamenti, 123 che ben parean di miseri e d'offesi. E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell' arche, 126 si fan sentir coi sospiri dolenti?». E quelli a me: «Qui son li eresïarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto 129 più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». 132 E poi ch'a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martìri e li alti spaldi. 39 CANTO X [Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.] Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martìri, 3 lo mio maestro, e io dopo le spalle. «O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «com' a te piace, 6 parlami, e sodisfammi a' miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati 9 tutt' i coperchi, e nessun guardia face». E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno 12 coi corpi che là sù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, 15 che l'anima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quinc' entro satisfatto sarà tosto, 18 e al disio ancor che tu mi taci». E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, 21 e tu m'hai non pur mo a ciò disposto». «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, 24 piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patrïa natio, 27 a la qual forse fui troppo molesto». Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, 30 temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto: 33 da la cintola in sù tutto 'l vedrai». 40 Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte 36 com' avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, 39 dicendo: «Le parole tue sien conte». Com' io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, 42 mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». Io ch'era d'ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel' apersi; 45 ond' ei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: «Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, 48 sì che per due fïate li dispersi». «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte», rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata; 51 ma i vostri non appreser ben quell' arte». Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: 54 credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco; 57 e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, 60 mio figlio ov' è? e perché non è teco?». E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena 63 forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; 66 però fu la risposta così piena. Di sùbito drizzato gridò: «Come? dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora? 69 non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facëa dinanzi a la risposta, 72 supin ricadde e più non parve fora. 41 Ma quell' altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto, 75 né mosse collo, né piegò sua costa; e sé continüando al primo detto, «S'elli han quell' arte», disse, «male appresa, 78 ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, 81 che tu saprai quanto quell' arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio 84 incontr' a' miei in ciascuna sua legge?». Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, 87 tal orazion fa far nel nostro tempio». Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu' io sol», disse, «né certo 90 sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu' io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, 93 colui che la difesi a viso aperto». «Deh, se riposi mai vostra semenza», prega' io lui, «solvetemi quel nodo 96 che qui ha 'nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, 99 e nel presente tenete altro modo». «Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; 102 cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, 105 nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto 108 che del futuro fia chiusa la porta». Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto 111 che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; 42 e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l fei perché pensava 114 già ne l'error che m'avete soluto». E già 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto più avaccio 117 che mi dicesse chi con lu' istava. Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è 'l secondo Federico 120 e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio». Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando 123 a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?». 126 E io li sodisfeci al suo dimando. «La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te», mi comandò quel saggio; 129 «e ora attendi qui», e drizzò 'l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell' occhio tutto vede, 132 da lei saprai di tua vita il vïaggio». Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo 135 per un sentier ch'a una valle fiede, che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo. 43 CANTO XI [Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione.] In su l'estremità d'un'alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, 3 venimmo sopra più crudele stipa; e quivi, per l'orribile soperchio del puzzo che 'l profondo abisso gitta, 6 ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta che dicea: 'Anastasio papa guardo, 9 lo qual trasse Fotin de la via dritta'. «Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s'ausi un poco in prima il senso 12 al tristo fiato; e poi no i fia riguardo». Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che 'l tempo non passi 15 perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso». «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», cominciò poi a dir, «son tre cerchietti 18 di grado in grado, come que' che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, 21 intendi come e perché son costretti. D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale 24 o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de l'uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto 27 li frodolenti, e più dolor li assale. Di vïolenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, 30 in tre gironi è distinto e costrutto. A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, 33 come udirai con aperta ragione. 44 Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere 36 ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta 39 lo giron primo per diverse schiere. Puote omo avere in sé man vïolenta e ne' suoi beni; e però nel secondo 42 giron convien che sanza pro si penta qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, 45 e piange là dov' esser de' giocondo. Puossi far forza ne la deïtade, col cor negando e bestemmiando quella, 48 e spregiando natura e sua bontade; e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa 51 e chi, spregiando Dio col cor, favella. La frode, ond' ogne coscïenza è morsa, può l'omo usare in colui che 'n lui fida 54 e in quel che fidanza non imborsa. Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; 57 onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, 60 ruffian, baratti e simile lordura. Per l'altro modo quell' amor s'oblia che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, 63 di che la fede spezïal si cria; onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto de l'universo in su che Dite siede, 66 qualunque trade in etterno è consunto». E io: «Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue 69 questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, 72 e che s'incontran con sì aspre lingue, 45 perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? 75 e se non li ha, perché sono a tal foggia?». Ed elli a me «Perché tanto delira», disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle? 78 o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta 81 le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza 84 men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli 87 che sù di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata 90 la divina vendetta li martelli». «O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, 93 che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. Ancora in dietro un poco ti rivolvi», diss' io, «là dove di' ch'usura offende 96 la divina bontade, e 'l groppo solvi». «Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte, 99 come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, 102 tu troverai, non dopo molte carte, che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; 105 sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene 108 prender sua vita e avanzar la gente; e perché l'usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace 111 dispregia, poi ch'in altro pon la spene. 46 Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, 114 e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via là oltra si dismonta». 47 CANTO XII [Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio d'inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de' tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume.] Era lo loco ov' a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco, 3 tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva. Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse, 6 o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, 9 ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca 12 l'infamïa di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, 15 sì come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, 18 che sù nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, 21 ma vassi per veder le vostre pene». Qual è quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto già 'l colpo mortale, 24 che gir non sa, ma qua e là saltella, vid' io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: «Corri al varco; 27 mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale». Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi 30 sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina, ch'è guardata 33 da quell' ira bestial ch'i' ora spensi. 48 Or vo' che sappi che l'altra fïata ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, 36 questa roccia non era ancor cascata. Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda 39 levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti l'alta valle feda tremò sì, ch'i' pensai che l'universo 42 sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, 45 qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle 48 qual che per vïolenza in altrui noccia». Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, 51 e ne l'etterna poi sì mal c'immolle! Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, 54 secondo ch'avea detto la mia scorta; e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, 57 come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro 60 con archi e asticciuole prima elette; e l'un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa? 63 Ditel costinci; se non, l'arco tiro». Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: 66 mal fu la voglia tua sempre sì tosta». Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, 69 e fé di sé la vendetta elli stesso. E quel di mezzo, ch'al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; 72 quell' altro è Folo, che fu sì pien d'ira. 49 Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle 75 del sangue più che sua colpa sortille». Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca 78 fece la barba in dietro a le mascelle. Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: «Siete voi accorti 81 che quel di retro move ciò ch'el tocca? Così non soglion far li piè d'i morti». E 'l mio buon duca, che già li er' al petto, 84 dove le due nature son consorti, rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; 87 necessità 'l ci 'nduce, e non diletto. Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest' officio novo: 90 non è ladron, né io anima fuia. Ma per quella virtù per cu' io movo li passi miei per sì selvaggia strada, 93 danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri là dove si guada, e che porti costui in su la groppa, 96 ché non è spirto che per l'aere vada». Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, 99 e fa cansar s'altra schiera v'intoppa». Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, 102 dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni 105 che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dïonisio fero 108 che fé Cicilia aver dolorosi anni. E quella fronte c'ha 'l pel così nero, è Azzolino; e quell' altro ch'è biondo, 111 è Opizzo da Esti, il qual per vero 50 fu spento dal figliastro sù nel mondo». Allor mi volsi al poeta, e quei disse: 114 «Questi ti sia or primo, e io secondo». Poco più oltre il centauro s'affisse sovr' una gente che 'nfino a la gola 117 parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio 120 lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola». Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; 123 e di costoro assai riconobb' io. Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; 126 e quindi fu del fosso il nostro passo. «Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema», 129 disse 'l centauro, «voglio che tu credi che da quest' altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge 132 ove la tirannia convien che gema. La divina giustizia di qua punge quell' Attila che fu flagello in terra, 135 e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, 138 che fecero a le strade tanta guerra». Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo. 51 CANTO XIII [Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone ch'è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni.] Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco 3 che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; 6 non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco. Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno 9 tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani 12 con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; 15 fanno lamenti in su li alberi strani. E 'l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone», 18 mi cominciò a dire, «e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai 21 cose che torrien fede al mio sermone». Io sentia d'ogne parte trarre guai e non vedea persona che 'l facesse; 24 per ch'io tutto smarrito m'arrestai. Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, 27 da gente che per noi si nascondesse. Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, 30 li pensier c'hai si faran tutti monchi». Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; 33 e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 52 Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? 36 non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb' esser la tua man più pia, 39 se state fossimo anime di serpi». Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de' capi, che da l'altro geme 42 e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond' io lasciai la cima 45 cadere, e stetti come l'uom che teme. «S'elli avesse potuto creder prima», rispuose 'l savio mio, «anima lesa, 48 ciò c'ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece 51 indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi 54 nel mondo sù, dove tornar li lece». E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi 57 perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, 60 serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi; fede portai al glorïoso offizio, 63 tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, 66 morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, 69 che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, 72 ingiusto fece me contra me giusto. 53 Per le nove radici d'esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede 75 al mio segnor, che fu d'onor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace 78 ancor del colpo che 'nvidia le diede». Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», disse 'l poeta a me, «non perder l'ora; 81 ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; 84 ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora». Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, 87 spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, 90 s'alcuna mai di tai membra si spiega». Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: 93 «Brievemente sarà risposto a voi. Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta, 96 Minòs la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, 99 quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, 102 fanno dolore, e al dolor fenestra. Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, 105 ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, 108 ciascuno al prun de l'ombra sua molesta». Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, 111 quando noi fummo d'un romor sorpresi, 54 similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, 114 ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, 117 che de la selva rompieno ogne rosta. Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». E l'altro, cui pareva tardar troppo, 120 gridava: «Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!». E poi che forse li fallia la lena, 123 di sé e d'un cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti 126 come veltri ch'uscisser di catena. In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; 129 poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea 132 per le rotture sanguinenti in vano. «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? 135 che colpa ho io de la tua vita rea?». Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo, disse: «Chi fosti, che per tante punte 138 soffi con sangue doloroso sermo?». Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto 141 c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto. I' fui de la città che nel Batista 144 mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno 147 rimane ancor di lui alcuna vista, que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, 150 avrebber fatto lavorare indarno. 55 Io fei gibetto a me de le mie case». 56 CANTO XIV [Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone, contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo scelleratissimo in questo preditto peccato.] Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte 3 e rende'le a colui, ch'era già fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove 6 si vede di giustizia orribil arte. A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa 9 che dal suo letto ogne pianta rimove. La dolorosa selva l'è ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa; 12 quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei 15 che fu da' piè di Caton già soppressa. O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge 18 ciò che fu manifesto a li occhi mei! D'anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, 21 e parea posta lor diversa legge. Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, 24 e altra andava continüamente. Quella che giva 'ntorno era più molta, e quella men che giacëa al tormento, 27 ma più al duolo avea la lingua sciolta. Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde, 30 come di neve in alpe sanza vento. Quali Alessandro in quelle parti calde d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo 33 fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo 57 con le sue schiere, acciò che lo vapore 36 mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore; onde la rena s'accendea, com' esca 39 sotto focile, a doppiar lo dolore. Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci 42 escotendo da sé l'arsura fresca. I' cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri 45 ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, 48 sì che la pioggia non par che 'l marturi?». E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, 51 gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta 54 onde l'ultimo dì percosso fui; o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, 57 chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", sì com' el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: 60 non ne potrebbe aver vendetta allegra». Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito: 63 «O Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, 66 sarebbe al tuo furor dolor compito». Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi 69 ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti 72 sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti, 58 ancor, li piedi ne la rena arsiccia; 75 ma sempre al bosco tien li piedi stretti». Tacendo divenimmo là 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, 78 lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, 81 tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo e ambo le pendici fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato; 84 per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. «Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta 87 lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com' è 'l presente rio, 90 che sovra sé tutte fiammelle ammorta». Queste parole fuor del duca mio; per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto 93 di cui largito m'avëa il disio. «In mezzo mar siede un paese guasto», diss' elli allora, «che s'appella Creta, 96 sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. Una montagna v'è che già fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida; 99 or è diserta come cosa vieta. Rëa la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, 102 quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver' Dammiata 105 e Roma guarda come süo speglio. La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e 'l petto, 108 poi è di rame infino a la forcata; da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta; 111 e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto. Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta 59 d'una fessura che lagrime goccia, 114 le quali, accolte, fóran quella grotta. Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; 117 poi sen van giù per questa stretta doccia, infin, là dove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno 120 tu lo vedrai, però qui non si conta». E io a lui: «Se 'l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, 123 perché ci appar pur a questo vivagno?». Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, 126 pur a sinistra, giù calando al fondo, non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto; per che, se cosa n'apparisce nova, 129 non de' addur maraviglia al tuo volto». E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l'un taci, 132 e l'altro di' che si fa d'esta piova». «In tutte tue question certo mi piaci», rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa 135 dovea ben solver l'una che tu faci. Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l'anime a lavarsi 138 quando la colpa pentuta è rimossa». Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: 141 li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne». 60 CANTO XV [Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade, spregiando natura e sua bontade, sì come sono li soddomiti.] Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, 3 sì che dal foco salva l'acqua e li argini. Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, 6 fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, 9 anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, 12 qual che si fosse, lo maestro félli. Già eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov' era, 15 perch' io in dietro rivolto mi fossi, quando incontrammo d'anime una schiera che venian lungo l'argine, e ciascuna 18 ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver' noi aguzzavan le ciglia 21 come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese 24 per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, 27 sì che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza süa al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, 30 rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco 33 ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia». 61 I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, 36 faròl, se piace a costui che vo seco». «O figliuol», disse, «qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent' anni 39 sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia. Però va oltre: i' ti verrò a' panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, 42 che va piangendo i suoi etterni danni». Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino 45 tenea com' uom che reverente vada. El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? 48 e chi è questi che mostra 'l cammino?». «Là sù di sopra, in la vita serena», rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle, 51 avanti che l'età mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand' ïo in quella, 54 e reducemi a ca per questo calle». Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorïoso porto, 57 se ben m'accorsi ne la vita bella; e s'io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, 60 dato t'avrei a l'opera conforto. Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, 63 e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico; ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi 66 si disconvien fruttare al dolce fico. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent' è avara, invidiosa e superba: 69 dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame 72 di te; ma lungi fia dal becco l'erba. 62 Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, 75 s'alcuna surge ancora in lor letame, in cui riviva la sementa santa di que' Roman che vi rimaser quando 78 fu fatto il nido di malizia tanta». «Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos' io lui, «voi non sareste ancora 81 de l'umana natura posto in bando; ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna 84 di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo 87 convien che ne la mia lingua si scerna. Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo 90 a donna che saprà, s'a lei arrivo. Tanto vogl' io che vi sia manifesto, pur che mia coscïenza non mi garra, 93 ch'a la Fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota 96 come le piace, e 'l villan la sua marra». Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi; 99 poi disse: «Bene ascolta chi la nota». Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono 102 li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, 105 ché 'l tempo saria corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, 108 d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, 111 s'avessi avuto di tal tigna brama, 63 colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, 114 dove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone più lungo esser non può, però ch'i' veggio 117 là surger nuovo fummo del sabbione. Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro, 120 nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde 123 per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. 64 CANTO XVI [Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello medesimo cerchio e di quello medesimo peccato.] Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, 3 simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava 6 sotto la pioggia de l'aspro martiro. Venian ver' noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri 9 essere alcun di nostra terra prava». Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese! 12 Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese; volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta», 15 disse, «a costor si vuole esser cortese. E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei 18 che meglio stesse a te che a lor la fretta». Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, 21 fenno una rota di sé tutti e trei. Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, 24 prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che 'n contraro il collo 27 faceva ai piè continüo vïaggio. E «Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», 30 cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi 33 così sicuro per lo 'nferno freghi. 65 Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, 36 fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita 39 fece col senno assai e con la spada. L'altro, ch'appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce 42 nel mondo sù dovria esser gradita. E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo 45 la fiera moglie più ch'altro mi nuoce». S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, 48 e credo che 'l dottor l'avria sofferto; ma perch' io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia 51 che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, 54 tanta che tardi tutta si dispoglia, tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai 57 che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi 60 con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; 63 ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi». «Se lungamente l'anima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, 66 «e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, 69 o se del tutto se n'è gita fora; ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, 72 assai ne cruccia con le sue parole». 66 «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, 75 Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, 78 guardar l'un l'altro com' al ver si guata. «Se l'altre volte sì poco ti costa», rispuoser tutti, «il satisfare altrui, 81 felice te se sì parli a tua posta! Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, 84 quando ti gioverà dicere "I' fui", fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi 87 ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria possuto dirsi tosto così com' e' fuoro spariti; 90 per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino, 93 che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, 96 da la sinistra costa d'Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, 99 e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa 102 ove dovea per mille esser recetto; così, giù d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell' acqua tinta, 105 sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta 108 prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, sì come 'l duca m'avea comandato, 111 porsila a lui aggroppata e ravvolta. 67 Ond' ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda 114 la gittò giuso in quell' alto burrato. «E' pur convien che novità risponda», dicea fra me medesmo, «al novo cenno 117 che 'l maestro con l'occhio sì seconda». Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, 120 ma per entro i pensier miran col senno! El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna; 123 tosto convien ch'al tuo viso si scovra». Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, 126 però che sanza colpa fa vergogna; ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, 129 s'elle non sien di lunga grazia vòte, ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, 132 maravigliosa ad ogne cor sicuro, sì come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa 135 o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n sù si stende e da piè si rattrappa. 68 CANTO XVII [Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra '1 quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.] «Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l'armi! 3 Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!». Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda, 6 vicino al fin d'i passeggiati marmi. E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, 9 ma 'n su la riva non trasse la coda. La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, 12 e d'un serpente tutto l'altro fusto; due branche avea pilose insin l'ascelle; lo dosso e 'l petto e ambedue le coste 15 dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, 18 né fuor tai tele per Aragne imposte. Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, 21 e come là tra li Tedeschi lurchi lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava 24 su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca 27 ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: «Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella 30 bestia malvagia che colà si corca». Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, 69 33 per ben cessar la rena e la fiammella. E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena 36 gente seder propinqua al loco scemo. Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena esperïenza d'esto giron porti», 39 mi disse, «va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti; mentre che torni, parlerò con questa, 42 che ne conceda i suoi omeri forti». Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo 45 andai, dove sedea la gente mesta. Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là soccorrien con le mani 48 quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi 51 o da pulci o da mosche o da tafani. Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca, 54 non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, 57 e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com' io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro 60 che d'un leone avea faccia e contegno. Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, 63 mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, 66 mi disse: «Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitalïano 69 sederà qui dal mio sinistro fianco. Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi 'ntronan li orecchi 70 72 gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"». Qui distorse la bocca e di fuor trasse 75 la lingua, come bue che 'l naso lecchi. E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, 78 torna'mi in dietro da l'anime lasse. Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, 81 e disse a me: «Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale; monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, 84 sì che la coda non possa far male». Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, 87 e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn' io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, 90 che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne 93 com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'. Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai 96 con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: «Gerïon, moviti omai: le rote larghe, e lo scender sia poco; 99 pensa la nova soma che tu hai». Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; 102 e poi ch'al tutto si sentì a gioco, là 'v' era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, 105 e con le branche l'aere a sé raccolse. Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, 108 per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, 71 111 gridando il padre a lui «Mala via tieni!», che fu la mia, quando vidi ch'i' era ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta 114 ogne veduta fuor che de la fera. Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n'accorgo 117 se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, 120 per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio, però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; 123 ond' io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali 126 che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello 129 fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone 132 dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerïone al piè al piè de la stagliata rocca, 135 e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca. 72 CANTO XVIII [Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene.] Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, 3 come la cerchia che dintorno il volge. Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, 6 di cui suo loco dicerò l'ordigno. Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, 9 e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, 12 la parte dove son rende figura, tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli 15 a la ripa di fuor son ponticelli, così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi 18 infino al pozzo che i tronca e raccogli. In questo luogo, de la schiena scossi di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta 21 tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, 24 di che la prima bolgia era repleta. Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, 27 di là con noi, ma con passi maggiori, come i Roman per l'essercito molto, l'anno del giubileo, su per lo ponte 30 hanno a passar la gente modo colto, che da l'un lato tutti hanno la fronte verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, 73 33 da l'altra sponda vanno verso 'l monte. Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, 36 che li battien crudelmente di retro. Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno 39 le seconde aspettava né le terze. Mentr' io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: 42 «Già di veder costui non son digiuno». Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette, 45 e assentio ch'alquanto in dietro gissi. E quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse, 48 ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se' tu Caccianemico. 51 Ma che ti mena a sì pungenti salse?». Ed elli a me: «Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, 54 che mi fa sovvenir del mondo antico. I' fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, 57 come che suoni la sconcia novella. E non pur io qui piango bolognese; anzi n'è questo loco tanto pieno, 60 che tante lingue non son ora apprese a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, 63 rècati a mente il nostro avaro seno». Così parlando il percosse un demonio de la sua scurïada, e disse: «Via, 66 ruffian! qui non son femmine da conio». I' mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo 69 là 'v' uno scoglio de la ripa uscia. Assai leggeramente quel salimmo; e vòlti a destra su per la sua scheggia, 74 72 da quelle cerchie etterne ci partimmo. Quando noi fummo là dov' el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, 75 lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia lo viso in te di quest' altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia 78 però che son con noi insieme andati». Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l'altra banda, 81 e che la ferza similmente scaccia. E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: «Guarda quel grande che vene, 84 e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón, che per cuore e per senno 87 li Colchi del monton privati féne. Ello passò per l'isola di Lenno poi che l'ardite femmine spietate 90 tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta 93 che prima avea tutte l'altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; 96 e anche di Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle 99 sapere e di color che 'n sé assanna». Già eravam là 've lo stretto calle con l'argine secondo s'incrocicchia, 102 e fa di quello ad un altr' arco spalle. Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, 105 e sé medesma con le palme picchia. Le ripe eran grommate d'una muffa, per l'alito di giù che vi s'appasta, 108 che con li occhi e col naso facea zuffa. Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso 75 111 de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta. Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco 114 che da li uman privadi parea mosso. E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, 117 che non parëa s'era laico o cherco. Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti?». 120 E io a lui: «Perché, se ben ricordo, già t'ho veduto coi capelli asciutti, e se' Alessio Interminei da Lucca: 123 però t'adocchio più che li altri tutti». Ed elli allor, battendosi la zucca: «Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe 126 ond' io non ebbi mai la lingua stucca». Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», mi disse, «il viso un poco più avante, 129 sì che la faccia ben con l'occhio attinghe di quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l'unghie merdose, 132 e or s'accoscia e ora è in piedi stante. Taïde è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse "Ho io grazie 135 grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". E quinci sian le nostre viste sazie». 76 CANTO XIX [Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e contra tutti coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che sono concedute a coloro che seguitano il sopradetto vizio, e dinomaci entro papa Niccola de li Orsini di Roma perché seguitò simonia; e pone de la terza bolgia de l'inferno.] O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate 3 deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, 6 però che ne la terza bolgia state. Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte 9 ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. O somma sapïenza, quanta è l'arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, 12 e quanto giusto tua virtù comparte! Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fóri, 15 d'un largo tutti e ciascun era tondo. Non mi parean men ampi né maggiori che que' che son nel mio bel San Giovanni, 18 fatti per loco d'i battezzatori; l'un de li quali, ancor non è molt' anni, rupp' io per un che dentro v'annegava: 21 e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni. Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d'un peccator li piedi e de le gambe 24 infino al grosso, e l'altro dentro stava. Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, 27 che spezzate averien ritorte e strambe. Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, 30 tal era lì dai calcagni a le punte. «Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti», 77 33 diss' io, «e cui più roggia fiamma succia?». Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti là giù per quella ripa che più giace, 36 da lui saprai di sé e de' suoi torti». E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto 39 dal tuo volere, e sai quel che si tace». Allor venimmo in su l'argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca 42 là giù nel fondo foracchiato e arto. Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto 45 di quel che si piangeva con la zanca. «O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa», 48 comincia' io a dir, «se puoi, fa motto». Io stava come 'l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto, 51 richiama lui per che la morte cessa. Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto, se' tu già costì ritto, Bonifazio? 54 Di parecchi anni mi mentì lo scritto. Se' tu sì tosto di quell' aver sazio per lo qual non temesti tòrre a 'nganno 57 la bella donna, e poi di farne strazio?». Tal mi fec' io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch'è lor risposto, 60 quasi scornati, e risponder non sanno. Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: "Non son colui, non son colui che credi"»; 63 e io rispuosi come a me fu imposto. Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, 66 mi disse: «Dunque che a me richiedi? Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, 69 sappi ch'i' fui vestito del gran manto; e veramente fui figliuol de l'orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, 78 72 che sù l'avere e qui me misi in borsa. Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, 75 per le fessure de la pietra piatti. Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch'i' credea che tu fossi, 78 allor ch'i' feci 'l sùbito dimando. Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi e ch'i' son stato così sottosopra, 81 ch'el non starà piantato coi piè rossi: ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver' ponente, un pastor sanza legge, 84 tal che convien che lui e me ricuopra. Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne' Maccabei; e come a quel fu molle 87 suo re, così fia lui chi Francia regge». Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: 90 «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle Nostro Segnore in prima da san Pietro ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa? 93 Certo non chiese se non "Viemmi retro". Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito 96 al loco che perdé l'anima ria. Però ti sta, ché tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta 99 ch'esser ti fece contra Carlo ardito. E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi 102 che tu tenesti ne la vita lieta, io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, 105 calcando i buoni e sollevando i pravi. Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l'acque 108 puttaneggiar coi regi a lui fu vista; quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, 79 111 fin che virtute al suo marito piacque. Fatto v'avete dio d'oro e d'argento; e che altro è da voi a l'idolatre, 114 se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote 117 che da te prese il primo ricco patre!». E mentr' io li cantava cotai note, o ira o coscïenza che 'l mordesse, 120 forte spingava con ambo le piote. I' credo ben ch'al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese 123 lo suon de le parole vere espresse. Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, 126 rimontò per la via onde discese. Né si stancò d'avermi a sé distretto, sì men portò sovra 'l colmo de l'arco 129 che dal quarto al quinto argine è tragetto. Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto 132 che sarebbe a le capre duro varco. Indi un altro vallon mi fu scoperto. 80 CANTO XX [Canto XX, dove si tratta de l'indovini e sortilegi e de l'incantatori, e de l'origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto incantatrice; e di loro pene e miseria e de la condizione loro misera, ne la quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di più altri.] Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto 3 de la prima canzon, ch'è d'i sommersi. Io era già disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo, 6 che si bagnava d'angoscioso pianto; e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo 9 che fanno le letane in questo mondo. Come 'l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto 12 ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso, ché da le reni era tornato 'l volto, e in dietro venir li convenia, 15 perché 'l veder dinanzi era lor tolto. Forse per forza già di parlasia si travolse così alcun del tutto; 18 ma io nol vidi, né credo che sia. Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso 21 com' io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi 24 le natiche bagnava per lo fesso. Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi del duro scoglio, sì che la mia scorta 27 mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi? Qui vive la pietà quand' è ben morta; chi è più scellerato che colui 30 che al giudicio divin passion comporta? Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; 33 per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, 81 Anfïarao? perché lasci la guerra?". E non restò di ruinare a valle 36 fino a Minòs che ciascheduno afferra. Mira c'ha fatto petto de le spalle; perché volse veder troppo davante, 39 di retro guarda e fa retroso calle. Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne, 42 cangiandosi le membra tutte quante; e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, 45 che rïavesse le maschili penne. Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga, che ne' monti di Luni, dove ronca 48 lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle 51 e 'l mar non li era la veduta tronca. E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, 54 e ha di là ogne pilosa pelle, Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu' io; 57 onde un poco mi piace che m'ascolte. Poscia che 'l padre suo di vita uscìo e venne serva la città di Baco, 60 questa gran tempo per lo mondo gio. Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l'Alpe che serra Lamagna 63 sovra Tiralli, c'ha nome Benaco. Per mille fonti, credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino 66 de l'acqua che nel detto laco stagna. Loco è nel mezzo là dove 'l trentino pastore e quel di Brescia e 'l veronese 69 segnar poria, s'e' fesse quel cammino. Siede Peschiera, bello e forte arnese da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, 72 ove la riva 'ntorno più discese. 82 Ivi convien che tutto quanto caschi ciò che 'n grembo a Benaco star non può, 75 e fassi fiume giù per verdi paschi. Tosto che l'acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si chiama 78 fino a Governol, dove cade in Po. Non molto ha corso, ch'el trova una lama, ne la qual si distende e la 'mpaluda; 81 e suol di state talor esser grama. Quindi passando la vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, 84 sanza coltura e d'abitanti nuda. Lì, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, 87 e visse, e vi lasciò suo corpo vano. Li uomini poi che 'ntorno erano sparti s'accolsero a quel loco, ch'era forte 90 per lo pantan ch'avea da tutte parti. Fer la città sovra quell' ossa morte; e per colei che 'l loco prima elesse, 93 Mantüa l'appellar sanz' altra sorte. Già fuor le genti sue dentro più spesse, prima che la mattia da Casalodi 96 da Pinamonte inganno ricevesse. Però t'assenno che, se tu mai odi originar la mia terra altrimenti, 99 la verità nulla menzogna frodi». E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti mi son sì certi e prendon sì mia fede, 102 che li altri mi sarien carboni spenti. Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; 105 ché solo a ciò la mia mente rifiede». Allor mi disse: «Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune, 108 fu — quando Grecia fu di maschi vòta, sì ch'a pena rimaser per le cune — augure, e diede 'l punto con Calcanta 111 in Aulide a tagliar la prima fune. 83 Euripilo ebbe nome, e così 'l canta l'alta mia tragedìa in alcun loco: 114 ben lo sai tu che la sai tutta quanta. Quell' altro che ne' fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente 117 de le magiche frode seppe 'l gioco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch'avere inteso al cuoio e a lo spago 120 ora vorrebbe, ma tardi si pente. Vedi le triste che lasciaron l'ago, la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; 123 fecer malie con erbe e con imago. Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine d'amendue li emisperi e tocca l'onda 126 sotto Sobilia Caino e le spine; e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, ché non ti nocque 129 alcuna volta per la selva fonda». Sì mi parlava, e andavamo introcque. 84 CANTO XXI [Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il tempo che fue compilata per Dante questa opera.] Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, 3 venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando restammo per veder l'altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; 6 e vidila mirabilmente oscura. Quale ne l'arzanà de' Viniziani bolle l'inverno la tenace pece 9 a rimpalmare i legni lor non sani, ché navicar non ponno — in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa 12 le coste a quel che più vïaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; 15 chi terzeruolo e artimon rintoppa — : tal, non per foco ma per divin' arte, bollia là giuso una pegola spessa, 18 che 'nviscava la ripa d'ogne parte. I' vedea lei, ma non vedëa in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, 21 e gonfiar tutta, e riseder compressa. Mentr' io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!», 24 mi trasse a sé del loco dov' io stava. Allor mi volsi come l'uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire 27 e cui paura sùbita sgagliarda, che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero 30 correndo su per lo scoglio venire. Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero! e quanto mi parea ne l'atto acerbo, 33 con l'ali aperte e sovra i piè leggero! 85 L'omero suo, ch'era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l'anche, 36 e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo. Del nostro ponte disse: «O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita! 39 Mettetel sotto, ch'i' torno per anche a quella terra, che n'è ben fornita: ogn' uom v'è barattier, fuor che Bonturo; 42 del no, per li denar, vi si fa ita». Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto 45 con tanta fretta a seguitar lo furo. Quel s'attuffò, e tornò sù convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, 48 gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto! qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Però, se tu non vuo' di nostri graffi, 51 non far sopra la pegola soverchio». Poi l'addentar con più di cento raffi, disser: «Coverto convien che qui balli, 54 sì che, se puoi, nascosamente accaffi». Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia 57 la carne con li uncin, perché non galli. Lo buon maestro «Acciò che non si paia che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta 60 dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia; e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch'i' ho le cose conte, 63 perch' altra volta fui a tal baratta». Poscia passò di là dal co del ponte; e com' el giunse in su la ripa sesta, 66 mestier li fu d'aver sicura fronte. Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello 69 che di sùbito chiede ove s'arresta, usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt' i runcigli; 72 ma el gridò: «Nessun di voi sia fello! 86 Innanzi che l'uncin vostro mi pigli, traggasi avante l'un di voi che m'oda, 75 e poi d'arruncigliarmi si consigli». Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»; per ch'un si mosse — e li altri stetter fermi — 78 e venne a lui dicendo: «Che li approda?». «Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto», disse 'l mio maestro, 81 «sicuro già da tutti vostri schermi, sanza voler divino e fato destro? Lascian' andar, ché nel cielo è voluto 84 ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro». Allor li fu l'orgoglio sì caduto, ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi, 87 e disse a li altri: «Omai non sia feruto». E 'l duca mio a me: «O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, 90 sicuramente omai a me ti riedi». Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, 93 sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto; così vid' ïo già temer li fanti ch'uscivan patteggiati di Caprona, 96 veggendo sé tra nemici cotanti. I' m'accostai con tutta la persona lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi 99 da la sembianza lor ch'era non buona. Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?». 102 E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi». Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto 105 e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!». Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo iscoglio non si può, però che giace 108 tutto spezzato al fondo l'arco sesto. E se l'andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; 111 presso è un altro scoglio che via face. 87 Ier, più oltre cinqu' ore che quest' otta, mille dugento con sessanta sei 114 anni compié che qui la via fu rotta. Io mando verso là di questi miei a riguardar s'alcun se ne sciorina; 117 gite con lor, che non saranno rei». «Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; 120 e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane 123 e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate 'ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l'altro scheggio 126 che tutto intero va sovra le tane». «Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?», diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli, 129 se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio. Se tu se' sì accorto come suoli, non vedi tu ch'e' digrignan li denti 132 e con le ciglia ne minaccian duoli?». Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, 135 ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti». Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta 138 coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. 88 CANTO XXII [Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna cosa de la sagacitade de' barattieri in persona d'uno navarrese, e de' barattieri medesimi questo canta.] Io vidi già cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, 3 e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, 6 fedir torneamenti e correr giostra; quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, 9 e con cose nostrali e con istrane; né già con sì diversa cennamella cavalier vidi muover né pedoni, 12 né nave a segno di terra o di stella. Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa 15 coi santi, e in taverna coi ghiottoni. Pur a la pegola era la mia 'ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno 18 e de la gente ch'entro v'era incesa. Come i dalfini, quando fanno segno a' marinar con l'arco de la schiena 21 che s'argomentin di campar lor legno, talor così, ad alleggiar la pena, mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso 24 e nascondea in men che non balena. E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, 27 sì che celano i piedi e l'altro grosso, sì stavan d'ogne parte i peccatori; ma come s'appressava Barbariccia, 30 così si ritraén sotto i bollori. I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, uno aspettar così, com' elli 'ncontra 33 ch'una rana rimane e l'altra spiccia; 89 e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le 'mpegolate chiome 36 e trassel sù, che mi parve una lontra. I' sapea già di tutti quanti 'l nome, sì li notai quando fuorono eletti, 39 e poi ch'e' si chiamaro, attesi come. «O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!», 42 gridavan tutti insieme i maladetti. E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato 45 venuto a man de li avversari suoi». Lo duca mio li s'accostò allato; domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose: 48 «I' fui del regno di Navarra nato. Mia madre a servo d'un segnor mi puose, che m'avea generato d'un ribaldo, 51 distruggitor di sé e di sue cose. Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria, 54 di ch'io rendo ragione in questo caldo». E Cirïatto, a cui di bocca uscia d'ogne parte una sanna come a porco, 57 li fé sentir come l'una sdruscia. Tra male gatte era venuto 'l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia 60 e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco». E al maestro mio volse la faccia; «Domanda», disse, «ancor, se più disii 63 saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia». Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino 66 sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii, poco è, da un che fu di là vicino. Così foss' io ancor con lui coperto, 69 ch'i' non temerei unghia né uncino!». E Libicocco «Troppo avem sofferto», disse; e preseli 'l braccio col runciglio, 72 sì che, stracciando, ne portò un lacerto. 90 Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde 'l decurio loro 75 si volse intorno intorno con mal piglio. Quand' elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch'ancor mirava sua ferita, 78 domandò 'l duca mio sanza dimoro: «Chi fu colui da cui mala partita di' che facesti per venire a proda?». 81 Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita, quel di Gallura, vasel d'ogne froda, ch'ebbe i nemici di suo donno in mano, 84 e fé sì lor, che ciascun se ne loda. Danar si tolse e lasciolli di piano, sì com' e' dice; e ne li altri offici anche 87 barattier fu non picciol, ma sovrano. Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna 90 le lingue lor non si sentono stanche. Omè, vedete l'altro che digrigna; i' direi anche, ma i' temo ch'ello 93 non s'apparecchi a grattarmi la tigna». E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, 96 disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!». «Se voi volete vedere o udire», ricominciò lo spaürato appresso, 99 «Toschi o Lombardi, io ne farò venire; ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch'ei non teman de le lor vendette; 102 e io, seggendo in questo loco stesso, per un ch'io son, ne farò venir sette quand' io suffolerò, com' è nostro uso 105 di fare allor che fori alcun si mette». Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia 108 ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!». Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: «Malizioso son io troppo, 111 quand' io procuro a' mia maggior trestizia». 91 Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, 114 io non ti verrò dietro di gualoppo, ma batterò sovra la pece l'ali. Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, 117 a veder se tu sol più di noi vali». O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l'altra costa li occhi volse, 120 quel prima, ch'a ciò fare era più crudo. Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto 123 saltò e dal proposto lor si sciolse. Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; 126 però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!». Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, 129 e quei drizzò volando suso il petto: non altrimenti l'anitra di botto, quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa, 132 ed ei ritorna sù crucciato e rotto. Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito 135 che quei campasse per aver la zuffa; e come 'l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, 138 e fu con lui sopra 'l fosso ghermito. Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue 141 cadder nel mezzo del bogliente stagno. Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, 144 sì avieno inviscate l'ali sue. Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fé volar da l'altra costa 147 con tutt' i raffi, e assai prestamente di qua, di là discesero a la posta; porser li uncini verso li 'mpaniati, 150 ch'eran già cotti dentro da la crosta. 92 E noi lasciammo lor così 'mpacciati. 93 CANTO XXIII [Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e qui è la sesta bolgia.] Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, 3 come frati minor vanno per via. Vòlt' era in su la favola d'Isopo lo mio pensier per la presente rissa, 6 dov' el parlò de la rana e del topo; ché più non si pareggia 'mo' e 'issa' che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia 9 principio e fine con la mente fissa. E come l'un pensier de l'altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, 12 che la prima paura mi fé doppia. Io pensava così: «Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa 15 sì fatta, ch'assai credo che lor nòi. Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli 18 che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa». Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, 21 quand' io dissi: «Maestro, se non celi te e me tostamente, i' ho pavento d'i Malebranche. Noi li avem già dietro; 24 io li 'magino sì, che già li sento». E quei: «S'i' fossi di piombato vetro, l'imagine di fuor tua non trarrei 27 più tosto a me, che quella dentro 'mpetro. Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, con simile atto e con simile faccia, 30 sì che d'intrambi un sol consiglio fei. S'elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l'altra bolgia scendere, 33 noi fuggirem l'imaginata caccia». 94 Già non compié di tal consiglio rendere, ch'io li vidi venir con l'ali tese 36 non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch'al romore è desta 39 e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s'arresta, avendo più di lui che di sé cura, 42 tanto che solo una camiscia vesta; e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, 45 che l'un de' lati a l'altra bolgia tura. Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, 48 quand' ella più verso le pale approccia, come 'l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra 'l suo petto, 51 come suo figlio, non come compagno. A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch'e' furon in sul colle 54 sovresso noi; ma non lì era sospetto: ché l'alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, 57 poder di partirs' indi a tutti tolle. Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, 60 piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia 63 che in Clugnì per li monaci fassi. Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, 66 che Federigo le mettea di paglia. Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca 69 con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam nuovi 72 di compagnia ad ogne mover d'anca. 95 Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, 75 e li occhi, sì andando, intorno movi». E un che 'ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, 78 voi che correte sì per l'aura fosca! Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi». Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta, 81 e poi secondo il suo passo procedi». Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l'animo, col viso, d'esser meco; 84 ma tardavali 'l carco e la via stretta. Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; 87 poi si volsero in sé, e dicean seco: «Costui par vivo a l'atto de la gola; e s'e' son morti, per qual privilegio 90 vanno scoperti de la grave stola?». Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegio de l'ipocriti tristi se' venuto, 93 dir chi tu se' non avere in dispregio». E io a loro: «I' fui nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, 96 e son col corpo ch'i' ho sempre avuto. Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant' i' veggio dolor giù per le guance? 99 e che pena è in voi che sì sfavilla?». E l'un rispuose a me: «Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi 102 fan così cigolar le lor bilance. Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo 105 nomati, e da tua terra insieme presi come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, 108 ch'ancor si pare intorno dal Gardingo». Io cominciai: «O frati, i vostri mali... »; ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse 111 un, crucifisso in terra con tre pali. 96 Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; 114 e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse, mi disse: «Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia 117 porre un uom per lo popolo a' martìri. Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch'el senta 120 qualunque passa, come pesa, pria. E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio 123 che fu per li Giudei mala sementa». Allor vid' io maravigliar Virgilio sovra colui ch'era disteso in croce 126 tanto vilmente ne l'etterno essilio. Poscia drizzò al frate cotal voce: «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci 129 s'a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri 132 che vegnan d'esto fondo a dipartirci». Rispuose adunque: «Più che tu non speri s'appressa un sasso che da la gran cerchia 135 si move e varca tutt' i vallon feri, salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, 138 che giace in costa e nel fondo soperchia». Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: «Mal contava la bisogna 141 colui che i peccator di qua uncina». E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi' 144 ch'elli è bugiardo e padre di menzogna». Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d'ira nel sembiante; 147 ond' io da li 'ncarcati mi parti' dietro a le poste de le care piante. 97 CANTO XXIV [Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti, dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la settima bolgia.] In quella parte del giovanetto anno che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra 3 e già le notti al mezzo dì sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca, 6 ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna 9 biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e là si lagna, come 'l tapin che non sa che si faccia; 12 poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro 15 e fuor le pecorelle a pascer caccia. Così mi fece sbigottir lo mastro quand' io li vidi sì turbar la fronte, 18 e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio 21 dolce ch'io vidi prima a piè del monte. Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima 24 ben la ruina, e diedemi di piglio. E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, 27 così, levando me sù ver' la cima d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa; 30 ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia». Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, 33 potavam sù montar di chiappa in chiappa. 98 E se non fosse che da quel precinto più che da l'altro era la costa corta, 36 non so di lui, ma io sarei ben vinto. Ma perché Malebolge inver' la porta del bassissimo pozzo tutta pende, 39 lo sito di ciascuna valle porta che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta 42 onde l'ultima pietra si scoscende. La lena m'era del polmon sì munta quand' io fui sù, ch'i' non potea più oltre, 45 anzi m'assisi ne la prima giunta. «Omai convien che tu così ti spoltre», disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma, 48 in fama non si vien, né sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, 51 qual fummo in aere e in acqua la schiuma. E però leva sù; vinci l'ambascia con l'animo che vince ogne battaglia, 54 se col suo grave corpo non s'accascia. Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. 57 Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia». Leva'mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia, 60 e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito». Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, 63 ed erto più assai che quel di pria. Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l'altro fosso, 66 a parole formar disconvenevole. Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco già che varca quivi; 69 ma chi parlava ad ire parea mosso. Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; 72 per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi 99 da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com' i' odo quinci e non intendo, 75 così giù veggio e neente affiguro». «Altra risposta», disse, «non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta 78 si de' seguir con l'opera tacendo». Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa, 81 e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena 84 che la memoria il sangue ancor mi scipa. Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree 87 produce, e cencri con anfisibena, né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l'Etïopia 90 né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate, 93 sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda 96 e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avventò un serpente che 'l trafisse 99 là dove 'l collo a le spalle s'annoda. Né O sì tosto mai né I si scrisse, com' el s'accese e arse, e cener tutto 102 convenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa 105 e 'n quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, 108 quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, 111 e nardo e mirra son l'ultime fasce. 100 E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira, 114 o d'altra oppilazion che lega l'omo, quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia 117 ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era 'l peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant' è severa, 120 che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, 123 poco tempo è, in questa gola fiera. Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci 126 bestia, e Pistoia mi fu degna tana». E ïo al duca: «Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù 'l pinse; 129 ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci». E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzò verso me l'animo e 'l volto, 132 e di trista vergogna si dipinse; poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, 135 che quando fui de l'altra vita tolto. Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch' io fui 138 ladro a la sagrestia d'i belli arredi, e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, 141 se mai sarai di fuor da' luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; 144 poi Fiorenza rinova gente e modi. Tragge Marte vapor di Val di Magra ch'è di torbidi nuvoli involuto; 147 e con tempesta impetüosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond' ei repente spezzerà la nebbia, 150 sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. 101 E detto l'ho perché doler ti debbia!». 102 CANTO XXV [Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta è nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr' a' fiorentini, ma in prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima bolgia.] Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, 3 gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!». Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch' una li s'avvolse allora al collo, 6 come dicesse 'Non vo' che più diche'; e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, 9 che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d'incenerarti sì che più non duri, 12 poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, 15 non quel che cadde a Tebe giù da' muri. El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia 18 venir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?». Maremma non cred' io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa 21 infin ove comincia nostra labbia. Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; 24 e quello affuoca qualunque s'intoppa. Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che, sotto 'l sasso di monte Aventino, 27 di sangue fece spesse volte laco. Non va co' suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece 30 del grande armento ch'elli ebbe a vicino; onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d'Ercule, che forse 33 gliene diè cento, e non sentì le diece». 103 Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, 36 de' quai né io né 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette, 39 e intendemmo pur ad essi poi. Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, 42 che l'un nomar un altro convenette, dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento, 45 mi puosi 'l dito su dal mento al naso. Se tu se' or, lettore, a creder lento ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia, 48 ché io che 'l vidi, a pena il mi consento. Com' io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia 51 dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia. Co' piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese; 54 poi li addentò e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue 57 e dietro per le ren sù la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l'orribil fiera 60 per l'altrui membra avviticchiò le sue. Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, 63 né l'un né l'altro già parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore, per lo papiro suso, un color bruno 66 che non è nero ancora e 'l bianco more. Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! 69 Vedi che già non se' né due né uno». Già eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste 72 in una faccia, ov' eran due perduti. 104 Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso 75 divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l'imagine perversa 78 parea; e tal sen gio con lento passo. Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, 81 folgore par se la via attraversa, sì pareva, venendo verso l'epe de li altri due, un serpentello acceso, 84 livido e nero come gran di pepe; e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; 87 poi cadde giuso innanzi lui disteso. Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; anzi, co' piè fermati, sbadigliava 90 pur come sonno o febbre l'assalisse. Elli 'l serpente e quei lui riguardava; l'un per la piaga e l'altro per la bocca 93 fummavan forte, e 'l fummo si scontrava. Taccia Lucano ormai là dov' e' tocca del misero Sabello e di Nasidio, 96 e attenda a udir quel ch'or si scocca. Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte 99 converte poetando, io non lo 'nvidio; ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch'amendue le forme 102 a cambiar lor matera fosser pronte. Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, 105 e 'l feruto ristrinse insieme l'orme. Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura 108 non facea segno alcun che si paresse. Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle 111 si facea molle, e quella di là dura. 105 Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due piè de la fiera, ch'eran corti, 114 tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela, 117 e 'l misero del suo n'avea due porti. Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso 120 per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si levò e l'altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, 123 sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in là venne 126 uscir li orecchi de le gote scempie; ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia 129 e le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa 132 come face le corna la lumaccia; e la lingua, ch'avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta 135 ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, 138 e l'altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra, 141 com' ho fatt' io, carpon per questo calle». Così vid' io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi 144 la novità se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, 147 non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni 150 che venner prima, non era mutato; 106 l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni. 107 CANTO XXVI [Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes pone loro pene.] Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande che per mare e per terra batti l'ali, 3 e per lo 'nferno tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, 6 e tu in grande orranza non ne sali. Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, 9 di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna. E se già fosse, non saria per tempo. Così foss' ei, da che pur esser dee! 12 ché più mi graverà, com' più m'attempo. Noi ci partimmo, e su per le scalee che n'avea fatto iborni a scender pria, 15 rimontò 'l duca mio e trasse mee; e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio 18 lo piè sanza la man non si spedia. Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi, 21 e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa 24 m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che 'l mondo schiara 27 la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, 30 forse colà dov' e' vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, sì com' io m'accorsi 33 tosto che fui là 've 'l fondo parea. 108 E qual colui che si vengiò con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, 36 quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea sì con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, 39 sì come nuvoletta, in sù salire: tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, 42 e ogne fiamma un peccatore invola. Io stava sovra 'l ponte a veder surto, sì che s'io non avessi un ronchion preso, 45 caduto sarei giù sanz' esser urto. E 'l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; 48 catun si fascia di quel ch'elli è inceso». «Maestro mio», rispuos' io, «per udirti son io più certo; ma già m'era avviso 51 che così fosse, e già voleva dirti: chi è 'n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira 54 dov' Eteòcle col fratel fu miso?». Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme 57 a la vendetta vanno come a l'ira; e dentro da la lor fiamma si geme l'agguato del caval che fé la porta 60 onde uscì de' Romani il gentil seme. Piangevisi entro l'arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d'Achille, 63 e del Palladio pena vi si porta». «S'ei posson dentro da quelle faville parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego 66 e ripriego, che 'l priego vaglia mille, che non mi facci de l'attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; 69 vedi che del disio ver' lei mi piego!». Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l'accetto; 72 ma fa che la tua lingua si sostegna. 109 Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, 75 perch' e' fuor greci, forse del tuo detto». Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, 78 in questa forma lui parlare audivi: «O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, 81 s'io meritai di voi assai o poco quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica 84 dove, per lui, perduto a morir gissi». Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, 87 pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, 90 gittò voce di fuori e disse: «Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse me più d'un anno là presso a Gaeta, 93 prima che sì Enëa la nomasse, né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né 'l debito amore 96 lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto 99 e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l'alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna 102 picciola da la qual non fui diserto. L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, 105 e l'altre che quel mare intorno bagna. Io e ' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta 108 dov' Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l'uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, 111 da l'altra già m'avea lasciata Setta. 110 "O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, 114 a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, 117 di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, 120 ma per seguir virtute e canoscenza". Li miei compagni fec' io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, 123 che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo, 126 sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l'altro polo vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, 129 che non surgëa fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, 132 poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, quando n'apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto 135 quanto veduta non avëa alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque 138 e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso 141 e la prora ire in giù, com' altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso». 111 CANTO XXVII [Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.] Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia 3 con la licenza del dolce poeta, quand' un'altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima 6 per un confuso suon che fuor n'uscia. Come 'l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, 9 che l'avea temperato con sua lima, mugghiava con la voce de l'afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, 12 pur el pareva dal dolor trafitto; così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio 15 si convertïan le parole grame. Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo 18 che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, 21 dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", perch' io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco; 24 vedi che non incresce a me, e ardo! Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra 27 latina ond' io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch'io fui d'i monti là intra Orbino 30 e 'l giogo di che Tever si diserra». Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, 33 dicendo: «Parla tu; questi è latino». 112 E io, ch'avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: 36 «O anima che se' là giù nascosta, Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; 39 ma 'n palese nessuna or vi lasciai. Ravenna sta come stata è molt' anni: l'aguglia da Polenta la si cova, 42 sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, 45 sotto le branche verdi si ritrova. E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, 48 là dove soglion fan d'i denti succhio. Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, 51 che muta parte da la state al verno. E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte, 54 tra tirannia si vive e stato franco. Ora chi se', ti priego che ne conte; non esser duro più ch'altri sia stato, 57 se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte». Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse 60 di qua, di là, e poi diè cotal fiato: «S'i' credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, 63 questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, 66 sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; 69 e certo il creder mio venìa intero, se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; 72 e come e quare, voglio che m'intenda. 113 Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe che la madre mi diè, l'opere mie 75 non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, 78 ch'al fine de la terra il suono uscie. Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe 81 calar le vele e raccoglier le sarte, ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; 84 ahi miser lasso! e giovato sarebbe. Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, 87 e non con Saracin né con Giudei, ché ciascun suo nimico era Cristiano, e nessun era stato a vincer Acri 90 né mercatante in terra di Soldano, né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro 93 che solea fare i suoi cinti più macri. Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre, 96 così mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti 99 perché le sue parole parver ebbre. E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare 102 sì come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss' io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi 105 che 'l mio antecessor non ebbe care". Allor mi pinser li argomenti gravi là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, 108 e dissi: "Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov' io mo cader deggio, lunga promessa con l'attender corto 111 ti farà trïunfar ne l'alto seggio". 114 Francesco venne poi, com' io fu' morto, per me; ma un d'i neri cherubini 114 li disse: "Non portar: non mi far torto. Venir se ne dee giù tra ' miei meschini perché diede 'l consiglio frodolente, 117 dal quale in qua stato li sono a' crini; ch'assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi 120 per la contradizion che nol consente". Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse 123 tu non pensavi ch'io löico fossi!". A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; 126 e poi che per gran rabbia la si morse, disse: "Questi è d'i rei del foco furo"; per ch'io là dove vedi son perduto, 129 e sì vestito, andando, mi rancuro». Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, 132 torcendo e dibattendo 'l corno aguto. Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr' arco 135 che cuopre 'l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco. 115 CANTO XXVIII [Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia, dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.] Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno 3 ch'i' ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente 6 c'hanno a tanto comprender poco seno. S'el s'aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra 9 di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l'anella fé sì alte spoglie, 12 come Livïo scrive, che non erra, con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; 15 e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, 18 dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla 21 il modo de la nona bolgia sozzo. Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com' io vidi un, così non si pertugia, 24 rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco 27 che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi e con le man s'aperse il petto, 30 dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, 33 fesso nel volto dal mento al ciuffetto. 116 E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma 36 fuor vivi, e però son fessi così. Un diavolo è qua dietro che n'accisma sì crudelmente, al taglio de la spada 39 rimettendo ciascun di questa risma, quand' avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse 42 prima ch'altri dinanzi li rivada. Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, forse per indugiar d'ire a la pena 45 ch'è giudicata in su le tue accuse?». «Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena», rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo; 48 ma per dar lui esperïenza piena, a me, che morto son, convien menarlo per lo 'nferno qua giù di giro in giro; 51 e quest' è ver così com' io ti parlo». Più fuor di cento che, quando l'udiro, s'arrestaron nel fosso a riguardarmi 54 per maraviglia, oblïando il martiro. «Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, 57 s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, 60 ch'altrimenti acquistar non saria leve». Poi che l'un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; 63 indi a partirsi in terra lo distese. Un altro, che forata avea la gola e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, 66 e non avea mai ch'una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, 69 ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia, e disse: «O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi su in terra latina, 72 se troppa simiglianza non m'inganna, 117 rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano 75 che da Vercelli a Marcabò dichina. E fa saper a' due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, 78 che, se l'antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica 81 per tradimento d'un tiranno fello. Tra l'isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, 84 non da pirate, non da gente argolica. Quel traditor che vede pur con l'uno, e tien la terra che tale qui meco 87 vorrebbe di vedere esser digiuno, farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch'al vento di Focara 90 non sarà lor mestier voto né preco». E io a lui: «Dimostrami e dichiara, se vuo' ch'i' porti sù di te novella, 93 chi è colui da la veduta amara». Allor puose la mano a la mascella d'un suo compagno e la bocca li aperse, 96 gridando: «Questi è desso, e non favella. Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che 'l fornito 99 sempre con danno l'attender sofferse». Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza 102 Curïo, ch'a dir fu così ardito! E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca, 105 sì che 'l sangue facea la faccia sozza, gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca, che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", 108 che fu mal seme per la gente tosca». E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; per ch'elli, accumulando duol con duolo, 111 sen gio come persona trista e matta. 118 Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch'io avrei paura, 114 sanza più prova, di contarla solo; se non che coscïenza m'assicura, la buona compagnia che l'uom francheggia 117 sotto l'asbergo del sentirsi pura. Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, un busto sanza capo andar sì come 120 andavan li altri de la trista greggia; e 'l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: 123 e quel mirava noi e dicea: «Oh me!». Di sé facea a sé stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; 126 com' esser può, quei sa che sì governa. Quando diritto al piè del ponte fue, levò 'l braccio alto con tutta la testa 129 per appressarne le parole sue, che fuoro: «Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: 132 vedi s'alcuna è grande come questa. E perché tu di me novella porti, sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli 135 che diedi al re giovane i ma' conforti. Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli; Achitofèl non fé più d'Absalone 138 e di Davìd coi malvagi punzelli. Perch' io parti' così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, 141 dal suo principio ch'è in questo troncone. Così s'osserva in me lo contrapasso». 119 CANTO XXIX [Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.] La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, 3 che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge 6 là giù tra l'ombre triste smozzicate? Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, 9 che miglia ventidue la valle volge. E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n'è concesso, 12 e altro è da veder che tu non vedi». «Se tu avessi», rispuos' io appresso, «atteso a la cagion per ch'io guardava, 15 forse m'avresti ancor lo star dimesso». Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, 18 e soggiugnendo: «Dentro a quella cava dov' io tenea or li occhi sì a posta, credo ch'un spirto del mio sangue pianga 21 la colpa che là giù cotanto costa». Allor disse 'l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello. 24 Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; ch'io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, 27 e udi' 'l nominar Geri del Bello. Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, 30 che non guardasti in là, sì fu partito». «O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor», diss' io, 33 «per alcun che de l'onta sia consorte, 120 fece lui disdegnoso; ond' el sen gio sanza parlarmi, sì com' ïo estimo: 36 e in ciò m'ha el fatto a sé più pio». Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, 39 se più lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi 42 potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; 45 ond' io li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre 48 e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva 51 qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; 54 e allor fu la mia vista più viva giù ver' lo fondo, la 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia 57 punisce i falsador che qui registra. Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, 60 quando fu l'aere sì pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, 63 secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle 66 languir li spirti per diverse biche. Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone 69 si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, 72 che non potean levar le lor persone. 121 Io vidi due sedere a sé poggiati, com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia, 75 dal capo al piè di schianze macolati; e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, 78 né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra sé per la gran rabbia 81 del pizzicor, che non ha più soccorso; e sì traevan giù l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie 84 o d'altro pesce che più larghe l'abbia. «O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò 'l duca mio a l'un di loro, 87 «e che fai d'esse talvolta tanaglie, dinne s'alcun Latino è tra costoro che son quinc' entro, se l'unghia ti basti 90 etternalmente a cotesto lavoro». «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose l'un piangendo; 93 «ma tu chi se' che di noi dimandasti?». E 'l duca disse: «I' son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, 96 e di mostrar lo 'nferno a lui intendo». Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse 99 con altri che l'udiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; 102 e io incominciai, poscia ch'ei volse: «Se la vostra memoria non s'imboli nel primo mondo da l'umane menti, 105 ma s'ella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena 108 di palesarvi a me non vi spaventi». «Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l'un, «mi fé mettere al foco; 111 ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. 122 Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: "I' mi saprei levar per l'aere a volo"; 114 e quei, ch'avea vaghezza e senno poco, volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo perch' io nol feci Dedalo, mi fece 117 ardere a tal che l'avea per figliuolo. Ma ne l'ultima bolgia de le diece me per l'alchìmia che nel mondo usai 120 dannò Minòs, a cui fallar non lece». E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese? 123 Certo non la francesca sì d'assai!». Onde l'altro lebbroso, che m'intese, rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca 126 che seppe far le temperate spese, e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse 129 ne l'orto dove tal seme s'appicca; e tra'ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, 132 e l'Abbagliato suo senno proferse. Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio, 135 sì che la faccia mia ben ti risponda: sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchìmia; 138 e te dee ricordar, se ben t'adocchio, com' io fui di natura buona scimia». 123 CANTO XXX [Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.] Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra 'l sangue tebano, 3 come mostrò una e altra fïata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli 6 andar carcata da ciascuna mano, gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli la leonessa e ' leoncini al varco»; 9 e poi distese i dispietati artigli, prendendo l'un ch'avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; 12 e quella s'annegò con l'altro carco. E quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva, 15 sì che 'nsieme col regno il re fu casso, Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, 18 e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; 21 tanto il dolor le fé la mente torta. Ma né di Tebe furie né troiane si vider mäi in alcun tanto crude, 24 non punger bestie, nonché membra umane, quant' io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo 27 che 'l porco quando del porcil si schiude. L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l'assannò, sì che, tirando, 30 grattar li fece il ventre al fondo sodo. E l'Aretin che rimase, tremando mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, 33 e va rabbioso altrui così conciando». «Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchi 124 li denti a dosso, non ti sia fatica 36 a dir chi è, pria che di qui si spicchi». Ed elli a me: «Quell' è l'anima antica di Mirra scellerata, che divenne 39 al padre, fuor del dritto amore, amica. Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, 42 come l'altro che là sen va, sostenne, per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, 45 testando e dando al testamento norma». E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, 48 rivolsilo a guardar li altri mal nati. Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia 51 tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto. La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l'omor che mal converte, 54 che 'l viso non risponde a la ventraia, faceva lui tener le labbra aperte come l'etico fa, che per la sete 57 l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte. «O voi che sanz' alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo», 60 diss' elli a noi, «guardate e attendete a la miseria del maestro Adamo; io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli, 63 e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo. Li ruscelletti che d'i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, 66 faccendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l'imagine lor vie più m'asciuga 69 che 'l male ond' io nel volto mi discarno. La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov' io peccai 72 a metter più li miei sospiri in fuga. Ivi è Romena, là dov' io falsai 125 la lega suggellata del Batista; 75 per ch'io il corpo sù arso lasciai. Ma s'io vedessi qui l'anima trista di Guido o d'Alessandro o di lor frate, 78 per Fonte Branda non darei la vista. Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; 81 ma che mi val, c'ho le membra legate? S'io fossi pur di tanto ancor leggero ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia, 84 io sarei messo già per lo sentiero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia, 87 e men d'un mezzo di traverso non ci ha. Io son per lor tra sì fatta famiglia; e' m'indussero a batter li fiorini 90 ch'avevan tre carati di mondiglia». E io a lui: «Chi son li due tapini che fumman come man bagnate 'l verno, 93 giacendo stretti a' tuoi destri confini?». «Qui li trovai — e poi volta non dierno — », rispuose, «quando piovvi in questo greppo, 96 e non credo che dieno in sempiterno. L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia: 99 per febbre aguta gittan tanto leppo». E l'un di lor, che si recò a noia forse d'esser nomato sì oscuro, 102 col pugno li percosse l'epa croia. Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto 105 col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, 108 ho io il braccio a tal mestiere sciolto». Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi al fuoco, non l'avei tu così presto; 111 ma sì e più l'avei quando coniavi». E l'idropico: «Tu di' ver di questo: 126 ma tu non fosti sì ver testimonio 114 là 've del ver fosti a Troia richesto». «S'io dissi falso, e tu falsasti il conio», disse Sinon; «e son qui per un fallo, 117 e tu per più ch'alcun altro demonio!». «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», rispuose quel ch'avëa infiata l'epa; 120 «e sieti reo che tutto il mondo sallo!». «E te sia rea la sete onde ti crepa», disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia 123 che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!». Allora il monetier: «Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; 126 ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, 129 non vorresti a 'nvitar molte parole». Ad ascoltarli er' io del tutto fisso, quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira, 132 che per poco che teco non mi risso!». Quand' io 'l senti' a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, 135 ch'ancor per la memoria mi si gira. Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, 138 sì che quel ch'è, come non fosse, agogna, tal mi fec' io, non possendo parlare, che disïava scusarmi, e scusava 141 me tuttavia, e nol mi credea fare. «Maggior difetto men vergogna lava», disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato; 144 però d'ogne trestizia ti disgrava. E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t'accoglia 147 dove sien genti in simigliante piato: ché voler ciò udire è bassa voglia». 127 CANTO XXXI [Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de l'inferno, ed è il nono cerchio.] Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, 3 e poi la medicina mi riporse; così od' io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione 6 prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, 9 attraversando sanza alcun sermone. Quiv' era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco; 12 ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, 15 dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, 18 non sonò sì terribilmente Orlando. Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; 21 ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?». Ed elli a me: «Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, 24 avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; 27 però alquanto più te stesso pungi». Poi caramente mi prese per mano e disse: «Pria che noi siam più avanti, 30 acciò che 'l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa 33 da l'umbilico in giuso tutti quanti». Come quando la nebbia si dissipa, 128 lo sguardo a poco a poco raffigura 36 ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura, più e più appressando ver' la sponda, 39 fuggiemi errore e crescémi paura; però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, 42 così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia 45 Giove del cielo ancora quando tuona. E io scorgeva già d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, 48 e per le coste giù ambo le braccia. Natura certo, quando lasciò l'arte di sì fatti animali, assai fé bene 51 per tòrre tali essecutori a Marte. E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, 54 più giusta e più discreta la ne tene; ché dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, 57 nessun riparo vi può far la gente. La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, 60 e a sua proporzione eran l'altre ossa; sì che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto 63 di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison s'averien dato mal vanto; però ch'i' ne vedea trenta gran palmi 66 dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto. « Raphèl maì amècche zabì almi», cominciò a gridar la fiera bocca, 69 cui non si convenia più dolci salmi. E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga 72 quand' ira o altra passïon ti tocca! Cércati al collo, e troverai la soga 129 che 'l tien legato, o anima confusa, 75 e vedi lui che 'l gran petto ti doga». Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto 78 pur un linguaggio nel mondo non s'usa. Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio 81 come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto». Facemmo adunque più lungo vïaggio, vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro 84 trovammo l'altro assai più fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto 87 dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto 90 si ravvolgëa infino al giro quinto. «Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra 'l sommo Giove», 93 disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto. Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi; 96 le braccia ch'el menò, già mai non move». E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo 99 esperïenza avesser li occhi mei». Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, 102 che ne porrà nel fondo d'ogne reo. Quel che tu vuo' veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo, 105 salvo che più feroce par nel volto». Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, 108 come Fïalte a scuotersi fu presto. Allor temett' io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta, 111 s'io non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo più avante allotta, 130 e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, 114 sanza la testa, uscia fuor de la grotta. «O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda, 117 quand' Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra 120 de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, 123 dove Cocito la freddura serra. Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; 126 però ti china e non torcer lo grifo. Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta 129 se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama». Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, 132 ond' Ercule sentì già grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»; 135 poi fece sì ch'un fascio era elli e io. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada 138 sovr' essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora 141 ch'i' avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; 144 né, sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò. 131 CANTO XXXII [Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de' traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.] S'ïo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco 3 sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch' io non l'abbo, 6 non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, 9 né da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, 12 sì che dal fatto il dir non sia diverso. Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare è duro, 15 mei foste state qui pecore o zebe! Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, 18 e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi'mi: «Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante 21 le teste de' fratei miseri lassi». Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo 24 avea di vetro e non d'acqua sembiante. Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, 27 né Tanaï là sotto 'l freddo cielo, com' era quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, 30 non avria pur da l'orlo fatto cricchi. E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l'acqua, quando sogna 33 di spigolar sovente la villana, 132 livide, insin là dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, 36 mettendo i denti in nota di cicogna. Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo 39 tra lor testimonianza si procaccia. Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti, 42 che 'l pel del capo avieno insieme misto. «Ditemi, voi che sì strignete i petti», diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; 45 e poi ch'ebber li visi a me eretti, li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse 48 le lagrime tra essi e riserrolli. Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond' ei come due becchi 51 cozzaro insieme, tanta ira li vinse. E un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, 54 disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina 57 del padre loro Alberto e di lor fue. D'un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra 60 degna più d'esser fitta in gelatina: non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra con esso un colpo per la man d'Artù; 63 non Focaccia; non questi che m'ingombra col capo sì, ch'i' non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; 66 se tosco se', ben sai omai chi fu. E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; 69 e aspetto Carlin che mi scagioni». Poscia vid' io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, 72 e verrà sempre, de' gelati guazzi. 133 E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, 75 e io tremava ne l'etterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, 78 forte percossi 'l piè nel viso ad una. Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta 81 di Montaperti, perché mi moleste?». E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta, sì ch'io esca d'un dubbio per costui; 84 poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: 87 «Qual se' tu che così rampogni altrui?». «Or tu chi se' che vai per l'Antenora, percotendo», rispuose, «altrui le gote, 90 sì che, se fossi vivo, troppo fora?». «Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, 93 ch'io metta il nome tuo tra l'altre note». Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, 96 ché mal sai lusingar per questa lama!». Allor lo presi per la cuticagna e dissi: «El converrà che tu ti nomi, 99 o che capel qui sù non ti rimagna». Ond' elli a me: «Perché tu mi dischiomi, né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti 102 se mille fiate in sul capo mi tomi». Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien' avea più d'una ciocca, 105 latrando lui con li occhi in giù raccolti, quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, 108 se tu non latri? qual diavol ti tocca?». «Omai», diss' io, «non vo' che più favelle, malvagio traditor; ch'a la tua onta 111 io porterò di te vere novelle». 134 «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, 114 di quel ch'ebbe or così la lingua pronta. El piange qui l'argento de' Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera 117 là dove i peccatori stanno freschi". Se fossi domandato "Altri chi v'era?", tu hai dallato quel di Beccheria 120 di cui segò Fiorenza la gorgiera. Gianni de' Soldanier credo che sia più là con Ganellone e Tebaldello, 123 ch'aprì Faenza quando si dormia». Noi eravam partiti già da ello, ch'io vidi due ghiacciati in una buca, 126 sì che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, così 'l sovran li denti a l'altro pose 129 là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, 132 che quei faceva il teschio e l'altre cose. «O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, 135 dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, 138 nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch'io parlo non si secca». 135 CANTO XXXIII [Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.] La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a' capelli 3 del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme 6 già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, 9 parlar e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se' né per che modo venuto se' qua giù; ma fiorentino 12 mi sembri veramente quand' io t'odo. Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, e questi è l'arcivescovo Ruggieri: 15 or ti dirò perché i son tal vicino. Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso 18 e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, 21 udirai, e saprai s'e' m'ha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame, 24 e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, m'avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand' io feci 'l mal sonno 27 che del futuro mi squarciò 'l velame. Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte 30 per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi 33 s'avea messi dinanzi da la fronte. 136 In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane 36 mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli 39 ch'eran con meco, e dimandar del pane. Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; 42 e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solëa essere addotto, 45 e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti' chiavar l'uscio di sotto a l'orribile torre; ond' io guardai 48 nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio 51 disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". Perciò non lagrimai né rispuos' io tutto quel giorno né la notte appresso, 54 infin che l'altro sol nel mondo uscìo. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi 57 per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia 60 di manicar, di sùbito levorsi e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti 63 queste misere carni, e tu le spoglia". Queta'mi allor per non farli più tristi; lo dì e l'altro stemmo tutti muti; 66 ahi dura terra, perché non t'apristi? Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, 69 dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?". Quivi morì; e come tu mi vedi, vid' io cascar li tre ad uno ad uno 72 tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi, 137 già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. 75 Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno». Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti, 78 che furo a l'osso, come d'un can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove 'l sì suona, 81 poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, 84 sì ch'elli annieghi in te ogne persona! Che se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella, 87 non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'età novella, novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata 90 e li altri due che 'l canto suso appella. Noi passammo oltre, là 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia, 93 non volta in giù, ma tutta riversata. Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, 96 si volge in entro a far crescer l'ambascia; ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, 99 rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. E avvegna che, sì come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento 102 cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentire alquanto vento; per ch'io: «Maestro mio, questo chi move? 105 non è qua giù ogne vapore spento?». Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l'occhio la risposta, 108 veggendo la cagion che 'l fiato piove». E un de' tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli 111 tanto che data v'è l'ultima posta, 138 levatemi dal viso i duri veli, sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, 114 un poco, pria che 'l pianto si raggeli». Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo, 117 al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto, 120 che qui riprendo dattero per figo». «Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?». Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea 123 nel mondo sù, nulla scïenza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade 126 innanzi ch'Atropòs mossa le dea. E perché tu più volentier mi rade le 'nvetrïate lagrime dal volto, 129 sappie che, tosto che l'anima trade come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto da un demonio, che poscia il governa 132 mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto. Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso 135 de l'ombra che di qua dietro mi verna. Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni 138 poscia passati ch'el fu sì racchiuso». «Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, 141 e mangia e bee e dorme e veste panni». «Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche, là dove bolle la tenace pece, 144 non era ancora giunto Michel Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano 147 che 'l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non gliel' apersi; 150 e cortesia fu lui esser villano. 139 Ahi Genovesi, uomini diversi d'ogne costume e pien d'ogne magagna, 153 perché non siete voi del mondo spersi? Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra 156 in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra. 140 CANTO XXXIV [Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de' dimoni e de' traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno.] « Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», 3 disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni». Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, 6 par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro 9 al duca mio, ché non lì era altra grotta. Già era, e con paura il metto in metro, là dove l'ombre tutte eran coperte, 12 e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; 15 altra, com' arco, il volto a' piè rinverte. Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi 18 la creatura ch'ebbe il bel sembiante, d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco 21 ove convien che di fortezza t'armi». Com' io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, 24 però ch'ogne parlar sarebbe poco. Io non mori' e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, 27 qual io divenni, d'uno e d'altro privo. Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; 30 e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant' esser dee quel tutto 33 ch'a così fatta parte si confaccia. S'el fu sì bel com' elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, 141 36 ben dee da lui procedere ogne lutto. Oh quanto parve a me gran maraviglia quand' io vidi tre facce a la sua testa! 39 L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, 42 e sé giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali 45 vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. Sotto ciascuna uscivan due grand' ali, quanto si convenia a tanto uccello: 48 vele di mar non vid' io mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, 51 sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi piangëa, e per tre menti 54 gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, 57 sì che tre ne facea così dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena 60 rimanea de la pelle tutta brulla. «Quell' anima là sù c'ha maggior pena», disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto, 63 che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: 66 vedi come si storce, e non fa motto!; e l'altro è Cassio, che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai 69 è da partir, ché tutto avem veduto». Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, 72 e quando l'ali fuoro aperte assai, appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia 142 75 tra 'l folto pelo e le gelate croste. Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, 78 lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov' elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com' om che sale, 81 sì che 'n inferno i' credea tornar anche. «Attienti ben, ché per cotali scale», disse 'l maestro, ansando com' uom lasso, 84 «conviensi dipartir da tanto male». Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso e puose me in su l'orlo a sedere; 87 appresso porse a me l'accorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com' io l'avea lasciato, 90 e vidili le gambe in sù tenere; e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede 93 qual è quel punto ch'io avea passato. «Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, 96 e già il sole a mezza terza riede». Non era camminata di palagio là 'v' eravam, ma natural burella 99 ch'avea mal suolo e di lume disagio. «Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss' io quando fui dritto, 102 «a trarmi d'erro un poco mi favella: ov' è la ghiaccia? e questi com' è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc' ora, 105 da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». Ed elli a me: «Tu imagini ancora d'esser di là dal centro, ov' io mi presi 108 al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. Di là fosti cotanto quant' io scesi; quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto 111 al qual si traggon d'ogne parte i pesi. E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca 143 114 coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; tu haï i piedi in su picciola spera 117 che l'altra faccia fa de la Giudecca. Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, 120 fitto è ancora sì come prim' era. Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, 123 per paura di lui fé del mar velo, e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto 126 quella ch'appar di qua, e sù ricorse». Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, 129 che non per vista, ma per suono è noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, 132 col corso ch'elli avvolge, e poco pende. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; 135 e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle 138 che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. 144 [ Explicit prima pars Comedie Dantis Alagherii Dantis Alagherii in qua tractatum est de Inferis] 145 PURGATORIO CANTO I [Comincia la seconda parte overo cantica de la Comedia di Dante Allaghieri di Firenze, ne la quale parte si purgano li commessi peccati e vizi de' quali l'uomo è confesso e pentuto con animo di sodisfazione; e contiene XXXIII canti. Qui sono quelli che sperano di venire quando che sia a le beate genti.] Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, 3 che lascia dietro a sé mar sì crudele; e canterò di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga 6 e di salire al ciel diventa degno. Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; 9 e qui Calïopè alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro 12 lo colpo tal, che disperar perdono. Dolce color d'orïental zaffiro, che s'accoglieva nel sereno aspetto 15 del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta 18 che m'avea contristati li occhi e 'l petto. Lo bel pianeto che d'amar conforta faceva tutto rider l'orïente, 21 velando i Pesci ch'erano in sua scorta. I' mi volsi a man destra, e puosi mente a l'altro polo, e vidi quattro stelle 24 non viste mai fuor ch'a la prima gente. Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle: oh settentrïonal vedovo sito, 27 poi che privato se' di mirar quelle! Com' io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l'altro polo, 30 là onde 'l Carro già era sparito, 146 vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, 33 che più non dee a padre alcun figliuolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a' suoi capelli simigliante, 36 de' quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, 39 ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante. «Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», 42 diss' el, movendo quelle oneste piume. «Chi v'ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte 45 che sempre nera fa la valle inferna? Son le leggi d'abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, 48 che, dannati, venite a le mie grotte?». Lo duca mio allor mi diè di piglio, e con parole e con mani e con cenni 51 reverenti mi fé le gambe e 'l ciglio. Poscia rispuose lui: «Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi 54 de la mia compagnia costui sovvenni. Ma da ch'è tuo voler che più si spieghi di nostra condizion com' ell' è vera, 57 esser non puote il mio che a te si nieghi. Questi non vide mai l'ultima sera; ma per la sua follia le fu sì presso, 60 che molto poco tempo a volger era. Sì com' io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non lì era altra via 63 che questa per la quale i' mi son messo. Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti 66 che purgan sé sotto la tua balìa. Com' io l'ho tratto, saria lungo a dirti; de l'alto scende virtù che m'aiuta 69 conducerlo a vederti e a udirti. 147 Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch'è sì cara, 72 come sa chi per lei vita rifiuta. Tu 'l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti 75 la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara. Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive e Minòs me non lega; 78 ma son del cerchio ove son li occhi casti di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: 81 per lo suo amore adunque a noi ti piega. Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, 84 se d'esser mentovato là giù degni». «Marzïa piacque tanto a li occhi miei mentre ch'i' fu' di là», diss' elli allora, 87 «che quante grazie volse da me, fei. Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge 90 che fatta fu quando me n'usci' fora. Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu di', non c'è mestier lusinghe: 93 bastisi ben che per lei mi richegge. Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso, 96 sì ch'ogne sucidume quindi stinghe; ché non si converria, l'occhio sorpriso d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo 99 ministro, ch'è di quei di paradiso. Questa isoletta intorno ad imo ad imo, là giù colà dove la batte l'onda, 102 porta di giunchi sovra 'l molle limo: null' altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, 105 però ch'a le percosse non seconda. Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterrà, che surge omai, 108 prendere il monte a più lieve salita». 148 Così sparì; e io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi 111 al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, ché di qua dichina 114 questa pianura a' suoi termini bassi». L'alba vinceva l'ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano 117 conobbi il tremolar de la marina. Noi andavam per lo solingo piano com' om che torna a la perduta strada, 120 che 'nfino ad essa li pare ire in vano. Quando noi fummo là 've la rugiada pugna col sole, per essere in parte 123 dove, ad orezza, poco si dirada, ambo le mani in su l'erbetta sparte soavemente 'l mio maestro pose: 126 ond' io, che fui accorto di sua arte, porsi ver' lui le guance lagrimose; ivi mi fece tutto discoverto 129 quel color che l'inferno mi nascose. Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque 132 omo, che di tornar sia poscia esperto. Quivi mi cinse sì com' altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse 135 l'umile pianta, cotal si rinacque subitamente là onde l'avelse. 149 CANTO II [Canto secondo, nel quale tratta de la prima qualitade cioè dilettazione di vanitade, nel quale peccato inviluppati sono puniti proprio fuori del purgatorio in uno piano, e in persona di costoro nomina il Casella, uomo di corte.] Già era 'l sole a l'orizzonte giunto lo cui meridïan cerchio coverchia 3 Ierusalèm col suo più alto punto; e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance, 6 che le caggion di man quando soverchia; sì che le bianche e le vermiglie guance, là dov' i' era, de la bella Aurora 9 per troppa etate divenivan rance. Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, 12 che va col cuore e col corpo dimora. Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia 15 giù nel ponente sovra 'l suol marino, cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir sì ratto, 18 che 'l muover suo nessun volar pareggia. Dal qual com' io un poco ebbi ritratto l'occhio per domandar lo duca mio, 21 rividil più lucente e maggior fatto. Poi d'ogne lato ad esso m'appario un non sapeva che bianco, e di sotto 24 a poco a poco un altro a lui uscìo. Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; 27 allor che ben conobbe il galeotto, gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco l'angel di Dio: piega le mani; 30 omai vedrai di sì fatti officiali. Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo 33 che l'ali sue, tra liti sì lontani. 150 Vedi come l'ha dritte verso 'l cielo, trattando l'aere con l'etterne penne, 36 che non si mutan come mortal pelo». Poi, come più e più verso noi venne l'uccel divino, più chiaro appariva: 39 per che l'occhio da presso nol sostenne, ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggero, 42 tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva. Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che faria beato pur descripto; 45 e più di cento spirti entro sediero. ' In exitu Isräel de Aegypto' cantavan tutti insieme ad una voce 48 con quanto di quel salmo è poscia scripto. Poi fece il segno lor di santa croce; ond' ei si gittar tutti in su la piaggia: 51 ed el sen gì, come venne, veloce. La turba che rimase lì, selvaggia parea del loco, rimirando intorno 54 come colui che nove cose assaggia. Da tutte parti saettava il giorno lo sol, ch'avea con le saette conte 57 di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno, quando la nova gente alzò la fronte ver' noi, dicendo a noi: «Se voi sapete, 60 mostratene la via di gire al monte». E Virgilio rispuose: «Voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; 63 ma noi siam peregrin come voi siete. Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, per altra via, che fu sì aspra e forte, 66 che lo salire omai ne parrà gioco». L'anime, che si fuor di me accorte, per lo spirare, ch'i' era ancor vivo, 69 maravigliando diventaro smorte. E come a messagger che porta ulivo tragge la gente per udir novelle, 72 e di calcar nessun si mostra schivo, 151 così al viso mio s'affisar quelle anime fortunate tutte quante, 75 quasi oblïando d'ire a farsi belle. Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi, con sì grande affetto, 78 che mosse me a far lo somigliante. Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, 81 e tante mi tornai con esse al petto. Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l'ombra sorrise e si ritrasse, 84 e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. Soavemente disse ch'io posasse; allor conobbi chi era, e pregai 87 che, per parlarmi, un poco s'arrestasse. Rispuosemi: «Così com' io t'amai nel mortal corpo, così t'amo sciolta: 90 però m'arresto; ma tu perché vai?». «Casella mio, per tornar altra volta là dov' io son, fo io questo vïaggio», 93 diss' io; «ma a te com' è tanta ora tolta?». Ed elli a me: «Nessun m'è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, 96 più volte m'ha negato esto passaggio; ché di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto 99 chi ha voluto intrar, con tutta pace. Ond' io, ch'era ora a la marina vòlto dove l'acqua di Tevero s'insala, 102 benignamente fu' da lui ricolto. A quella foce ha elli or dritta l'ala, però che sempre quivi si ricoglie 105 qual verso Acheronte non si cala». E io: «Se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l'amoroso canto 108 che mi solea quetar tutte mie doglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l'anima mia, che, con la sua persona 111 venendo qui, è affannata tanto!». 152 ' Amor che ne la mente mi ragiona' cominciò elli allor sì dolcemente, 114 che la dolcezza ancor dentro mi suona. Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui parevan sì contenti, 117 come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto 120 gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? qual negligenza, quale stare è questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio 123 ch'esser non lascia a voi Dio manifesto». Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, 126 queti, sanza mostrar l'usato orgoglio, se cosa appare ond' elli abbian paura, subitamente lasciano star l'esca, 129 perch' assaliti son da maggior cura; così vid' io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa, 132 com' om che va, né sa dove rïesca; né la nostra partita fu men tosta. 153 CANTO III [Canto III, nel quale si tratta de la seconda qualitade, cioè di coloro che per cagione d'alcuna violenza che ricevettero, tardaro di qui a loro fine a pentersi e confessarsi de' loro falli, sì come sono quelli che muoiono in contumacia di Santa Chiesa scomunicati, li quali sono puniti in quel piano. In essempro di cotali peccatori nomina tra costoro il re Manfredi.] Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, 3 rivolti al monte ove ragion ne fruga, i' mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare' io sanza lui corso? 6 chi m'avria tratto su per la montagna? El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscïenza e netta, 9 come t'è picciol fallo amaro morso! Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l'onestade ad ogn' atto dismaga, 12 la mente mia, che prima era ristretta, lo 'ntento rallargò, sì come vaga, e diedi 'l viso mio incontr' al poggio 15 che 'nverso 'l ciel più alto si dislaga. Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m'era dinanzi a la figura, 18 ch'avëa in me de' suoi raggi l'appoggio. Io mi volsi dallato con paura d'essere abbandonato, quand' io vidi 21 solo dinanzi a me la terra oscura; e 'l mio conforto: «Perché pur diffidi?», a dir mi cominciò tutto rivolto; 24 «non credi tu me teco e ch'io ti guidi? Vespero è già colà dov' è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; 27 Napoli l'ha, e da Brandizio è tolto. Ora, se innanzi a me nulla s'aombra, non ti maravigliar più che d'i cieli 30 che l'uno a l'altro raggio non ingombra. A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone 154 33 che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli. Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via 36 che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, 39 mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, 42 ch'etternalmente è dato lor per lutto: io dico d'Aristotile e di Plato e di molt' altri»; e qui chinò la fronte, 45 e più non disse, e rimase turbato. Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, 48 che 'ndarno vi sarien le gambe pronte. Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, 51 verso di quella, agevole e aperta. «Or chi sa da qual man la costa cala», disse 'l maestro mio fermando 'l passo, 54 «sì che possa salir chi va sanz' ala?». E mentre ch'e' tenendo 'l viso basso essaminava del cammin la mente, 57 e io mirava suso intorno al sasso, da man sinistra m'apparì una gente d'anime, che movieno i piè ver' noi, 60 e non pareva, sì venïan lente. «Leva», diss' io, «maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne darà consiglio, 63 se tu da te medesmo aver nol puoi». Guardò allora, e con libero piglio rispuose: «Andiamo in là, ch'ei vegnon piano; 66 e tu ferma la spene, dolce figlio». Ancora era quel popol di lontano, i' dico dopo i nostri mille passi, 69 quanto un buon gittator trarria con mano, quando si strinser tutti ai duri massi de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti 155 72 com' a guardar, chi va dubbiando, stassi. «O ben finiti, o già spiriti eletti», Virgilio incominciò, «per quella pace 75 ch'i' credo che per voi tutti s'aspetti, ditene dove la montagna giace, sì che possibil sia l'andare in suso; 78 ché perder tempo a chi più sa più spiace». Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l'altre stanno 81 timidette atterrando l'occhio e 'l muso; e ciò che fa la prima, e l'altre fanno, addossandosi a lei, s'ella s'arresta, 84 semplici e quete, e lo 'mperché non sanno; sì vid' io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, 87 pudica in faccia e ne l'andare onesta. Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, 90 sì che l'ombra era da me a la grotta, restaro, e trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, 93 non sappiendo 'l perché, fenno altrettanto. «Sanza vostra domanda io vi confesso che questo è corpo uman che voi vedete; 96 per che 'l lume del sole in terra è fesso. Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtù che da ciel vegna 99 cerchi di soverchiar questa parete». Così 'l maestro; e quella gente degna «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», 102 coi dossi de le man faccendo insegna. E un di loro incominciò: «Chiunque tu se', così andando, volgi 'l viso: 105 pon mente se di là mi vedesti unque». Io mi volsi ver' lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, 108 ma l'un de' cigli un colpo avea diviso. Quand' io mi fui umilmente disdetto d'averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; 156 111 e mostrommi una piaga a sommo 'l petto. Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; 114 ond' io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l'onor di Cicilia e d'Aragona, 117 e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice. Poscia ch'io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, 120 piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, 123 che prende ciò che si rivolge a lei. Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, 126 avesse in Dio ben letta questa faccia, l'ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, 129 sotto la guardia de la grave mora. Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, 132 dov' e' le trasmutò a lume spento. Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l'etterno amore, 135 mentre che la speranza ha fior del verde. Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta, 138 star li convien da questa ripa in fore, per ognun tempo ch'elli è stato, trenta, in sua presunzïon, se tal decreto 141 più corto per buon prieghi non diventa. Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza 144 come m'hai visto, e anco esto divieto; ché qui per quei di là molto s'avanza». 157 CANTO IV [Canto IV, dove si tratta de la soprascritta seconda qualitade, dove si purga chi per negligenza di qui a la morte si tardòe a confessare; tra i quali si nomina il Belacqua, uomo di corte.] Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtù nostra comprenda, 3 l'anima bene ad essa si raccoglie, par ch'a nulla potenza più intenda; e questo è contra quello error che crede 6 ch'un'anima sovr' altra in noi s'accenda. E però, quando s'ode cosa o vede che tegna forte a sé l'anima volta, 9 vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede; ch'altra potenza è quella che l'ascolta, e altra è quella c'ha l'anima intera: 12 questa è quasi legata e quella è sciolta. Di ciò ebb' io esperïenza vera, udendo quello spirto e ammirando; 15 ché ben cinquanta gradi salito era lo sole, e io non m'era accorto, quando venimmo ove quell' anime ad una 18 gridaro a noi: «Qui è vostro dimando». Maggiore aperta molte volte impruna con una forcatella di sue spine 21 l'uom de la villa quando l'uva imbruna, che non era la calla onde salìne lo duca mio, e io appresso, soli, 24 come da noi la schiera si partìne. Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova e 'n Cacume 27 con esso i piè; ma qui convien ch'om voli; dico con l'ale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto 30 che speranza mi dava e facea lume. Noi salavam per entro 'l sasso rotto, e d'ogne lato ne stringea lo stremo, 33 e piedi e man volea il suol di sotto. 158 Poi che noi fummo in su l'orlo suppremo de l'alta ripa, a la scoperta piaggia, 36 «Maestro mio», diss' io, «che via faremo?». Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista, 39 fin che n'appaia alcuna scorta saggia». Lo sommo er' alto che vincea la vista, e la costa superba più assai 42 che da mezzo quadrante a centro lista. Io era lasso, quando cominciai: «O dolce padre, volgiti, e rimira 45 com' io rimango sol, se non restai». «Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira», additandomi un balzo poco in sùe 48 che da quel lato il poggio tutto gira. Sì mi spronaron le parole sue, ch'i' mi sforzai carpando appresso lui, 51 tanto che 'l cinghio sotto i piè mi fue. A seder ci ponemmo ivi ambedui vòlti a levante ond' eravam saliti, 54 che suole a riguardar giovare altrui. Li occhi prima drizzai ai bassi liti; poscia li alzai al sole, e ammirava 57 che da sinistra n'eravam feriti. Ben s'avvide il poeta ch'ïo stava stupido tutto al carro de la luce, 60 ove tra noi e Aquilone intrava. Ond' elli a me: «Se Castore e Poluce fossero in compagnia di quello specchio 63 che sù e giù del suo lume conduce, tu vedresti il Zodïaco rubecchio ancora a l'Orse più stretto rotare, 66 se non uscisse fuor del cammin vecchio. Come ciò sia, se 'l vuoi poter pensare, dentro raccolto, imagina Sïòn 69 con questo monte in su la terra stare sì, ch'amendue hanno un solo orizzòn e diversi emisperi; onde la strada 72 che mal non seppe carreggiar Fetòn, 159 vedrai come a costui convien che vada da l'un, quando a colui da l'altro fianco, 75 se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada». «Certo, maestro mio», diss' io, «unquanco non vid' io chiaro sì com' io discerno 78 là dove mio ingegno parea manco, che 'l mezzo cerchio del moto superno, che si chiama Equatore in alcun' arte, 81 e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno, per la ragion che di', quinci si parte verso settentrïon, quanto li Ebrei 84 vedevan lui verso la calda parte. Ma se a te piace, volontier saprei quanto avemo ad andar; ché 'l poggio sale 87 più che salir non posson li occhi miei». Ed elli a me: «Questa montagna è tale, che sempre al cominciar di sotto è grave; 90 e quant' om più va sù, e men fa male. Però, quand' ella ti parrà soave tanto, che sù andar ti fia leggero 93 com' a seconda giù andar per nave, allor sarai al fin d'esto sentiero; quivi di riposar l'affanno aspetta. 96 Più non rispondo, e questo so per vero». E com' elli ebbe sua parola detta, una voce di presso sonò: «Forse 99 che di sedere in pria avrai distretta!». Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone, 102 del qual né io né ei prima s'accorse. Là ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l'ombra dietro al sasso 105 come l'uom per negghienza a star si pone. E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, 108 tenendo 'l viso giù tra esse basso. «O dolce segnor mio», diss' io, «adocchia colui che mostra sé più negligente 111 che se pigrizia fosse sua serocchia». 160 Allor si volse a noi e puose mente, movendo 'l viso pur su per la coscia, 114 e disse: «Or va tu sù, che se' valente!». Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m'avacciava un poco ancor la lena, 117 non m'impedì l'andare a lui; e poscia ch'a lui fu' giunto, alzò la testa a pena, dicendo: «Hai ben veduto come 'l sole 120 da l'omero sinistro il carro mena?». Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; 123 poi cominciai: «Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perché assiso quiritto se'? attendi tu iscorta, 126 o pur lo modo usato t'ha' ripriso?». Ed elli: «O frate, andar in sù che porta? ché non mi lascerebbe ire a' martìri 129 l'angel di Dio che siede in su la porta. Prima convien che tanto il ciel m'aggiri di fuor da essa, quanto fece in vita, 132 per ch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri, se orazïone in prima non m'aita che surga sù di cuor che in grazia viva; 135 l'altra che val, che 'n ciel non è udita?». E già il poeta innanzi mi saliva, e dicea: «Vienne omai; vedi ch'è tocco 138 meridïan dal sole e a la riva cuopre la notte già col piè Morrocco». 161 CANTO V [Canto V, ove si tratta de la terza qualitade, cioè di coloro che per cagione di vendicarsi d'alcuna ingiuria insino a la morte mettono in non calere di riconoscere sé esser peccatori e soddisfare a Dio; de li quali nomina in persona messer Iacopo di Fano e Bonconte di Montefeltro.] Io era già da quell' ombre partito, e seguitava l'orme del mio duca, 3 quando di retro a me, drizzando 'l dito, una gridò: «Ve' che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, 6 e come vivo par che si conduca!». Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia 9 pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto. «Perché l'animo tuo tanto s'impiglia», disse 'l maestro, «che l'andare allenti? 12 che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla 15 già mai la cima per soffiar di venti; ché sempre l'omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da sé dilunga il segno, 18 perché la foga l'un de l'altro insolla». Che potea io ridir, se non «Io vegno»? Dissilo, alquanto del color consperso 21 che fa l'uom di perdon talvolta degno. E 'ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, 24 cantando ' Miserere' a verso a verso. Quando s'accorser ch'i' non dava loco per lo mio corpo al trapassar d'i raggi, 27 mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco; e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr' a noi e dimandarne: 30 «Di vostra condizion fatene saggi». E 'l mio maestro: «Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro 33 che 'l corpo di costui è vera carne. 162 Se per veder la sua ombra restaro, com' io avviso, assai è lor risposto: 36 fàccianli onore, ed esser può lor caro». Vapori accesi non vid' io sì tosto di prima notte mai fender sereno, 39 né, sol calando, nuvole d'agosto, che color non tornasser suso in meno; e, giunti là, con li altri a noi dier volta, 42 come schiera che scorre sanza freno. «Questa gente che preme a noi è molta, e vegnonti a pregar», disse 'l poeta: 45 «però pur va, e in andando ascolta». «O anima che vai per esser lieta con quelle membra con le quai nascesti», 48 venian gridando, «un poco il passo queta. Guarda s'alcun di noi unqua vedesti, sì che di lui di là novella porti: 51 deh, perché vai? deh, perché non t'arresti? Noi fummo tutti già per forza morti, e peccatori infino a l'ultima ora; 54 quivi lume del ciel ne fece accorti, sì che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, 57 che del disio di sé veder n'accora». E io: «Perché ne' vostri visi guati, non riconosco alcun; ma s'a voi piace 60 cosa ch'io possa, spiriti ben nati, voi dite, e io farò per quella pace che, dietro a' piedi di sì fatta guida, 63 di mondo in mondo cercar mi si face». E uno incominciò: «Ciascun si fida del beneficio tuo sanza giurarlo, 66 pur che 'l voler nonpossa non ricida. Ond' io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese 69 che siede tra Romagna e quel di Carlo, che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, sì che ben per me s'adori 72 pur ch'i' possa purgar le gravi offese. 163 Quindi fu' io; ma li profondi fóri ond' uscì 'l sangue in sul quale io sedea, 75 fatti mi fuoro in grembo a li Antenori, là dov' io più sicuro esser credea: quel da Esti il fé far, che m'avea in ira 78 assai più là che dritto non volea. Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira, quando fu' sovragiunto ad Orïaco, 81 ancor sarei di là dove si spira. Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco m'impigliar sì ch'i' caddi; e lì vid' io 84 de le mie vene farsi in terra laco». Poi disse un altro: «Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l'alto monte, 87 con buona pïetate aiuta il mio! Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; 90 per ch'io vo tra costor con bassa fronte». E io a lui: «Qual forza o qual ventura ti travïò sì fuor di Campaldino, 93 che non si seppe mai tua sepultura?». «Oh!», rispuos' elli, «a piè del Casentino traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano, 96 che sovra l'Ermo nasce in Apennino. Là 've 'l vocabol suo diventa vano, arriva' io forato ne la gola, 99 fuggendo a piede e sanguinando il piano. Quivi perdei la vista e la parola; nel nome di Maria fini', e quivi 102 caddi, e rimase la mia carne sola. Io dirò vero, e tu 'l ridì tra ' vivi: l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno 105 gridava: "O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l'etterno per una lagrimetta che 'l mi toglie; 108 ma io farò de l'altro altro governo!". Ben sai come ne l'aere si raccoglie quell' umido vapor che in acqua riede, 111 tosto che sale dove 'l freddo il coglie. 164 Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento 114 per la virtù che sua natura diede. Indi la valle, come 'l dì fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse 117 di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento, sì che 'l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde, e a' fossati venne 120 di lei ciò che la terra non sofferse; e come ai rivi grandi si convenne, ver' lo fiume real tanto veloce 123 si ruinò, che nulla la ritenne. Lo corpo mio gelato in su la foce trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse 126 ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce ch'i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse; voltòmmi per le ripe e per lo fondo, 129 poi di sua preda mi coperse e cinse». «Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via», 132 seguitò 'l terzo spirito al secondo, «ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: 135 salsi colui che 'nnanellata pria disposando m'avea con la sua gemma». 165 CANTO VI [Canto VI, dove si tratta di quella medesima qualitade, dove si purga la predetta mala volontà di vendicare la 'ngiuria, e per questo si ritarda sua confessione, e dove truova e nomina Sordella da Mantua.] Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, 3 repetendo le volte, e tristo impara; con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, 6 e qual dallato li si reca a mente; el non s'arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, più non fa pressa; 9 e così da la calca si difende. Tal era io in quella turba spessa, volgendo a loro, e qua e là, la faccia, 12 e promettendo mi sciogliea da essa. Quiv' era l'Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, 15 e l'altro ch'annegò correndo in caccia. Quivi pregava con le mani sporte Federigo Novello, e quel da Pisa 18 che fé parer lo buon Marzucco forte. Vidi conte Orso e l'anima divisa dal corpo suo per astio e per inveggia, 21 com' e' dicea, non per colpa commisa; Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentr' è di qua, la donna di Brabante, 24 sì che però non sia di peggior greggia. Come libero fui da tutte quante quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi, 27 sì che s'avacci lor divenir sante, io cominciai: «El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo 30 che decreto del cielo orazion pieghi; e questa gente prega pur di questo: sarebbe dunque loro speme vana, 33 o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?». 166 Ed elli a me: «La mia scrittura è piana; e la speranza di costor non falla, 36 se ben si guarda con la mente sana; ché cima di giudicio non s'avvalla perché foco d'amor compia in un punto 39 ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla; e là dov' io fermai cotesto punto, non s'ammendava, per pregar, difetto, 42 perché 'l priego da Dio era disgiunto. Veramente a così alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice 45 che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto. Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice; tu la vedrai di sopra, in su la vetta 48 di questo monte, ridere e felice». E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta, ché già non m'affatico come dianzi, 51 e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta». «Noi anderem con questo giorno innanzi», rispuose, «quanto più potremo omai; 54 ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi. Prima che sie là sù, tornar vedrai colui che già si cuopre de la costa, 57 sì che ' suoi raggi tu romper non fai. Ma vedi là un'anima che, posta sola soletta, inverso noi riguarda: 60 quella ne 'nsegnerà la via più tosta». Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa 63 e nel mover de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dicëa alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando 66 a guisa di leon quando si posa. Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita; 69 e quella non rispuose al suo dimando, ma di nostro paese e de la vita ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava 72 «Mantüa…», e l'ombra, tutta in sé romita, 167 surse ver' lui del loco ove pria stava, dicendo: «O Mantoano, io son Sordello 75 de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, 78 non donna di province, ma bordello! Quell' anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, 81 di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode 84 di quei ch'un muro e una fossa serra. Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, 87 s'alcuna parte in te di pace gode. Che val perché ti racconciasse il freno Iustinïano, se la sella è vòta? 90 Sanz' esso fora la vergogna meno. Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, 93 se bene intendi ciò che Dio ti nota, guarda come esta fiera è fatta fella per non esser corretta da li sproni, 96 poi che ponesti mano a la predella. O Alberto tedesco ch'abbandoni costei ch'è fatta indomita e selvaggia, 99 e dovresti inforcar li suoi arcioni, giusto giudicio da le stelle caggia sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto, 102 tal che 'l tuo successor temenza n'aggia! Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto, per cupidigia di costà distretti, 105 che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto. Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: 108 color già tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d'i tuoi gentili, e cura lor magagne; 111 e vedrai Santafior com' è oscura! 168 Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: 114 «Cesare mio, perché non m'accompagne?». Vieni a veder la gente quanto s'ama! e se nulla di noi pietà ti move, 117 a vergognar ti vien de la tua fama. E se licito m'è, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, 120 son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? O è preparazion che ne l'abisso del tuo consiglio fai per alcun bene 123 in tutto de l'accorger nostro scisso? Ché le città d'Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa 126 ogne villan che parteggiando viene. Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca, 129 mercé del popol tuo che si argomenta. Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l'arco; 132 ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca. Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo solicito risponde 135 sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!». Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace e tu con senno! 138 S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde. Atene e Lacedemona, che fenno l'antiche leggi e furon sì civili, 141 fecero al viver bene un picciol cenno verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch'a mezzo novembre 144 non giugne quel che tu d'ottobre fili. Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume 147 hai tu mutato, e rinovate membre! E se ben ti ricordi e vedi lume, vedrai te somigliante a quella inferma 150 che non può trovar posa in su le piume, 169 ma con dar volta suo dolore scherma. 170 CANTO VII [Canto VII, dove si purga la quarta qualitade di coloro che, per propria negligenza, di die in die di qui all'ultimo giorno di loro vita tardaro indebitamente loro confessione; li quali si purgano in uno vallone intra fiori ed erbe; dove nomina il re Carlo e molti altri.] Poscia che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, 3 Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?». «Anzi che a questo monte fosser volte l'anime degne di salire a Dio, 6 fur l'ossa mie per Ottavian sepolte. Io son Virgilio; e per null' altro rio lo ciel perdei che per non aver fé». 9 Così rispuose allora il duca mio. Qual è colui che cosa innanzi sé sùbita vede ond' e' si maraviglia, 12 che crede e non, dicendo «Ella è… non è…», tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, e umilmente ritornò ver' lui, 15 e abbracciòl là 've 'l minor s'appiglia. «O gloria di Latin», disse, «per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra, 18 o pregio etterno del loco ond' io fui, qual merito o qual grazia mi ti mostra? S'io son d'udir le tue parole degno, 21 dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra». «Per tutt' i cerchi del dolente regno», rispuose lui, «son io di qua venuto; 24 virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. Non per far, ma per non fare ho perduto a veder l'alto Sol che tu disiri 27 e che fu tardi per me conosciuto. Luogo è là giù non tristo di martìri, ma di tenebre solo, ove i lamenti 30 non suonan come guai, ma son sospiri. Quivi sto io coi pargoli innocenti dai denti morsi de la morte avante 33 che fosser da l'umana colpa essenti; 171 quivi sto io con quei che le tre sante virtù non si vestiro, e sanza vizio 36 conobber l'altre e seguir tutte quante. Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio dà noi per che venir possiam più tosto 39 là dove purgatorio ha dritto inizio». Rispuose: «Loco certo non c'è posto; licito m'è andar suso e intorno; 42 per quanto ir posso, a guida mi t'accosto. Ma vedi già come dichina il giorno, e andar sù di notte non si puote; 45 però è buon pensar di bel soggiorno. Anime sono a destra qua remote; se mi consenti, io ti merrò ad esse, 48 e non sanza diletto ti fier note». «Com' è ciò?», fu risposto. «Chi volesse salir di notte, fora elli impedito 51 d'altrui, o non sarria ché non potesse?». E 'l buon Sordello in terra fregò 'l dito, dicendo: «Vedi? sola questa riga 54 non varcheresti dopo 'l sol partito: non però ch'altra cosa desse briga, che la notturna tenebra, ad ir suso; 57 quella col nonpoder la voglia intriga. Ben si poria con lei tornare in giuso e passeggiar la costa intorno errando, 60 mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso». Allora il mio segnor, quasi ammirando, «Menane», disse, «dunque là 've dici 63 ch'aver si può diletto dimorando». Poco allungati c'eravam di lici, quand' io m'accorsi che 'l monte era scemo, 66 a guisa che i vallon li sceman quici. «Colà», disse quell' ombra, «n'anderemo dove la costa face di sé grembo; 69 e là il novo giorno attenderemo». Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca, 72 là dove più ch'a mezzo muore il lembo. 172 Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido e sereno, 75 fresco smeraldo in l'ora che si fiacca, da l'erba e da li fior, dentr' a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, 78 come dal suo maggiore è vinto il meno. Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavità di mille odori 81 vi facea uno incognito e indistinto. ' Salve, Regina' in sul verde e 'n su' fiori quindi seder cantando anime vidi, 84 che per la valle non parean di fuori. «Prima che 'l poco sole omai s'annidi», cominciò 'l Mantoan che ci avea vòlti, 87 «tra color non vogliate ch'io vi guidi. Di questo balzo meglio li atti e ' volti conoscerete voi di tutti quanti, 90 che ne la lama giù tra essi accolti. Colui che più siede alto e fa sembianti d'aver negletto ciò che far dovea, 93 e che non move bocca a li altrui canti, Rodolfo imperador fu, che potea sanar le piaghe c'hanno Italia morta, 96 sì che tardi per altri si ricrea. L'altro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove l'acqua nasce 99 che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio 102 barbuto, cui lussuria e ozio pasce. E quel nasetto che stretto a consiglio par con colui c'ha sì benigno aspetto, 105 morì fuggendo e disfiorando il giglio: guardate là come si batte il petto! L'altro vedete c'ha fatto a la guancia 108 de la sua palma, sospirando, letto. Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda, 111 e quindi viene il duol che sì li lancia. 173 Quel che par sì membruto e che s'accorda, cantando, con colui dal maschio naso, 114 d'ogne valor portò cinta la corda; e se re dopo lui fosse rimaso lo giovanetto che retro a lui siede, 117 ben andava il valor di vaso in vaso, che non si puote dir de l'altre rede; Iacomo e Federigo hanno i reami; 120 del retaggio miglior nessun possiede. Rade volte risurge per li rami l'umana probitate; e questo vole 123 quei che la dà, perché da lui si chiami. Anche al nasuto vanno mie parole non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta, 126 onde Puglia e Proenza già si dole. Tant' è del seme suo minor la pianta, quanto, più che Beatrice e Margherita, 129 Costanza di marito ancor si vanta. Vedete il re de la semplice vita seder là solo, Arrigo d'Inghilterra: 132 questi ha ne' rami suoi migliore uscita. Quel che più basso tra costor s'atterra, guardando in suso, è Guiglielmo marchese, 135 per cui e Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canavese». 174 CANTO VIII [Canto VIII, dove si tratta de la quinta qualitade, cioè di coloro che, per timore di non perdere onore e signoria e offizi e massimalmente per non ritrarre le mani da l'utilità de la pecunia, si tardaro a confessare di qui a l'ultima ora di loro vita e non facendo penitenza di lor peccati; dove nomina iudice Nino e Currado marchese Malespini.] Era già l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core 3 lo dì c'han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano 6 che paia il giorno pianger che si more; quand' io incominciai a render vano l'udire e a mirare una de l'alme 9 surta, che l'ascoltar chiedea con mano. Ella giunse e levò ambo le palme, ficcando li occhi verso l'orïente, 12 come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'. 'Te lucis ante' sì devotamente le uscìo di bocca e con sì dolci note, 15 che fece me a me uscir di mente; e l'altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l'inno intero, 18 avendo li occhi a le superne rote. Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché 'l velo è ora ben tanto sottile, 21 certo che 'l trapassar dentro è leggero. Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in sùe, 24 quasi aspettando, palido e umìle; e vidi uscir de l'alto e scender giùe due angeli con due spade affocate, 27 tronche e private de le punte sue. Verdi come fogliette pur mo nate erano in veste, che da verdi penne 30 percosse traean dietro e ventilate. L'un poco sovra noi a star si venne, e l'altro scese in l'opposita sponda, 175 33 sì che la gente in mezzo si contenne. Ben discernëa in lor la testa bionda; ma ne la faccia l'occhio si smarria, 36 come virtù ch'a troppo si confonda. «Ambo vegnon del grembo di Maria», disse Sordello, «a guardia de la valle, 39 per lo serpente che verrà vie via». Ond' io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto m'accostai, 42 tutto gelato, a le fidate spalle. E Sordello anco: «Or avvalliamo omai tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; 45 grazïoso fia lor vedervi assai». Solo tre passi credo ch'i' scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava 48 pur me, come conoscer mi volesse. Temp' era già che l'aere s'annerava, ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei 51 non dichiarisse ciò che pria serrava. Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque 54 quando ti vidi non esser tra ' rei! Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimandò: «Quant' è che tu venisti 57 a piè del monte per le lontane acque?». «Oh!», diss' io lui, «per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita, 60 ancor che l'altra, sì andando, acquisti». E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse 63 come gente di sùbito smarrita. L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse che sedea lì, gridando: «Sù, Currado! 66 vieni a veder che Dio per grazia volse». Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado che tu dei a colui che sì nasconde 69 lo suo primo perché, che non lì è guado, quando sarai di là da le larghe onde, dì a Giovanna mia che per me chiami 176 72 là dove a li 'nnocenti si risponde. Non credo che la sua madre più m'ami, poscia che trasmutò le bianche bende, 75 le quai convien che, misera!, ancor brami. Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d'amor dura, 78 se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende. Non le farà sì bella sepultura la vipera che Melanesi accampa, 81 com' avria fatto il gallo di Gallura». Così dicea, segnato de la stampa, nel suo aspetto, di quel dritto zelo 84 che misuratamente in core avvampa. Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur là dove le stelle son più tarde, 87 sì come rota più presso a lo stelo. E 'l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?». E io a lui: «A quelle tre facelle 90 di che 'l polo di qua tutto quanto arde». Ond' elli a me: «Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di là basse, 93 e queste son salite ov' eran quelle». Com' ei parlava, e Sordello a sé il trasse dicendo: «Vedi là 'l nostro avversaro»; 96 e drizzò il dito perché 'n là guardasse. Da quella parte onde non ha riparo la picciola vallea, era una biscia, 99 forse qual diede ad Eva il cibo amaro. Tra l'erba e ' fior venìa la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso 102 leccando come bestia che si liscia. Io non vidi, e però dicer non posso, come mosser li astor celestïali; 105 ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso. Sentendo fender l'aere a le verdi ali, fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta, 108 suso a le poste rivolando iguali. L'ombra che s'era al giudice raccolta quando chiamò, per tutto quello assalto 177 111 punto non fu da me guardare sciolta. «Se la lucerna che ti mena in alto truovi nel tuo arbitrio tanta cera 114 quant' è mestiere infino al sommo smalto», cominciò ella, «se novella vera di Val di Magra o di parte vicina 117 sai, dillo a me, che già grande là era. Fui chiamato Currado Malaspina; non son l'antico, ma di lui discesi; 120 a' miei portai l'amor che qui raffina». «Oh!», diss' io lui, «per li vostri paesi già mai non fui; ma dove si dimora 123 per tutta Europa ch'ei non sien palesi? La fama che la vostra casa onora, grida i segnori e grida la contrada, 126 sì che ne sa chi non vi fu ancora; e io vi giuro, s'io di sopra vada, che vostra gente onrata non si sfregia 129 del pregio de la borsa e de la spada. Uso e natura sì la privilegia, che, perché il capo reo il mondo torca, 132 sola va dritta e 'l mal cammin dispregia». Ed elli: «Or va; che 'l sol non si ricorca sette volte nel letto che 'l Montone 135 con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, che cotesta cortese oppinïone ti fia chiavata in mezzo de la testa 138 con maggior chiovi che d'altrui sermone, se corso di giudicio non s'arresta». 178 CANTO IX [Canto IX, nel quale pone l'auttore uno suo significativo sogno; e poi come pervennero a l'entrata del purgatorio proprio, descrivendo come ne l'entrata di purgatorio trovoe uno angelo che con la punta de la spada che portava in mano scrisse ne la fronte di Dante sette P.] La concubina di Titone antico già s'imbiancava al balco d'orïente, 3 fuor de le braccia del suo dolce amico; di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale 6 che con la coda percuote la gente; e la notte, de' passi con che sale, fatti avea due nel loco ov' eravamo, 9 e 'l terzo già chinava in giuso l'ale; quand' io, che meco avea di quel d'Adamo, vinto dal sonno, in su l'erba inchinai 12 là 've già tutti e cinque sedavamo. Ne l'ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, 15 forse a memoria de' suo' primi guai, e che la mente nostra, peregrina più da la carne e men da' pensier presa, 18 a le sue visïon quasi è divina, in sogno mi parea veder sospesa un'aguglia nel ciel con penne d'oro, 21 con l'ali aperte e a calare intesa; ed esser mi parea là dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, 24 quando fu ratto al sommo consistoro. Fra me pensava: 'Forse questa fiede pur qui per uso, e forse d'altro loco 27 disdegna di portarne suso in piede'. Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse, 30 e me rapisse suso infino al foco. Ivi parea che ella e io ardesse; e sì lo 'ncendio imaginato cosse, 33 che convenne che 'l sonno si rompesse. 179 Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro 36 e non sappiendo là dove si fosse, quando la madre da Chirón a Schiro trafuggò lui dormendo in le sue braccia, 39 là onde poi li Greci il dipartiro; che mi scoss' io, sì come da la faccia mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto, 42 come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia. Dallato m'era solo il mio conforto, e 'l sole er' alto già più che due ore, 45 e 'l viso m'era a la marina torto. «Non aver tema», disse il mio segnore; «fatti sicur, ché noi semo a buon punto; 48 non stringer, ma rallarga ogne vigore. Tu se' omai al purgatorio giunto: vedi là il balzo che 'l chiude dintorno; 51 vedi l'entrata là 've par digiunto. Dianzi, ne l'alba che procede al giorno, quando l'anima tua dentro dormia, 54 sovra li fiori ond' è là giù addorno venne una donna, e disse: "I' son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme; 57 sì l'agevolerò per la sua via". Sordel rimase e l'altre genti forme; ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro, 60 sen venne suso; e io per le sue orme. Qui ti posò, ma pria mi dimostraro li occhi suoi belli quella intrata aperta; 63 poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro». A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, 66 poi che la verità li è discoperta, mi cambia' io; e come sanza cura vide me 'l duca mio, su per lo balzo 69 si mosse, e io di rietro inver' l'altura. Lettor, tu vedi ben com' io innalzo la mia matera, e però con più arte 72 non ti maravigliar s'io la rincalzo. 180 Noi ci appressammo, ed eravamo in parte che là dove pareami prima rotto, 75 pur come un fesso che muro diparte, vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa, di color diversi, 78 e un portier ch'ancor non facea motto. E come l'occhio più e più v'apersi, vidil seder sovra 'l grado sovrano, 81 tal ne la faccia ch'io non lo soffersi; e una spada nuda avëa in mano, che reflettëa i raggi sì ver' noi, 84 ch'io dirizzava spesso il viso in vano. «Dite costinci: che volete voi?», cominciò elli a dire, «ov' è la scorta? 87 Guardate che 'l venir sù non vi nòi». «Donna del ciel, di queste cose accorta», rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi 90 ne disse: "Andate là: quivi è la porta"». «Ed ella i passi vostri in bene avanzi», ricominciò il cortese portinaio: 93 «Venite dunque a' nostri gradi innanzi». Là ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era sì pulito e terso, 96 ch'io mi specchiai in esso qual io paio. Era il secondo tinto più che perso, d'una petrina ruvida e arsiccia, 99 crepata per lo lungo e per traverso. Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, porfido mi parea, sì fiammeggiante 102 come sangue che fuor di vena spiccia. Sovra questo tenëa ambo le piante l'angel di Dio sedendo in su la soglia 105 che mi sembiava pietra di diamante. Per li tre gradi sù di buona voglia mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi 108 umilemente che 'l serrame scioglia». Divoto mi gittai a' santi piedi; misericordia chiesi e ch'el m'aprisse, 111 ma tre volte nel petto pria mi diedi. 181 Sette P ne la fronte mi descrisse col punton de la spada, e «Fa che lavi, 114 quando se' dentro, queste piaghe» disse. Cenere, o terra che secca si cavi, d'un color fora col suo vestimento; 117 e di sotto da quel trasse due chiavi. L'una era d'oro e l'altra era d'argento; pria con la bianca e poscia con la gialla 120 fece a la porta sì, ch'i' fu' contento. «Quandunque l'una d'este chiavi falla, che non si volga dritta per la toppa», 123 diss' elli a noi, «non s'apre questa calla. Più cara è l'una; ma l'altra vuol troppa d'arte e d'ingegno avanti che diserri, 126 perch' ella è quella che 'l nodo digroppa. Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri anzi ad aprir ch'a tenerla serrata, 129 pur che la gente a' piedi mi s'atterri». Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti 132 che di fuor torna chi 'n dietro si guata». E quando fuor ne' cardini distorti li spigoli di quella regge sacra, 135 che di metallo son sonanti e forti, non rugghiò sì né si mostrò sì acra Tarpëa, come tolto le fu il buono 138 Metello, per che poi rimase macra. Io mi rivolsi attento al primo tuono, e ' Te Deum laudamus' mi parea 141 udire in voce mista al dolce suono. Tale imagine a punto mi rendea ciò ch'io udiva, qual prender si suole 144 quando a cantar con organi si stea; ch'or sì or no s'intendon le parole. 182 CANTO X [Canto X, dove si tratta del primo girone del proprio purgatorio, il quale luogo discrive l'auttore sotto certi intagli d'antiche imagini; e qui si purga la colpa de la superbia.] Poi fummo dentro al soglio de la porta che 'l mal amor de l'anime disusa, 3 perché fa parer dritta la via torta, sonando la senti' esser richiusa; e s'io avesse li occhi vòlti ad essa, 6 qual fora stata al fallo degna scusa? Noi salavam per una pietra fessa, che si moveva e d'una e d'altra parte, 9 sì come l'onda che fugge e s'appressa. «Qui si conviene usare un poco d'arte», cominciò 'l duca mio, «in accostarsi 12 or quinci, or quindi al lato che si parte». E questo fece i nostri passi scarsi, tanto che pria lo scemo de la luna 15 rigiunse al letto suo per ricorcarsi, che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti 18 sù dove il monte in dietro si rauna, ïo stancato e amendue incerti di nostra via, restammo in su un piano 21 solingo più che strade per diserti. Da la sua sponda, ove confina il vano, al piè de l'alta ripa che pur sale, 24 misurrebbe in tre volte un corpo umano; e quanto l'occhio mio potea trar d'ale, or dal sinistro e or dal destro fianco, 27 questa cornice mi parea cotale. Là sù non eran mossi i piè nostri anco, quand' io conobbi quella ripa intorno 30 che dritto di salita aveva manco, esser di marmo candido e addorno d'intagli sì, che non pur Policleto, 33 ma la natura lì avrebbe scorno. 183 L'angel che venne in terra col decreto de la molt' anni lagrimata pace, 36 ch'aperse il ciel del suo lungo divieto, dinanzi a noi pareva sì verace quivi intagliato in un atto soave, 39 che non sembiava imagine che tace. Giurato si saria ch'el dicesse ' Ave! '; perché iv' era imaginata quella 42 ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave; e avea in atto impressa esta favella ' Ecce ancilla Deï', propriamente 45 come figura in cera si suggella. «Non tener pur ad un loco la mente», disse 'l dolce maestro, che m'avea 48 da quella parte onde 'l cuore ha la gente. Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa 51 onde m'era colui che mi movea, un'altra storia ne la roccia imposta; per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso, 54 acciò che fosse a li occhi miei disposta. Era intagliato lì nel marmo stesso lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa, 57 per che si teme officio non commesso. Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a' due mie' sensi 60 faceva dir l'un 'No', l'altro 'Sì, canta'. Similemente al fummo de li 'ncensi che v'era imaginato, li occhi e 'l naso 63 e al sì e al no discordi fensi. Lì precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l'umile salmista, 66 e più e men che re era in quel caso. Di contra, effigïata ad una vista d'un gran palazzo, Micòl ammirava 69 sì come donna dispettosa e trista. I' mossi i piè del loco dov' io stava, per avvisar da presso un'altra istoria, 72 che di dietro a Micòl mi biancheggiava. 184 Quiv' era storïata l'alta gloria del roman principato, il cui valore 75 mosse Gregorio a la sua gran vittoria; i' dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, 78 di lagrime atteggiata e di dolore. Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro 81 sovr' essi in vista al vento si movieno. La miserella intra tutti costoro pareva dir: «Segnor, fammi vendetta 84 di mio figliuol ch'è morto, ond' io m'accoro»; ed elli a lei rispondere: «Or aspetta tanto ch'i' torni»; e quella: «Segnor mio», 87 come persona in cui dolor s'affretta, «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov' io, la ti farà»; ed ella: «L'altrui bene 90 a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?»; ond' elli: «Or ti conforta; ch'ei convene ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova: 93 giustizia vuole e pietà mi ritene». Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, 96 novello a noi perché qui non si trova. Mentr' io mi dilettava di guardare l'imagini di tante umilitadi, 99 e per lo fabbro loro a veder care, «Ecco di qua, ma fanno i passi radi», mormorava il poeta, «molte genti: 102 questi ne 'nvïeranno a li alti gradi». Li occhi miei, ch'a mirare eran contenti per veder novitadi ond' e' son vaghi, 105 volgendosi ver' lui non furon lenti. Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire 108 come Dio vuol che 'l debito si paghi. Non attender la forma del martìre: pensa la succession; pensa ch'al peggio 111 oltre la gran sentenza non può ire. 185 Io cominciai: «Maestro, quel ch'io veggio muovere a noi, non mi sembian persone, 114 e non so che, sì nel veder vaneggio». Ed elli a me: «La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, 117 sì che ' miei occhi pria n'ebber tencione. Ma guarda fiso là, e disviticchia col viso quel che vien sotto a quei sassi: 120 già scorger puoi come ciascun si picchia». O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, 123 fidanza avete ne' retrosi passi, non v'accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla, 126 che vola a la giustizia sanza schermi? Di che l'animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, 129 sì come vermo in cui formazion falla? Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura 132 si vede giugner le ginocchia al petto, la qual fa del non ver vera rancura nascere 'n chi la vede; così fatti 135 vid' io color, quando puosi ben cura. Vero è che più e meno eran contratti secondo ch'avien più e meno a dosso; 138 e qual più pazïenza avea ne li atti, piangendo parea dicer: 'Più non posso'. 186 CANTO XI [Canto XI, nel quale si tratta del sopradetto primo girone e de' superbi medesimi, e qui si purga la vana gloria ch'è uno de' rami de la superbia; dove nomina il conte Uberto da Santafiore e messer Provenzano Salvani di Siena e molti altri.] «O Padre nostro, che ne' cieli stai, non circunscritto, ma per più amore 3 ch'ai primi effetti di là sù tu hai, laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore da ogne creatura, com' è degno 6 di render grazie al tuo dolce vapore. Vegna ver' noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi, 9 s'ella non vien, con tutto nostro ingegno. Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, 12 così facciano li uomini de' suoi. Dà oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto 15 a retro va chi più di gir s'affanna. E come noi lo mal ch'avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona 18 benigno, e non guardar lo nostro merto. Nostra virtù che di legger s'adona, non spermentar con l'antico avversaro, 21 ma libera da lui che sì la sprona. Quest' ultima preghiera, segnor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, 24 ma per color che dietro a noi restaro». Così a sé e noi buona ramogna quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo, 27 simile a quel che talvolta si sogna, disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, 30 purgando la caligine del mondo. Se di là sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote 33 da quei c'hanno al voler buona radice? 187 Ben si de' loro atar lavar le note che portar quinci, sì che, mondi e lievi, 36 possano uscire a le stellate ruote. «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi tosto, sì che possiate muover l'ala, 39 che secondo il disio vostro vi lievi, mostrate da qual mano inver' la scala si va più corto; e se c'è più d'un varco, 42 quel ne 'nsegnate che men erto cala; ché questi che vien meco, per lo 'ncarco de la carne d'Adamo onde si veste, 45 al montar sù, contra sua voglia, è parco». Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu' io seguiva, 48 non fur da cui venisser manifeste; ma fu detto: «A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo 51 possibile a salir persona viva. E s'io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, 54 onde portar convienmi il viso basso, cotesti, ch'ancor vive e non si noma, guardere' io, per veder s'i' 'l conosco, 57 e per farlo pietoso a questa soma. Io fui latino e nato d'un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; 60 non so se 'l nome suo già mai fu vosco. L'antico sangue e l'opere leggiadre d'i miei maggior mi fer sì arrogante, 63 che, non pensando a la comune madre, ogn' uomo ebbi in despetto tanto avante, ch'io ne mori', come i Sanesi sanno, 66 e sallo in Campagnatico ogne fante. Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutti miei consorti 69 ha ella tratti seco nel malanno. E qui convien ch'io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, 72 poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti». 188 Ascoltando chinai in giù la faccia; e un di lor, non questi che parlava, 75 si torse sotto il peso che li 'mpaccia, e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi 78 a me che tutto chin con loro andava. «Oh!», diss' io lui, «non se' tu Oderisi, l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte 81 ch'alluminar chiamata è in Parisi?». «Frate», diss' elli, «più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; 84 l'onore è tutto or suo, e mio in parte. Ben non sare' io stato sì cortese mentre ch'io vissi, per lo gran disio 87 de l'eccellenza ove mio core intese. Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse 90 che, possendo peccar, mi volsi a Dio. Oh vana gloria de l'umane posse! com' poco verde in su la cima dura, 93 se non è giunta da l'etati grosse! Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, 96 sì che la fama di colui è scura. Così ha tolto l'uno a l'altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato 99 chi l'uno e l'altro caccerà del nido. Non è il mondan romore altro ch'un fiato di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, 102 e muta nome perché muta lato. Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto 105 anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi', pria che passin mill' anni? ch'è più corto spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia 108 al cerchio che più tardi in cielo è torto. Colui che del cammin sì poco piglia dinanzi a me, Toscana sonò tutta; 111 e ora a pena in Siena sen pispiglia, 189 ond' era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba 114 fu a quel tempo sì com' ora è putta. La vostra nominanza è color d'erba, che viene e va, e quei la discolora 117 per cui ella esce de la terra acerba». E io a lui: «Tuo vero dir m'incora bona umiltà, e gran tumor m'appiani; 120 ma chi è quei di cui tu parlavi ora?». «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani; ed è qui perché fu presuntüoso 123 a recar Siena tutta a le sue mani. Ito è così e va, sanza riposo, poi che morì; cotal moneta rende 126 a sodisfar chi è di là troppo oso». E io: «Se quello spirito ch'attende, pria che si penta, l'orlo de la vita, 129 qua giù dimora e qua sù non ascende, se buona orazïon lui non aita, prima che passi tempo quanto visse, 132 come fu la venuta lui largita?». «Quando vivea più glorïoso», disse, «liberamente nel Campo di Siena, 135 ogne vergogna diposta, s'affisse; e lì, per trar l'amico suo di pena, ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo, 138 si condusse a tremar per ogne vena. Più non dirò, e scuro so che parlo; ma poco tempo andrà, che ' tuoi vicini 141 faranno sì che tu potrai chiosarlo. Quest' opera li tolse quei confini». 190 CANTO XII [Canto XII, ove si tratta del secondo girone dove si sono intagliate certe imagini antiche de' superbi; e quivi si puniscono li superbi medesimi.] Di pari, come buoi che vanno a giogo, m'andava io con quell' anima carca, 3 fin che 'l sofferse il dolce pedagogo. Ma quando disse: «Lascia lui e varca; ché qui è buono con l'ali e coi remi, 6 quantunque può, ciascun pinger sua barca»; dritto sì come andar vuolsi rife'mi con la persona, avvegna che i pensieri 9 mi rimanessero e chinati e scemi. Io m'era mosso, e seguia volontieri del mio maestro i passi, e amendue 12 già mostravam com' eravam leggeri; ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe: buon ti sarà, per tranquillar la via, 15 veder lo letto de le piante tue». Come, perché di lor memoria sia, sovra i sepolti le tombe terragne 18 portan segnato quel ch'elli eran pria, onde lì molte volte si ripiagne per la puntura de la rimembranza, 21 che solo a' pïi dà de le calcagne; sì vid' io lì, ma di miglior sembianza secondo l'artificio, figurato 24 quanto per via di fuor del monte avanza. Vedea colui che fu nobil creato più ch'altra creatura, giù dal cielo 27 folgoreggiando scender, da l'un lato. Vedëa Brïareo fitto dal telo celestïal giacer, da l'altra parte, 30 grave a la terra per lo mortal gelo. Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, 33 mirar le membra d'i Giganti sparte. 191 Vedea Nembròt a piè del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti 36 che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro. O Nïobè, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, 39 tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! O Saùl, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboè, 42 che poi non sentì pioggia né rugiada! O folle Aragne, sì vedea io te già mezza ragna, trista in su li stracci 45 de l'opera che mal per te si fé. O Roboàm, già non par che minacci quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento 48 nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci. Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre fé caro 51 parer lo sventurato addornamento. Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherìb dentro dal tempio, 54 e come, morto lui, quivi il lasciaro. Mostrava la ruina e 'l crudo scempio che fé Tamiri, quando disse a Ciro: 57 «Sangue sitisti, e io di sangue t'empio». Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, 60 e anche le reliquie del martiro. Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Ilïón, come te basso e vile 63 mostrava il segno che lì si discerne! Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi 66 mirar farieno uno ingegno sottile? Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, 69 quant' io calcai, fin che chinato givi. Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d'Eva, e non chinate il volto 72 sì che veggiate il vostro mal sentero! 192 Più era già per noi del monte vòlto e del cammin del sole assai più speso 75 che non stimava l'animo non sciolto, quando colui che sempre innanzi atteso andava, cominciò: «Drizza la testa; 78 non è più tempo di gir sì sospeso. Vedi colà un angel che s'appresta per venir verso noi; vedi che torna 81 dal servigio del dì l'ancella sesta. Di reverenza il viso e li atti addorna, sì che i diletti lo 'nvïarci in suso; 84 pensa che questo dì mai non raggiorna!». Io era ben del suo ammonir uso pur di non perder tempo, sì che 'n quella 87 materia non potea parlarmi chiuso. A noi venìa la creatura bella, biancovestito e ne la faccia quale 90 par tremolando mattutina stella. Le braccia aperse, e indi aperse l'ale; disse: «Venite: qui son presso i gradi, 93 e agevolemente omai si sale. A questo invito vegnon molto radi: o gente umana, per volar sù nata, 96 perché a poco vento così cadi?». Menocci ove la roccia era tagliata; quivi mi batté l'ali per la fronte; 99 poi mi promise sicura l'andata. Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga 102 la ben guidata sopra Rubaconte, si rompe del montar l'ardita foga per le scalee che si fero ad etade 105 ch'era sicuro il quaderno e la doga; così s'allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l'altro girone; 108 ma quinci e quindi l'alta pietra rade. Noi volgendo ivi le nostre persone, ' Beati pauperes spiritu! ' voci 111 cantaron sì, che nol diria sermone. 193 Ahi quanto son diverse quelle foci da l'infernali! ché quivi per canti 114 s'entra, e là giù per lamenti feroci. Già montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo più lieve 117 che per lo pian non mi parea davanti. Ond' io: «Maestro, dì, qual cosa greve levata s'è da me, che nulla quasi 120 per me fatica, andando, si riceve?». Rispuose: «Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, 123 saranno, com' è l'un, del tutto rasi, fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, che non pur non fatica sentiranno, 126 ma fia diletto loro esser sù pinti». Allor fec' io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, 129 se non che ' cenni altrui sospecciar fanno; per che la mano ad accertar s'aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie 132 che non si può fornir per la veduta; e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che 'ncise 135 quel da le chiavi a me sovra le tempie: a che guardando, il mio duca sorrise. 194 CANTO XIII [Canto XIII, dove si tratta del sopradetto girone secondo, e quivi si punisce la colpa della invidia; dove nomina madonna Sapìa, moglie di messer Viviano de' Ghinibaldi da Siena, e molti altri.] Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondamente si risega 3 lo monte che salendo altrui dismala. Ivi così una cornice lega dintorno il poggio, come la primaia; 6 se non che l'arco suo più tosto piega. Ombra non lì è né segno che si paia: parsi la ripa e parsi la via schietta 9 col livido color de la petraia. «Se qui per dimandar gente s'aspetta», ragionava il poeta, «io temo forse 12 che troppo avrà d'indugio nostra eletta». Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro, 15 e la sinistra parte di sé torse. «O dolce lume a cui fidanza i' entro per lo novo cammin, tu ne conduci», 18 dicea, «come condur si vuol quinc' entro. Tu scaldi il mondo, tu sovr' esso luci; s'altra ragione in contrario non ponta, 21 esser dien sempre li tuoi raggi duci». Quanto di qua per un migliaio si conta, tanto di là eravam noi già iti, 24 con poco tempo, per la voglia pronta; e verso noi volar furon sentiti, non però visti, spiriti parlando 27 a la mensa d'amor cortesi inviti. La prima voce che passò volando ' Vinum non habent' altamente disse, 30 e dietro a noi l'andò reïterando. E prima che del tutto non si udisse per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste' 33 passò gridando, e anco non s'affisse. 195 «Oh!», diss' io, «padre, che voci son queste?». E com' io domandai, ecco la terza 36 dicendo: 'Amate da cui male aveste'. E 'l buon maestro: «Questo cinghio sferza la colpa de la invidia, e però sono 39 tratte d'amor le corde de la ferza. Lo fren vuol esser del contrario suono; credo che l'udirai, per mio avviso, 42 prima che giunghi al passo del perdono. Ma ficca li occhi per l'aere ben fiso, e vedrai gente innanzi a noi sedersi, 45 e ciascun è lungo la grotta assiso». Allora più che prima li occhi apersi; guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti 48 al color de la pietra non diversi. E poi che fummo un poco più avanti, udia gridar: 'Maria, òra per noi': 51 gridar 'Michele' e 'Pietro' e 'Tutti santi'. Non credo che per terra vada ancoi omo sì duro, che non fosse punto 54 per compassion di quel ch'i' vidi poi; ché, quando fui sì presso di lor giunto, che li atti loro a me venivan certi, 57 per li occhi fui di grave dolor munto. Di vil ciliccio mi parean coperti, e l'un sofferia l'altro con la spalla, 60 e tutti da la ripa eran sofferti. Così li ciechi a cui la roba falla, stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, 63 e l'uno il capo sopra l'altro avvalla, perché 'n altrui pietà tosto si pogna, non pur per lo sonar de le parole, 66 ma per la vista che non meno agogna. E come a li orbi non approda il sole, così a l'ombre quivi, ond' io parlo ora, 69 luce del ciel di sé largir non vole; ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra e cusce sì, come a sparvier selvaggio 72 si fa però che queto non dimora. 196 A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto: 75 per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio. Ben sapev' ei che volea dir lo muto; e però non attese mia dimanda, 78 ma disse: «Parla, e sie breve e arguto». Virgilio mi venìa da quella banda de la cornice onde cader si puote, 81 perché da nulla sponda s'inghirlanda; da l'altra parte m'eran le divote ombre, che per l'orribile costura 84 premevan sì, che bagnavan le gote. Volsimi a loro e: «O gente sicura», incominciai, «di veder l'alto lume 87 che 'l disio vostro solo ha in sua cura, se tosto grazia resolva le schiume di vostra coscïenza sì che chiaro 90 per essa scenda de la mente il fiume, ditemi, ché mi fia grazioso e caro, s'anima è qui tra voi che sia latina; 93 e forse lei sarà buon s'i' l'apparo». «O frate mio, ciascuna è cittadina d'una vera città; ma tu vuo' dire 96 che vivesse in Italia peregrina». Questo mi parve per risposta udire più innanzi alquanto che là dov' io stava, 99 ond' io mi feci ancor più là sentire. Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava in vista; e se volesse alcun dir 'Come?', 102 lo mento a guisa d'orbo in sù levava. «Spirto», diss' io, «che per salir ti dome, se tu se' quelli che mi rispondesti, 105 fammiti conto o per luogo o per nome». «Io fui sanese», rispuose, «e con questi altri rimendo qui la vita ria, 108 lagrimando a colui che sé ne presti. Savia non fui, avvegna che Sapìa fossi chiamata, e fui de li altrui danni 111 più lieta assai che di ventura mia. 197 E perché tu non creda ch'io t'inganni, odi s'i' fui, com' io ti dico, folle, 114 già discendendo l'arco d'i miei anni. Eran li cittadin miei presso a Colle in campo giunti co' loro avversari, 117 e io pregava Iddio di quel ch'e' volle. Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia, 120 letizia presi a tutte altre dispari, tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia, gridando a Dio: "Omai più non ti temo!", 123 come fé 'l merlo per poca bonaccia. Pace volli con Dio in su lo stremo de la mia vita; e ancor non sarebbe 126 lo mio dover per penitenza scemo, se ciò non fosse, ch'a memoria m'ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, 129 a cui di me per caritate increbbe. Ma tu chi se', che nostre condizioni vai dimandando, e porti li occhi sciolti, 132 sì com' io credo, e spirando ragioni?». «Li occhi», diss' io, «mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ché poca è l'offesa 135 fatta per esser con invidia vòlti. Troppa è più la paura ond' è sospesa l'anima mia del tormento di sotto, 138 che già lo 'ncarco di là giù mi pesa». Ed ella a me: «Chi t'ha dunque condotto qua sù tra noi, se giù ritornar credi?». 141 E io: «Costui ch'è meco e non fa motto. E vivo sono; e però mi richiedi, spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova 144 di là per te ancor li mortai piedi». «Oh, questa è a udir sì cosa nuova», rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami; 147 però col priego tuo talor mi giova. E cheggioti, per quel che tu più brami, se mai calchi la terra di Toscana, 150 che a' miei propinqui tu ben mi rinfami. 198 Tu li vedrai tra quella gente vana che spera in Talamone, e perderagli 153 più di speranza ch'a trovar la Diana; ma più vi perderanno li ammiragli». 199 CANTO XIV [Canto XIV, dove si tratta del sopradetto girone, e qui si purga la sopradetta colpa della invidia; dove nomina messer Rinieri da Calvoli e molti altri.] «Chi è costui che 'l nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo, 3 e apre li occhi a sua voglia e coverchia?». «Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo; domandal tu che più li t'avvicini, 6 e dolcemente, sì che parli, acco'lo». Così due spirti, l'uno a l'altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; 9 poi fer li visi, per dirmi, supini; e disse l'uno: «O anima che fitta nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, 12 per carità ne consola e ne ditta onde vieni e chi se'; ché tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, 15 quanto vuol cosa che non fu più mai». E io: «Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, 18 e cento miglia di corso nol sazia. Di sovr' esso rech' io questa persona: dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, 21 ché 'l nome mio ancor molto non suona». «Se ben lo 'ntendimento tuo accarno con lo 'ntelletto», allora mi rispuose 24 quei che diceva pria, «tu parli d'Arno». E l'altro disse lui: «Perché nascose questi il vocabol di quella riviera, 27 pur com' om fa de l'orribili cose?». E l'ombra che di ciò domandata era, si sdebitò così: «Non so; ma degno 30 ben è che 'l nome di tal valle pèra; ché dal principio suo, ov' è sì pregno l'alpestro monte ond' è tronco Peloro, 33 che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno, 200 infin là 've si rende per ristoro di quel che 'l ciel de la marina asciuga, 36 ond' hanno i fiumi ciò che va con loro, vertù così per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura 39 del luogo, o per mal uso che li fruga: ond' hanno sì mutata lor natura li abitator de la misera valle, 42 che par che Circe li avesse in pastura. Tra brutti porci, più degni di galle che d'altro cibo fatto in uman uso, 45 dirizza prima il suo povero calle. Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi più che non chiede lor possa, 48 e da lor disdegnosa torce il muso. Vassi caggendo; e quant' ella più 'ngrossa, tanto più trova di can farsi lupi 51 la maladetta e sventurata fossa. Discesa poi per più pelaghi cupi, trova le volpi sì piene di froda, 54 che non temono ingegno che le occùpi. Né lascerò di dir perch' altri m'oda; e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta 57 di ciò che vero spirto mi disnoda. Io veggio tuo nepote che diventa cacciator di quei lupi in su la riva 60 del fiero fiume, e tutti li sgomenta. Vende la carne loro essendo viva; poscia li ancide come antica belva; 63 molti di vita e sé di pregio priva. Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille anni 66 ne lo stato primaio non si rinselva». Com' a l'annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch'ascolta, 69 da qual che parte il periglio l'assanni, così vid' io l'altr' anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, 72 poi ch'ebbe la parola a sé raccolta. 201 Lo dir de l'una e de l'altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, 75 e dimanda ne fei con prieghi mista; per che lo spirto che di pria parlòmi ricominciò: «Tu vuo' ch'io mi deduca 78 nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi. Ma da che Dio in te vuol che traluca tanto sua grazia, non ti sarò scarso; 81 però sappi ch'io fui Guido del Duca. Fu il sangue mio d'invidia sì rïarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, 84 visto m'avresti di livore sparso. Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perché poni 'l core 87 là 'v' è mestier di consorte divieto? Questi è Rinier; questi è 'l pregio e l'onore de la casa da Calboli, ove nullo 90 fatto s'è reda poi del suo valore. E non pur lo suo sangue è fatto brullo, tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, 93 del ben richesto al vero e al trastullo; ché dentro a questi termini è ripieno di venenosi sterpi, sì che tardi 96 per coltivare omai verrebber meno. Ov' è 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? 99 Oh Romagnuoli tornati in bastardi! Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, 102 verga gentil di picciola gramigna? Non ti maravigliar s'io piango, Tosco, quando rimembro, con Guido da Prata, 105 Ugolin d'Azzo che vivette nosco, Federigo Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi 108 (e l'una gente e l'altra è diretata), le donne e ' cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia 111 là dove i cuor son fatti sì malvagi. 202 O Bretinoro, ché non fuggi via, poi che gita se n'è la tua famiglia 114 e molta gente per non esser ria? Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, 117 che di figliar tai conti più s'impiglia. Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio lor sen girà; ma non però che puro 120 già mai rimagna d'essi testimonio. O Ugolin de' Fantolin, sicuro è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta 123 chi far lo possa, tralignando, scuro. Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta troppo di pianger più che di parlare, 126 sì m'ha nostra ragion la mente stretta». Noi sapavam che quell' anime care ci sentivano andar; però, tacendo, 129 facëan noi del cammin confidare. Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l'aere fende, 132 voce che giunse di contra dicendo: 'Anciderammi qualunque m'apprende'; e fuggì come tuon che si dilegua, 135 se sùbito la nuvola scoscende. Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, ed ecco l'altra con sì gran fracasso, 138 che somigliò tonar che tosto segua: «Io sono Aglauro che divenni sasso»; e allor, per ristrignermi al poeta, 141 in destro feci, e non innanzi, il passo. Già era l'aura d'ogne parte queta; ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo 144 che dovria l'uom tener dentro a sua meta. Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo de l'antico avversaro a sé vi tira; 147 e però poco val freno o richiamo. Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, 150 e l'occhio vostro pur a terra mira; 203 onde vi batte chi tutto discerne». 204 CANTO XV [Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogo diputato a purgare la colpa e peccato de l'ira; e dichiara Virgilio a Dante uno dubbio nato di parole dette nel precedente canto da Guido del Duca, e una visione ch'aparve in sogno a l'auttore, cioè Dante.] Quanto tra l'ultimar de l'ora terza e 'l principio del dì par de la spera 3 che sempre a guisa di fanciullo scherza, tanto pareva già inver' la sera essere al sol del suo corso rimaso; 6 vespero là, e qui mezza notte era. E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, perché per noi girato era sì 'l monte, 9 che già dritti andavamo inver' l'occaso, quand' io senti' a me gravar la fronte a lo splendore assai più che di prima, 12 e stupor m'eran le cose non conte; ond' io levai le mani inver' la cima de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio, 15 che del soverchio visibile lima. Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, 18 salendo su per lo modo parecchio a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, 21 sì come mostra esperïenza e arte; così mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso; 24 per che a fuggir la mia vista fu ratta. «Che è quel, dolce padre, a che non posso schermar lo viso tanto che mi vaglia», 27 diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?». «Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia la famiglia del cielo», a me rispuose: 30 «messo è che viene ad invitar ch'om saglia. Tosto sarà ch'a veder queste cose non ti fia grave, ma fieti diletto 33 quanto natura a sentir ti dispuose». 205 Poi giunti fummo a l'angel benedetto, con lieta voce disse: «Intrate quinci 36 ad un scaleo vie men che li altri eretto». Noi montavam, già partiti di linci, e ' Beati misericordes! ' fue 39 cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'. Lo mio maestro e io soli amendue suso andavamo; e io pensai, andando, 42 prode acquistar ne le parole sue; e dirizza'mi a lui sì dimandando: «Che volse dir lo spirto di Romagna, 45 e 'divieto' e 'consorte' menzionando?». Per ch'elli a me: «Di sua maggior magagna conosce il danno; e però non s'ammiri 48 se ne riprende perché men si piagna. Perché s'appuntano i vostri disiri dove per compagnia parte si scema, 51 invidia move il mantaco a' sospiri. Ma se l'amor de la spera supprema torcesse in suso il disiderio vostro, 54 non vi sarebbe al petto quella tema; ché, per quanti si dice più lì 'nostro', tanto possiede più di ben ciascuno, 57 e più di caritate arde in quel chiostro». «Io son d'esser contento più digiuno», diss' io, «che se mi fosse pria taciuto, 60 e più di dubbio ne la mente aduno. Com' esser puote ch'un ben, distributo in più posseditor, faccia più ricchi 63 di sé che se da pochi è posseduto?». Ed elli a me: «Però che tu rificchi la mente pur a le cose terrene, 66 di vera luce tenebre dispicchi. Quello infinito e ineffabil bene che là sù è, così corre ad amore 69 com' a lucido corpo raggio vene. Tanto si dà quanto trova d'ardore; sì che, quantunque carità si stende, 72 cresce sovr' essa l'etterno valore. 206 E quanta gente più là sù s'intende, più v'è da bene amare, e più vi s'ama, 75 e come specchio l'uno a l'altro rende. E se la mia ragion non ti disfama, vedrai Beatrice, ed ella pienamente 78 ti torrà questa e ciascun' altra brama. Procaccia pur che tosto sieno spente, come son già le due, le cinque piaghe, 81 che si richiudon per esser dolente». Com' io voleva dicer 'Tu m'appaghe', vidimi giunto in su l'altro girone, 84 sì che tacer mi fer le luci vaghe. Ivi mi parve in una visïone estatica di sùbito esser tratto, 87 e vedere in un tempio più persone; e una donna, in su l'entrar, con atto dolce di madre dicer: «Figliuol mio, 90 perché hai tu così verso noi fatto? Ecco, dolenti, lo tuo padre e io ti cercavamo». E come qui si tacque, 93 ciò che pareva prima, dispario. Indi m'apparve un'altra con quell' acque giù per le gote che 'l dolor distilla 96 quando di gran dispetto in altrui nacque, e dir: «Se tu se' sire de la villa del cui nome ne' dèi fu tanta lite, 99 e onde ogne scïenza disfavilla, vendica te di quelle braccia ardite ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto». 102 E 'l segnor mi parea, benigno e mite, risponder lei con viso temperato: «Che farem noi a chi mal ne disira, 105 se quei che ci ama è per noi condannato?». Poi vidi genti accese in foco d'ira con pietre un giovinetto ancider, forte 108 gridando a sé pur: «Martira, martira!». E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava già, inver' la terra, 111 ma de li occhi facea sempre al ciel porte, 207 orando a l'alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a' suoi persecutori, 114 con quello aspetto che pietà diserra. Quando l'anima mia tornò di fori a le cose che son fuor di lei vere, 117 io riconobbi i miei non falsi errori. Lo duca mio, che mi potea vedere far sì com' om che dal sonno si slega, 120 disse: «Che hai che non ti puoi tenere, ma se' venuto più che mezza lega velando li occhi e con le gambe avvolte, 123 a guisa di cui vino o sonno piega?». «O dolce padre mio, se tu m'ascolte, io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparve 126 quando le gambe mi furon sì tolte». Ed ei: «Se tu avessi cento larve sovra la faccia, non mi sarian chiuse 129 le tue cogitazion, quantunque parve. Ciò che vedesti fu perché non scuse d'aprir lo core a l'acque de la pace 132 che da l'etterno fonte son diffuse. Non dimandai "Che hai?" per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, 135 quando disanimato il corpo giace; ma dimandai per darti forza al piede: così frugar conviensi i pigri, lenti 138 ad usar lor vigilia quando riede». Noi andavam per lo vespero, attenti oltre quanto potean li occhi allungarsi 141 contra i raggi serotini e lucenti. Ed ecco a poco a poco un fummo farsi verso di noi come la notte oscuro; 144 né da quello era loco da cansarsi. Questo ne tolse li occhi e l'aere puro. 208 CANTO XVI [Canto XVI, dove si tratta del sopradetto terzo girone e del purgare la detta colpa de l'ira; e qui Marco Lombardo solve uno dubbio a Dante.] Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, 3 quant' esser può di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, 6 né a sentir di così aspro pelo, che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida 9 mi s'accostò e l'omero m'offerse. Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo 12 in cosa che 'l molesti, o forse ancida, m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva 15 pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia 18 l'Agnel di Dio che le peccata leva. Pur ' Agnus Dei' eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, 21 sì che parea tra esse ogne concordia. «Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo?», diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi, 24 e d'iracundia van solvendo il nodo». «Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue 27 partissi ancor lo tempo per calendi?». Così per una voce detto fue; onde 'l maestro mio disse: «Rispondi, 30 e domanda se quinci si va sùe». E io: «O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, 33 maraviglia udirai, se mi secondi». 209 «Io ti seguiterò quanto mi lece», rispuose; «e se veder fummo non lascia, 36 l'udir ci terrà giunti in quella vece». Allora incominciai: «Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, 39 e venni qui per l'infernale ambascia. E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte 42 per modo tutto fuor del moderno uso, non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco; 45 e tue parole fier le nostre scorte». «Lombardo fui, e fu' chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai 48 al quale ha or ciascun disteso l'arco. Per montar sù dirittamente vai». Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego 51 che per me prieghi quando sù sarai». E io a lui: «Per fede mi ti lego di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio 54 dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego. Prima era scempio, e ora è fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo 57 qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio. Lo mondo è ben così tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, 60 e di malizia gravido e coverto; ma priego che m'addite la cagione, sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui; 63 ché nel cielo uno, e un qua giù la pone». Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!», mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate, 66 lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto 69 movesse seco di necessitate. Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia 72 per ben letizia, e per male aver lutto. 210 Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica, 75 lume v'è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, 78 poi vince tutto, se ben si notrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria 81 la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. Però, se 'l mondo presente disvia, in voi è la cagione, in voi si cheggia; 84 e io te ne sarò or vera spia. Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla 87 che piangendo e ridendo pargoleggia, l'anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, 90 volontier torna a ciò che la trastulla. Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, 93 se guida o fren non torce suo amore. Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver, che discernesse 96 de la vera cittade almen la torre. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, però che 'l pastor che procede, 99 rugumar può, ma non ha l'unghie fesse; per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta, 102 di quel si pasce, e più oltre non chiede. Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che 'l mondo ha fatto reo, 105 e non natura che 'n voi sia corrotta. Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada 108 facean vedere, e del mondo e di Deo. L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l'un con l'altro insieme 111 per viva forza mal convien che vada; 211 però che, giunti, l'un l'altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, 114 ch'ogn' erba si conosce per lo seme. In sul paese ch'Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, 117 prima che Federigo avesse briga; or può sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna, 120 di ragionar coi buoni o d'appressarsi. Ben v'èn tre vecchi ancora in cui rampogna l'antica età la nova, e par lor tardo 123 che Dio a miglior vita li ripogna: Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma, 126 francescamente, il semplice Lombardo. Dì oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, 129 cade nel fango, e sé brutta e la soma». «O Marco mio», diss' io, «bene argomenti; e or discerno perché dal retaggio 132 li figli di Levì furono essenti. Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio di' ch'è rimaso de la gente spenta, 135 in rimprovèro del secol selvaggio?». «O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta», rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, 138 par che del buon Gherardo nulla senta. Per altro sopranome io nol conosco, s'io nol togliessi da sua figlia Gaia. 141 Dio sia con voi, ché più non vegno vosco. Vedi l'albor che per lo fummo raia già biancheggiare, e me convien partirmi 144 (l'angelo è ivi) prima ch'io li paia». Così tornò, e più non volle udirmi. 212 CANTO XVII [Canto XVII, dove tratta de la qualità del quarto girone, dove si purga la colpa de la accidia, dove si ristora l'amore de lo imperfetto bene; e qui dichiara una questione che indi nasce.] Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi 3 non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera 6 del sol debilemente entra per essi; e fia la tua imagine leggera in giugnere a veder com' io rividi 9 lo sole in pria, che già nel corcar era. Sì, pareggiando i miei co' passi fidi del mio maestro, usci' fuor di tal nube 12 ai raggi morti già ne' bassi lidi. O imaginativa che ne rube talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge 15 perché dintorno suonin mille tube, chi move te, se 'l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s'informa, 18 per sé o per voler che giù lo scorge. De l'empiezza di lei che mutò forma ne l'uccel ch'a cantar più si diletta, 21 ne l'imagine mia apparve l'orma; e qui fu la mia mente sì ristretta dentro da sé, che di fuor non venìa 24 cosa che fosse allor da lei ricetta. Poi piovve dentro a l'alta fantasia un crucifisso, dispettoso e fero 27 ne la sua vista, e cotal si moria; intorno ad esso era il grande Assüero, Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo, 30 che fu al dire e al far così intero. E come questa imagine rompeo sé per sé stessa, a guisa d'una bulla 33 cui manca l'acqua sotto qual si feo, 213 surse in mia visïone una fanciulla piangendo forte, e dicea: «O regina, 36 perché per ira hai voluto esser nulla? Ancisa t'hai per non perder Lavina; or m'hai perduta! Io son essa che lutto, 39 madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina». Come si frange il sonno ove di butto nova luce percuote il viso chiuso, 42 che fratto guizza pria che muoia tutto; così l'imaginar mio cadde giuso tosto che lume il volto mi percosse, 45 maggior assai che quel ch'è in nostro uso. I' mi volgea per veder ov' io fosse, quando una voce disse «Qui si monta», 48 che da ogne altro intento mi rimosse; e fece la mia voglia tanto pronta di riguardar chi era che parlava, 51 che mai non posa, se non si raffronta. Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela, 54 così la mia virtù quivi mancava. «Questo è divino spirito, che ne la via da ir sù ne drizza sanza prego, 57 e col suo lume sé medesmo cela. Sì fa con noi, come l'uom si fa sego; ché quale aspetta prego e l'uopo vede, 60 malignamente già si mette al nego. Or accordiamo a tanto invito il piede; procacciam di salir pria che s'abbui, 63 ché poi non si poria, se 'l dì non riede». Così disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala; 66 e tosto ch'io al primo grado fui, senti'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: ' Beati 69 pacifici, che son sanz' ira mala!'. Già eran sovra noi tanto levati li ultimi raggi che la notte segue, 72 che le stelle apparivan da più lati. 214 'O virtù mia, perché sì ti dilegue?', fra me stesso dicea, ché mi sentiva 75 la possa de le gambe posta in triegue. Noi eravam dove più non saliva la scala sù, ed eravamo affissi, 78 pur come nave ch'a la piaggia arriva. E io attesi un poco, s'io udissi alcuna cosa nel novo girone; 81 poi mi volsi al maestro mio, e dissi: «Dolce mio padre, dì, quale offensione si purga qui nel giro dove semo? 84 Se i piè si stanno, non stea tuo sermone». Ed elli a me: «L'amor del bene, scemo del suo dover, quiritta si ristora; 87 qui si ribatte il mal tardato remo. Ma perché più aperto intendi ancora, volgi la mente a me, e prenderai 90 alcun buon frutto di nostra dimora». «Né creator né creatura mai», cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, 93 o naturale o d'animo; e tu 'l sai. Lo naturale è sempre sanza errore, ma l'altro puote errar per malo obietto 96 o per troppo o per poco di vigore. Mentre ch'elli è nel primo ben diretto, e ne' secondi sé stesso misura, 99 esser non può cagion di mal diletto; ma quando al mal si torce, o con più cura o con men che non dee corre nel bene, 102 contra 'l fattore adovra sua fattura. Quinci comprender puoi ch'esser convene amor sementa in voi d'ogne virtute 105 e d'ogne operazion che merta pene. Or, perché mai non può da la salute amor del suo subietto volger viso, 108 da l'odio proprio son le cose tute; e perché intender non si può diviso, e per sé stante, alcuno esser dal primo, 111 da quello odiare ogne effetto è deciso. 215 Resta, se dividendo bene stimo, che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso 114 amor nasce in tre modi in vostro limo. È chi, per esser suo vicin soppresso, spera eccellenza, e sol per questo brama 117 ch'el sia di sua grandezza in basso messo; è chi podere, grazia, onore e fama teme di perder perch' altri sormonti, 120 onde s'attrista sì che 'l contrario ama; ed è chi per ingiuria par ch'aonti, sì che si fa de la vendetta ghiotto, 123 e tal convien che 'l male altrui impronti. Questo triforme amor qua giù di sotto si piange: or vo' che tu de l'altro intende, 126 che corre al ben con ordine corrotto. Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l'animo, e disira; 129 per che di giugner lui ciascun contende. Se lento amore a lui veder vi tira o a lui acquistar, questa cornice, 132 dopo giusto penter, ve ne martira. Altro ben è che non fa l'uom felice; non è felicità, non è la buona 135 essenza, d'ogne ben frutto e radice. L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona, di sovr' a noi si piange per tre cerchi; 138 ma come tripartito si ragiona, tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi». 216 CANTO XVIII [Canto XVIII, il quale tratta del sopradetto quarto girone, ove si purga la soprascritta colpa e peccato de l'accidia; e qui mostra Virgilio che è perfetto amore; dove nomina l'abate da San Zeno di Verona.] Posto avea fine al suo ragionamento l'alto dottore, e attento guardava 3 ne la mia vista s'io parea contento; e io, cui nova sete ancor frugava, di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse 6 lo troppo dimandar ch'io fo li grava'. Ma quel padre verace, che s'accorse del timido voler che non s'apriva, 9 parlando, di parlare ardir mi porse. Ond' io: «Maestro, il mio veder s'avviva sì nel tuo lume, ch'io discerno chiaro 12 quanto la tua ragion parta o descriva. Però ti prego, dolce padre caro, che mi dimostri amore, a cui reduci 15 ogne buono operare e 'l suo contraro». «Drizza», disse, «ver' me l'agute luci de lo 'ntelletto, e fieti manifesto 18 l'error de' ciechi che si fanno duci. L'animo, ch'è creato ad amar presto, ad ogne cosa è mobile che piace, 21 tosto che dal piacere in atto è desto. Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, 24 sì che l'animo ad essa volger face; e se, rivolto, inver' di lei si piega, quel piegare è amor, quell' è natura 27 che per piacer di novo in voi si lega. Poi, come 'l foco movesi in altura per la sua forma ch'è nata a salire 30 là dove più in sua matera dura, così l'animo preso entra in disire, ch'è moto spiritale, e mai non posa 33 fin che la cosa amata il fa gioire. 217 Or ti puote apparer quant' è nascosa la veritate a la gente ch'avvera 36 ciascun amore in sé laudabil cosa; però che forse appar la sua matera sempre esser buona, ma non ciascun segno 39 è buono, ancor che buona sia la cera». «Le tue parole e 'l mio seguace ingegno», rispuos' io lui, «m'hanno amor discoverto, 42 ma ciò m'ha fatto di dubbiar più pregno; ché, s'amore è di fuori a noi offerto e l'anima non va con altro piede, 45 se dritta o torta va, non è suo merto». Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede, dir ti poss' io; da indi in là t'aspetta 48 pur a Beatrice, ch'è opra di fede. Ogne forma sustanzïal, che setta è da matera ed è con lei unita, 51 specifica vertute ha in sé colletta, la qual sanza operar non è sentita, né si dimostra mai che per effetto, 54 come per verdi fronde in pianta vita. Però, là onde vegna lo 'ntelletto de le prime notizie, omo non sape, 57 e de' primi appetibili l'affetto, che sono in voi sì come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia 60 merto di lode o di biasmo non cape. Or perché a questa ogn' altra si raccoglia, innata v'è la virtù che consiglia, 63 e de l'assenso de' tener la soglia. Quest' è 'l principio là onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo 66 che buoni e rei amori accoglie e viglia. Color che ragionando andaro al fondo, s'accorser d'esta innata libertate; 69 però moralità lasciaro al mondo. Onde, poniam che di necessitate surga ogne amor che dentro a voi s'accende, 72 di ritenerlo è in voi la podestate. 218 La nobile virtù Beatrice intende per lo libero arbitrio, e però guarda 75 che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende». La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer più rade, 78 fatta com' un secchion che tuttor arda; e correa contra 'l ciel per quelle strade che 'l sole infiamma allor che quel da Roma 81 tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade. E quell' ombra gentil per cui si noma Pietola più che villa mantoana, 84 del mio carcar diposta avea la soma; per ch'io, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta, 87 stava com' om che sonnolento vana. Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo 90 le nostre spalle a noi era già volta. E quale Ismeno già vide e Asopo lungo di sé di notte furia e calca, 93 pur che i Teban di Bacco avesser uopo, cotal per quel giron suo passo falca, per quel ch'io vidi di color, venendo, 96 cui buon volere e giusto amor cavalca. Tosto fur sovr' a noi, perché correndo si movea tutta quella turba magna; 99 e due dinanzi gridavan piangendo: «Maria corse con fretta a la montagna; e Cesare, per soggiogare Ilerda, 102 punse Marsilia e poi corse in Ispagna». «Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda per poco amor», gridavan li altri appresso, 105 «che studio di ben far grazia rinverda». «O gente in cui fervore aguto adesso ricompie forse negligenza e indugio 108 da voi per tepidezza in ben far messo, questi che vive, e certo i' non vi bugio, vuole andar sù, pur che 'l sol ne riluca; 111 però ne dite ond' è presso il pertugio». 219 Parole furon queste del mio duca; e un di quelli spirti disse: «Vieni 114 di retro a noi, e troverai la buca. Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, che restar non potem; però perdona, 117 se villania nostra giustizia tieni. Io fui abate in San Zeno a Verona sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, 120 di cui dolente ancor Milan ragiona. E tale ha già l'un piè dentro la fossa, che tosto piangerà quel monastero, 123 e tristo fia d'avere avuta possa; perché suo figlio, mal del corpo intero, e de la mente peggio, e che mal nacque, 126 ha posto in loco di suo pastor vero». Io non so se più disse o s'ei si tacque, tant' era già di là da noi trascorso; 129 ma questo intesi, e ritener mi piacque. E quei che m'era ad ogne uopo soccorso disse: «Volgiti qua: vedine due 132 venir dando a l'accidïa di morso». Di retro a tutti dicean: «Prima fue morta la gente a cui il mar s'aperse, 135 che vedesse Iordan le rede sue. E quella che l'affanno non sofferse fino a la fine col figlio d'Anchise, 138 sé stessa a vita sanza gloria offerse». Poi quando fuor da noi tanto divise quell' ombre, che veder più non potiersi, 141 novo pensiero dentro a me si mise, del qual più altri nacquero e diversi; e tanto d'uno in altro vaneggiai, 144 che li occhi per vaghezza ricopersi, e 'l pensamento in sogno trasmutai. 220 CANTO XIX [Canto XIX, ove tratta de la essenza del quinto girone e qui si purga la colpa de l'avarizia; dove nomina papa Adriano nato di Genova de' conti da Lavagna.] Ne l'ora che non può 'l calor dïurno intepidar più 'l freddo de la luna, 3 vinto da terra, e talor da Saturno - quando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in orïente, innanzi a l'alba, 6 surger per via che poco le sta bruna -, mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, 9 con le man monche, e di colore scialba. Io la mirava; e come 'l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, 12 così lo sguardo mio le facea scorta la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d'ora, e lo smarrito volto, 15 com' amor vuol, così le colorava. Poi ch'ell' avea 'l parlar così disciolto, cominciava a cantar sì, che con pena 18 da lei avrei mio intento rivolto. «Io son», cantava, «io son dolce serena, che ' marinari in mezzo mar dismago; 21 tanto son di piacere a sentir piena! Io volsi Ulisse del suo cammin vago al canto mio; e qual meco s'ausa, 24 rado sen parte; sì tutto l'appago!». Ancor non era sua bocca richiusa, quand' una donna apparve santa e presta 27 lunghesso me per far colei confusa. «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», fieramente dicea; ed el venìa 30 con li occhi fitti pur in quella onesta. L'altra prendea, e dinanzi l'apria fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; 33 quel mi svegliò col puzzo che n'uscia. 221 Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; 36 troviam l'aperta per la qual tu entre». Sù mi levai, e tutti eran già pieni de l'alto dì i giron del sacro monte, 39 e andavam col sol novo a le reni. Seguendo lui, portava la mia fronte come colui che l'ha di pensier carca, 42 che fa di sé un mezzo arco di ponte; quand' io udi' «Venite; qui si varca» parlare in modo soave e benigno, 45 qual non si sente in questa mortal marca. Con l'ali aperte, che parean di cigno, volseci in sù colui che sì parlonne 48 tra due pareti del duro macigno. Mosse le penne poi e ventilonne, ' Qui lugent' affermando esser beati, 51 ch'avran di consolar l'anime donne. «Che hai che pur inver' la terra guati?», la guida mia incominciò a dirmi, 54 poco amendue da l'angel sormontati. E io: «Con tanta sospeccion fa irmi novella visïon ch'a sé mi piega, 57 sì ch'io non posso dal pensar partirmi». «Vedesti», disse, «quell'antica strega che sola sovr' a noi omai si piagne; 60 vedesti come l'uom da lei si slega. Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira 63 lo rege etterno con le rote magne». Quale 'l falcon, che prima a' pié si mira, indi si volge al grido e si protende 66 per lo disio del pasto che là il tira, tal mi fec' io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso, 69 n'andai infin dove 'l cerchiar si prende. Com' io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, 72 giacendo a terra tutta volta in giuso. 222 ' Adhaesit pavimento anima mea' sentia dir lor con sì alti sospiri, 75 che la parola a pena s'intendea. «O eletti di Dio, li cui soffriri e giustizia e speranza fa men duri, 78 drizzate noi verso li alti saliri». «Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via più tosto, 81 le vostre destre sien sempre di fori». Così pregò 'l poeta, e sì risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io 84 nel parlare avvisai l'altro nascosto, e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assentì con lieto cenno 87 ciò che chiedea la vista del disio. Poi ch'io potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura 90 le cui parole pria notar mi fenno, dicendo: «Spirto in cui pianger matura quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi, 93 sosta un poco per me tua maggior cura. Chi fosti e perché vòlti avete i dossi al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri 96 cosa di là ond' io vivendo mossi». Ed elli a me: «Perché i nostri diretri rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima 99 scias quod ego fui successor Petri. Intra Sïestri e Chiaveri s'adima una fiumana bella, e del suo nome 102 lo titol del mio sangue fa sua cima. Un mese e poco più prova' io come pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, 105 che piuma sembran tutte l'altre some. La mia conversïone, omè!, fu tarda; ma, come fatto fui roman pastore, 108 così scopersi la vita bugiarda. Vidi che lì non s'acquetava il core, né più salir potiesi in quella vita; 111 per che di questa in me s'accese amore. 223 Fino a quel punto misera e partita da Dio anima fui, del tutto avara; 114 or, come vedi, qui ne son punita. Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara in purgazion de l'anime converse; 117 e nulla pena il monte ha più amara. Sì come l'occhio nostro non s'aderse in alto, fisso a le cose terrene, 120 così giustizia qui a terra il merse. Come avarizia spense a ciascun bene lo nostro amore, onde operar perdési, 123 così giustizia qui stretti ne tene, ne' piedi e ne le man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto Sire, 126 tanto staremo immobili e distesi». Io m'era inginocchiato e volea dire; ma com' io cominciai ed el s'accorse, 129 solo ascoltando, del mio reverire, «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». E io a lui: «Per vostra dignitate 132 mia coscïenza dritto mi rimorse». «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», rispuose; «non errar: conservo sono 135 teco e con li altri ad una podestate. Se mai quel santo evangelico suono che dice ' Neque nubent' intendesti, 138 ben puoi veder perch' io così ragiono. Vattene omai: non vo' che più t'arresti; ché la tua stanza mio pianger disagia, 141 col qual maturo ciò che tu dicesti. Nepote ho io di là c'ha nome Alagia, buona da sé, pur che la nostra casa 144 non faccia lei per essempro malvagia; e questa sola di là m'è rimasa». 224 CANTO XX [Canto XX, ove si tratta del sopradetto girone e de la sopradetta colpa de l'avarizia.] Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra 'l piacer mio, per piacerli, 3 trassi de l'acqua non sazia la spugna. Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia, 6 come si va per muro stretto a' merli; ché la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, 9 da l'altra parte in fuor troppo s'approccia. Maladetta sie tu, antica lupa, che più che tutte l'altre bestie hai preda 12 per la tua fame sanza fine cupa! O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di qua giù trasmutarsi, 15 quando verrà per cui questa disceda? Noi andavam con passi lenti e scarsi, e io attento a l'ombre, ch'i' sentia 18 pietosamente piangere e lagnarsi; e per ventura udi' «Dolce Maria!» dinanzi a noi chiamar così nel pianto 21 come fa donna che in parturir sia; e seguitar: «Povera fosti tanto, quanto veder si può per quello ospizio 24 dove sponesti il tuo portato santo». Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio, con povertà volesti anzi virtute 27 che gran ricchezza posseder con vizio». Queste parole m'eran sì piaciute, ch'io mi trassi oltre per aver contezza 30 di quello spirto onde parean venute. Esso parlava ancor de la larghezza che fece Niccolò a le pulcelle, 33 per condurre ad onor lor giovinezza. «O anima che tanto ben favelle, 225 dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola 36 tu queste degne lode rinovelle. Non fia sanza mercé la tua parola, s'io ritorno a compiér lo cammin corto 39 di quella vita ch'al termine vola». Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto ch'io attenda di là, ma perché tanta 42 grazia in te luce prima che sie morto. Io fui radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia, 45 sì che buon frutto rado se ne schianta. Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia potesser, tosto ne saria vendetta; 48 e io la cheggio a lui che tutto giuggia. Chiamato fui di là Ugo Ciappetta; di me son nati i Filippi e i Luigi 51 per cui novellamente è Francia retta. Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi: quando li regi antichi venner meno 54 tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi, trova'mi stretto ne le mani il freno del governo del regno, e tanta possa 57 di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno, ch'a la corona vedova promossa la testa di mio figlio fu, dal quale 60 cominciar di costor le sacrate ossa. Mentre che la gran dota provenzale al sangue mio non tolse la vergogna, 63 poco valea, ma pur non facea male. Lì cominciò con forza e con menzogna la sua rapina; e poscia, per ammenda, 66 Pontì e Normandia prese e Guascogna. Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fé di Curradino; e poi 69 ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. Tempo vegg' io, non molto dopo ancoi, che tragge un altro Carlo fuor di Francia, 72 per far conoscer meglio e sé e ' suoi. Sanz' arme n'esce e solo con la lancia 226 con la qual giostrò Giuda, e quella ponta 75 sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia. Quindi non terra, ma peccato e onta guadagnerà, per sé tanto più grave, 78 quanto più lieve simil danno conta. L'altro, che già uscì preso di nave, veggio vender sua figlia e patteggiarne 81 come fanno i corsar de l'altre schiave. O avarizia, che puoi tu più farne, poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto, 84 che non si cura de la propria carne? Perché men paia il mal futuro e 'l fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, 87 e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un'altra volta esser deriso; veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele, 90 e tra vivi ladroni esser anciso. Veggio il novo Pilato sì crudele, che ciò nol sazia, ma sanza decreto 93 portar nel Tempio le cupide vele. O Segnor mio, quando sarò io lieto a veder la vendetta che, nascosa, 96 fa dolce l'ira tua nel tuo secreto? Ciò ch'io dicea di quell' unica sposa de lo Spirito Santo e che ti fece 99 verso me volger per alcuna chiosa, tanto è risposto a tutte nostre prece quanto 'l dì dura; ma com' el s'annotta, 102 contrario suon prendemo in quella vece. Noi repetiam Pigmalïon allotta, cui traditore e ladro e paricida 105 fece la voglia sua de l'oro ghiotta; e la miseria de l'avaro Mida, che seguì a la sua dimanda gorda, 108 per la qual sempre convien che si rida. Del folle Acàn ciascun poi si ricorda, come furò le spoglie, sì che l'ira 111 di Iosüè qui par ch'ancor lo morda. Indi accusiam col marito Saffira; 227 lodiam i calci ch'ebbe Elïodoro; 114 e in infamia tutto 'l monte gira Polinestòr ch'ancise Polidoro; ultimamente ci si grida: "Crasso, 117 dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?". Talor parla l'uno alto e l'altro basso, secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona 120 ora a maggiore e ora a minor passo: però al ben che 'l dì ci si ragiona, dianzi non era io sol; ma qui da presso 123 non alzava la voce altra persona». Noi eravam partiti già da esso, e brigavam di soverchiar la strada 126 tanto quanto al poder n'era permesso, quand' io senti', come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo 129 qual prender suol colui ch'a morte vada. Certo non si scoteo sì forte Delo, pria che Latona in lei facesse 'l nido 132 a parturir li due occhi del cielo. Poi cominciò da tutte parti un grido tal, che 'l maestro inverso me si feo, 135 dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido». ' Glorïa in excelsis' tutti ' Deo' dicean, per quel ch'io da' vicin compresi, 138 onde intender lo grido si poteo. No' istavamo immobili e sospesi come i pastor che prima udir quel canto, 141 fin che 'l tremar cessò ed el compiési. Poi ripigliammo nostro cammin santo, guardando l'ombre che giacean per terra, 144 tornate già in su l'usato pianto. Nulla ignoranza mai con tanta guerra mi fé desideroso di sapere, 147 se la memoria mia in ciò non erra, quanta pareami allor, pensando, avere; né per la fretta dimandare er' oso, 150 né per me lì potea cosa vedere: così m'andava timido e pensoso. 228 CANTO XXI [Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si punisce e purga la predetta colpa de l'avarizia e la colpa de la prodigalitade; dove truova Stazio poeta tolosano.] La sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta 3 samaritana domandò la grazia, mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, 6 e condoleami a la giusta vendetta. Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, 9 già surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; 12 né ci addemmo di lei, sì parlò pria, dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace». Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio 15 rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface. Poi cominciò: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte 18 che me rilega ne l'etterno essilio». «Come!», diss' elli, e parte andavam forte: «se voi siete ombre che Dio sù non degni, 21 chi v'ha per la sua scala tanto scorte?». E 'l dottor mio: «Se tu riguardi a' segni che questi porta e che l'angel profila, 24 ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia 27 che Cloto impone a ciascuno e compila, l'anima sua, ch'è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, 30 però ch'al nostro modo non adocchia. Ond' io fui tratto fuor de l'ampia gola d'inferno per mostrarli, e mosterrolli 33 oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. 229 Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una 36 parve gridare infino a' suoi piè molli». Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza 39 si fece la mia sete men digiuna. Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religïone 42 de la montagna, o che sia fuor d'usanza. Libero è qui da ogne alterazione: di quel che 'l ciel da sé in sé riceve 45 esser ci puote, e non d'altro, cagione. Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade 48 che la scaletta di tre gradi breve; nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, 51 che di là cangia sovente contrade; secco vapor non surge più avante ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, 54 dov' ha 'l vicario di Pietro le piante. Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che 'n terra si nasconda, 57 non so come, qua sù non tremò mai. Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova 60 per salir sù; e tal grido seconda. De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, 63 l'alma sorprende, e di voler le giova. Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, 66 come fu al peccar, pone al tormento. E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent' anni e più, pur mo sentii 69 libera volontà di miglior soglia: però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode 72 a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». 230 Così ne disse; e però ch'el si gode tanto del ber quant' è grande la sete, 75 non saprei dir quant' el mi fece prode. E 'l savio duca: «Omai veggio la rete che qui vi 'mpiglia e come si scalappia, 78 perché ci trema e di che congaudete. Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perché tanti secoli giaciuto 81 qui se', ne le parole tue mi cappia». «Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendicò le fóra 84 ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto, col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, 87 «famoso assai, ma non con fede ancora. Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, 90 dove mertai le tempie ornar di mirto. Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; 93 ma caddi in via con la seconda soma. Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma 96 onde sono allumati più di mille; de l'Eneïda dico, la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: 99 sanz' essa non fermai peso di dramma. E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole 102 più che non deggio al mio uscir di bando». Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; 105 ma non può tutto la virtù che vuole; ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, 108 che men seguon voler ne' più veraci. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi 111 ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; 231 e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso 114 un lampeggiar di riso dimostrommi?». Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura 117 ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli 120 quel ch'e' dimanda con cotanta cura». Ond' io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; 123 ma più d'ammirazion vo' che ti pigli. Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti 126 forte a cantar de li uomini e d'i dèi. Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi 129 quelle parole che di lui dicesti». Già s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, 132 non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, 135 quand' io dismento nostra vanitate, trattando l'ombre come cosa salda». 232 CANTO XXII [Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.] Già era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea vòlti al sesto giro, 3 avendomi dal viso un colpo raso; e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci 6 con ' sitiunt', sanz' altro, ciò forniro. E io più lieve che per l'altre foci m'andava, sì che sanz' alcun labore 9 seguiva in sù li spiriti veloci; quando Virgilio incominciò: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, 12 pur che la fiamma sua paresse fore; onde da l'ora che tra noi discese nel limbo de lo 'nferno Giovenale, 15 che la tua affezion mi fé palese, mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, 18 sì ch'or mi parran corte queste scale. Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m'allarga il freno, 21 e come amico omai meco ragiona: come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno 24 di quanto per tua cura fosti pieno?». Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: 27 «Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno. Veramente più volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera 30 per le vere ragion che son nascose. La tua dimanda tuo creder m'avvera esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, 33 forse per quella cerchia dov' io era. 233 Or sappi ch'avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura 36 migliaia di lunari hanno punita. E se non fosse ch'io drizzai mia cura, quand' io intesi là dove tu chiame, 39 crucciato quasi a l'umana natura: 'Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali?', 42 voltando sentirei le giostre grame. Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali potean le mani a spendere, e pente'mi 45 così di quel come de li altri mali. Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca 48 toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, 51 con esso insieme qui suo verde secca; però, s'io son tra quella gente stato che piange l'avarizia, per purgarmi, 54 per lo contrario suo m'è incontrato». «Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta», 57 disse 'l cantor de' buccolici carmi, «per quello che Clïò teco lì tasta, non par che ti facesse ancor fedele 60 la fede, sanza qual ben far non basta. Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti 63 poscia di retro al pescator le vele?». Ed elli a lui: «Tu prima m'invïasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, 66 e prima appresso Dio m'alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, 69 ma dopo sé fa le persone dotte, quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, 72 e progenïe scende da ciel nova'. 234 Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, 75 a colorare stenderò la mano. Già era 'l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata 78 per li messaggi de l'etterno regno; e la parola tua sopra toccata si consonava a' nuovi predicanti; 81 ond' io a visitarli presi usata. Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, 84 sanza mio lagrimar non fur lor pianti; e mentre che di là per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi 87 fer dispregiare a me tutte altre sette. E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi di Tebe poetando, ebb' io battesmo; 90 ma per paura chiuso cristian fu'mi, lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio 93 cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo. Tu dunque, che levato hai il coperchio che m'ascondeva quanto bene io dico, 96 mentre che del salire avem soverchio, dimmi dov' è Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: 99 dimmi se son dannati, e in qual vico». «Costoro e Persio e io e altri assai», rispuose il duca mio, «siam con quel Greco 102 che le Muse lattar più ch'altri mai, nel primo cinghio del carcere cieco; spesse fïate ragioniam del monte 105 che sempre ha le nutrice nostre seco. Euripide v'è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe 108 Greci che già di lauro ornar la fronte. Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Deïfile e Argia, 111 e Ismene sì trista come fue. 235 Védeisi quella che mostrò Langia; èvvi la figlia di Tiresia, e Teti, 114 e con le suore sue Deïdamia». Tacevansi ambedue già li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, 117 liberi da saliri e da pareti; e già le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, 120 drizzando pur in sù l'ardente corno, quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, 123 girando il monte come far solemo». Così l'usanza fu lì nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto 126 per l'assentir di quell' anima degna. Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, 129 ch'a poetar mi davano intelletto. Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, 132 con pomi a odorar soavi e buoni; e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, così quello in giuso, 135 cred' io, perché persona sù non vada. Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro 138 e si spandeva per le foglie suso. Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde 141 gridò: «Di questo cibo avrete caro». Poi disse: «Più pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, 144 ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde. E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d'acqua; e Danïello 147 dispregiò cibo e acquistò savere. Lo secol primo, quant' oro fu bello, fé savorose con fame le ghiande, 150 e nettare con sete ogne ruscello. 236 Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; 153 per ch'elli è glorïoso e tanto grande quanto per lo Vangelio v'è aperto». 237 CANTO XXIII [Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.] Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava ïo sì come far suole 3 chi dietro a li uccellin sua vita perde, lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto 6 più utilmente compartir si vuole». Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, 9 che l'andar mi facean di nullo costo. Ed ecco piangere e cantar s'udìe ' Labïa mëa, Domine' per modo 12 tal, che diletto e doglia parturìe. «O dolce padre, che è quel ch'i' odo?», comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno 15 forse di lor dover solvendo il nodo». Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, 18 che si volgono ad essa e non restanno, così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava 21 d'anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema 24 che da l'ossa la pelle s'informava. Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, 27 per digiunar, quando più n'ebbe tema. Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perdé Ierusalemme, 30 quando Maria nel figlio diè di becco!'. Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo' 33 ben avria quivi conosciuta l'emme. 238 Chi crederebbe che l'odor d'un pomo sì governasse, generando brama, 36 e quel d'un'acqua, non sappiendo como? Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta 39 di lor magrezza e di lor trista squama, ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; 42 poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?». Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese 45 ciò che l'aspetto in sé avea conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, 48 e ravvisai la faccia di Forese. «Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, 51 né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; 54 non rimaner che tu non mi favelle!». «La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», 57 rispuos' io lui, «veggendola sì torta. Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr' io mi maraviglio, 60 ché mal può dir chi è pien d'altra voglia». Ed elli a me: «De l'etterno consiglio cade vertù ne l'acqua e ne la pianta 63 rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio. Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, 66 in fame e 'n sete qui si rifà santa. Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo 69 che si distende su per sua verdura. E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: 72 io dico pena, e dovria dir sollazzo, 239 ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire ' Elì', 75 quando ne liberò con la sua vena». E io a lui: «Forese, da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior vita, 78 cinqu' anni non son vòlti infino a qui. Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l'ora 81 del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua sù venuto ancora? Io ti credea trovar là giù di sotto, 84 dove tempo per tempo si ristora». Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i martìri 87 la Nella mia con suo pianger dirotto. Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, 90 e liberato m'ha de li altri giri. Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, 93 quanto in bene operare è più soletta; ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica 96 che la Barbagia dov' io la lasciai. O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? Tempo futuro m'è già nel cospetto, 99 cui non sarà quest' ora molto antica, nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine 102 l'andar mostrando con le poppe il petto. Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, 105 o spiritali o altre discipline? Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, 108 già per urlare avrian le bocche aperte; ché, se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli 111 colui che mo si consola con nanna. 240 Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente 114 tutta rimira là dove 'l sol veli». Per ch'io a lui: «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, 117 ancor fia grave il memorar presente. Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda 120 vi si mostrò la suora di colui», e 'l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m'ha d'i veri morti 123 con questa vera carne che 'l seconda. Indi m'han tratto sù li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna 126 che drizza voi che 'l mondo fece torti. Tanto dice di farmi sua compagna che io sarò là dove fia Beatrice; 129 quivi convien che sanza lui rimagna. Virgilio è questi che così mi dice», e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra 132 per cuï scosse dianzi ogne pendice lo vostro regno, che da sé lo sgombra». 241 CANTO XXIV [Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui alcune cose a venire de la città lucana.] Né 'l dir l'andar, né l'andar lui più lento facea, ma ragionando andavam forte, 3 sì come nave pinta da buon vento; e l'ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione 6 traean di me, di mio vivere accorte. E io, continüando al mio sermone, dissi: «Ella sen va sù forse più tarda 9 che non farebbe, per altrui cagione. Ma dimmi, se tu sai, dov' è Piccarda; dimmi s'io veggio da notar persona 12 tra questa gente che sì mi riguarda». «La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse più, trïunfa lieta 15 ne l'alto Olimpo già di sua corona». Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch'è sì munta 18 nostra sembianza via per la dïeta. Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia 21 di là da lui più che l'altre trapunta ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno 24 l'anguille di Bolsena e la vernaccia». Molti altri mi nomò ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, 27 sì ch'io però non vidi un atto bruno. Vidi per fame a vòto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio 30 che pasturò col rocco molte genti. Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio già di bere a Forlì con men secchezza, 33 e sì fu tal, che non si sentì sazio. 242 Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, 36 che più parea di me aver contezza. El mormorava; e non so che «Gentucca» sentiv' io là, ov' el sentia la piaga 39 de la giustizia che sì li pilucca. «O anima», diss' io, «che par sì vaga di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda, 42 e te e me col tuo parlare appaga». «Femmina è nata, e non porta ancor benda», cominciò el, «che ti farà piacere 45 la mia città, come ch'om la riprenda. Tu te n'andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, 48 dichiareranti ancor le cose vere. Ma dì s'i' veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando 51 ' Donne ch'avete intelletto d'amore'». E io a lui: «I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo 54 ch'e' ditta dentro vo significando». «O frate, issa vegg' io», diss' elli, «il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne 57 di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, 60 che de le nostre certo non avvenne; e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l'uno a l'altro stilo»; 63 e, quasi contentato, si tacette. Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, 66 poi volan più a fretta e vanno in filo, così tutta la gente che lì era, volgendo 'l viso, raffrettò suo passo, 69 e per magrezza e per voler leggera. E come l'uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e sì passeggia 72 fin che si sfoghi l'affollar del casso, 243 sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, 75 dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?». «Non so», rispuos' io lui, «quant' io mi viva; ma già non fïa il tornar mio tantosto, 78 ch'io non sia col voler prima a la riva; però che 'l loco u' fui a viver posto, di giorno in giorno più di ben si spolpa, 81 e a trista ruina par disposto». «Or va», diss' el; «che quei che più n'ha colpa, vegg' ïo a coda d'una bestia tratto 84 inver' la valle ove mai non si scolpa. La bestia ad ogne passo va più ratto, crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, 87 e lascia il corpo vilmente disfatto. Non hanno molto a volger quelle ruote», e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro 90 ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. Tu ti rimani omai; ché 'l tempo è caro in questo regno, sì ch'io perdo troppo 93 venendo teco sì a paro a paro». Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, 96 e va per farsi onor del primo intoppo, tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due 99 che fuor del mondo sì gran marescalchi. E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, 102 come la mente a le parole sue, parvermi i rami gravidi e vivaci d'un altro pomo, e non molto lontani 105 per esser pur allora vòlto in laci. Vidi gente sott' esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, 108 quasi bramosi fantolini e vani che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, 111 tien alto lor disio e nol nasconde. 244 Poi si partì sì come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, 114 che tanti prieghi e lagrime rifiuta. «Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più sù che fu morso da Eva, 117 e questa pianta si levò da esso». Sì tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, 120 oltre andavam dal lato che si leva. «Ricordivi», dicea, «d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, 123 Tesëo combatter co' doppi petti; e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, 126 quando inver' Madïan discese i colli». Sì accostati a l'un d'i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola 129 seguite già da miseri guadagni. Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e più ci portar oltre, 132 contemplando ciascun sanza parola. «Che andate pensando sì voi sol tre?». sùbita voce disse; ond' io mi scossi 135 come fan bestie spaventate e poltre. Drizzai la testa per veder chi fossi; e già mai non si videro in fornace 138 vetri o metalli sì lucenti e rossi, com' io vidi un che dicea: «S'a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; 141 quinci si va chi vuole andar per pace». L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, 144 com' om che va secondo ch'elli ascolta. E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, 147 tutta impregnata da l'erba e da' fiori; tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, 150 che fé sentir d'ambrosïa l'orezza. 245 E senti' dir: «Beati cui alluma tanto di grazia, che l'amor del gusto 153 nel petto lor troppo disir non fuma, esurïendo sempre quanto è giusto!». 246 CANTO XXV [Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti, dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.] Ora era onde 'l salir non volea storpio; ché 'l sole avëa il cerchio di merigge 3 lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: per che, come fa l'uom che non s'affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, 6 se di bisogno stimolo il trafigge, così intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala 9 che per artezza i salitor dispaia. E quale il cicognin che leva l'ala per voglia di volare, e non s'attenta 12 d'abbandonar lo nido, e giù la cala; tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l'atto 15 che fa colui ch'a dicer s'argomenta. Non lasciò, per l'andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca 18 l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto». Allor sicuramente apri' la bocca e cominciai: «Come si può far magro 21 là dove l'uopo di nodrir non tocca?». «Se t'ammentassi come Meleagro si consumò al consumar d'un stizzo, 24 non fora», disse, «a te questo sì agro; e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, 27 ciò che par duro ti parrebbe vizzo. Ma perché dentro a tuo voler t'adage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego 30 che sia or sanator de le tue piage». «Se la veduta etterna li dislego», rispuose Stazio, «là dove tu sie, 33 discolpi me non potert' io far nego». 247 Poi cominciò: «Se le parole mie, figlio, la mente tua guarda e riceve, 36 lume ti fiero al come che tu die. Sangue perfetto, che poi non si beve da l'assetate vene, e si rimane 39 quasi alimento che di mensa leve, prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello 42 ch'a farsi quelle per le vene vane. Ancor digesto, scende ov' è più bello tacer che dire; e quindi poscia geme 45 sovr' altrui sangue in natural vasello. Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, l'un disposto a patire, e l'altro a fare 48 per lo perfetto loco onde si preme; e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva 51 ciò che per sua matera fé constare. Anima fatta la virtute attiva qual d'una pianta, in tanto differente, 54 che questa è in via e quella è già a riva, tanto ovra poi, che già si move e sente, come spungo marino; e indi imprende 57 ad organar le posse ond' è semente. Or si spiega, figliuolo, or si distende la virtù ch'è dal cor del generante, 60 dove natura a tutte membra intende. Ma come d'animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest' è tal punto, 63 che più savio di te fé già errante, sì che per sua dottrina fé disgiunto da l'anima il possibile intelletto, 66 perché da lui non vide organo assunto. Apri a la verità che viene il petto; e sappi che, sì tosto come al feto 69 l'articular del cerebro è perfetto, lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant' arte di natura, e spira 72 spirito novo, di vertù repleto, 248 che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, 75 che vive e sente e sé in sé rigira. E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, 78 giunto a l'omor che de la vite cola. Quando Làchesis non ha più del lino, solvesi da la carne, e in virtute 81 ne porta seco e l'umano e 'l divino: l'altre potenze tutte quante mute; memoria, intelligenza e volontade 84 in atto molto più che prima agute. Sanza restarsi, per sé stessa cade mirabilmente a l'una de le rive; 87 quivi conosce prima le sue strade. Tosto che loco lì la circunscrive, la virtù formativa raggia intorno 90 così e quanto ne le membra vive. E come l'aere, quand' è ben pïorno, per l'altrui raggio che 'n sé si reflette, 93 di diversi color diventa addorno; così l'aere vicin quivi si mette e in quella forma ch'è in lui suggella 96 virtüalmente l'alma che ristette; e simigliante poi a la fiammella che segue il foco là 'vunque si muta, 99 segue lo spirto sua forma novella. Però che quindi ha poscia sua paruta, è chiamata ombra; e quindi organa poi 102 ciascun sentire infino a la veduta. Quindi parliamo e quindi ridiam noi; quindi facciam le lagrime e ' sospiri 105 che per lo monte aver sentiti puoi. Secondo che ci affliggono i disiri e li altri affetti, l'ombra si figura; 108 e quest' è la cagion di che tu miri». E già venuto a l'ultima tortura s'era per noi, e vòlto a la man destra, 111 ed eravamo attenti ad altra cura. 249 Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso 114 che la reflette e via da lei sequestra; ond' ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temëa 'l foco 117 quinci, e quindi temeva cader giuso. Lo duca mio dicea: «Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, 120 però ch'errar potrebbesi per poco». ' Summae Deus clementïae' nel seno al grande ardore allora udi' cantando, 123 che di volger mi fé caler non meno; e vidi spirti per la fiamma andando; per ch'io guardava a loro e a' miei passi, 126 compartendo la vista a quando a quando. Appresso il fine ch'a quell' inno fassi, gridavano alto: ' Virum non cognosco'; 129 indi ricominciavan l'inno bassi. Finitolo, anco gridavano: «Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne 132 che di Venere avea sentito il tòsco». Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti 135 come virtute e matrimonio imponne. E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: 138 con tal cura conviene e con tai pasti che la piaga da sezzo si ricuscia. 250